Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo XIV
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L'AUTORE
A CHI LEGGE.
(Tomo XIV)
La Pontremoli, Servetta, era passata in Sassonia; ma quel che più m’interessava, era la partenza della Zannetta Casanova, la quale oltre al posto di seconda Donna nelle Commedie, lasciava un vacuo considerabile negl’Intermezzi. Ella pure, malgrado l’attaccamento non di lei all’Imer, ma dell’Imer a lei, lasciò gli Amici e la Patria, e andò al servizio del Re di Polonia. Il Costantini Arlecchino era stato dalla Compagnia licenziato, ed in suo luogo avevano preso un certo Campagnani Milanese, il quale facea le delizie del suo Paese, recitando fra dilettanti, ed avea molto spirito e moltissima abilità; ma altra cosa è recitare fra dilettanti ed il recitare fra Comici. Riuscì mediocremente in quel Personaggio, ma io lo feci brillare in un altro carattere, come vedremo.
Per la parte di seconda Donna presero la Tonina Ferramonti Bolognese, Moglie del Ferramonti solito a recitare da Pantalone, e che piaceva da per tutto, fuorchè in Venezia. Questa Donna, giovane, bella, di aspetto signorile e di tratto nobile, piena di talento e adorna di grazie, era un buonissimo acquisto per la Compagnia; poichè recitava assai bene nelle Commedie ed ancor meglio nelle Tragedie. Passava seco lei una gran parte del giorno. La sua conversazione non poteva essere più amabile: si ripassavano insieme le parti, ed il marito avanzato negli anni era contento che il Poeta della Compagnia prediligesse sua Moglie, la quale, quant’era brava e vezzosa, era altrettanto saggia e prudente. Ciò non mancò di produrre delle gelosie nelle Commedianti provette, e l’Imer rideva, veggendomi entrare in quel labirinto, dal quale egli era uscito alla mancanza della Servetta; ed a quella della Zannetta, per gl’intermezzi, supplito avevano con una sola persona. Quest’era Elisabetta Passalacqua Napoletana, figlia del Comico Alessandro d’Afflisio e giovane spiritosissima, che faceva di tutto passabilmente e niente perfettamente. Cantava, ballava, recitava in serio e in giocoso, tirava di spada, giocava la bandiera, parlava varj linguaggi, era passabile nella parte della Servetta e suppliva passabilmente negl’Intermezzi. Donna poi la più scaltra, la più fina, la più lusinghiera del mondo, fece quanto potè per cattivarsi l’animo del Poeta; ma non le riuscì, finchè visse la Ferramonti.
A Padova ebbe il Bellisario la stessa fortuna: i Commedianti mi domandavano qualche cosa di teatrale ed interessante sul gusto del Bellisario. Io, che aveva di fresco poste le mani nella Griselda dell’Apostolo Zeno, vidi che quell’argomento e quel carattere sarebbero stati a proposito per la Romana, e ne feci la proposizione a lei e al Direttore. Mi dissero allora entrambi che ne avevano una, e che il Pariati Autore drammatico, contemporaneo del Zeno e suo Collega in varj componimenti, avea adattato all’uso de’ Comici lo stesso Dramma, e ne avea formato una Tragedia in prosa, soggiungendo ch’essa avea piaciuto1 per qualche tempo, ma che allora non se ne servivano più, perchè più non piaceva.
Mi diedero a leggere la Tragedia, e mi parve di riconoscervi la cagione, che la facea dispiacere. La prosa per se stessa non è avvantaggiosa per le Tragedie: lo stile di quella non era felice; si vedeva che il Pariati, uomo per altro di merito, aveva sagrificato il buon senso al cattivo uso de’ Comici, e m’invogliai sempre più a rinnovar la Griselda. La scrissi in verso, seguitai in gran parte la traccia del primo Autore, cangiai qualche Scena e ne aggiunsi a mio capriccio, e la ridussi in istato di ricomparir come nuova. Fra gli altri cambiamenti ne feci uno, che diede il maggior merito alla novità. Premevami il mio Casali. Immaginai d’introdurre il Padre di Griselda, ch’era nata fra boschi: un buon Vecchio, tenero, prudente, discreto, che non insuperbisce veggendo la figliuola sul trono, e non si rattrista reggendola ricadere nell’antica sua povertà, e prende parte soltanto all’offesa dell’onore e dell’innocenza. Questo Vecchio piacque infinitamente, e tutta la Tragedia ha piaciuto, ed il Pubblico rese a me questi onori, che dovevansi in parte all’Autor primiero.
Per contentare gli Attori degl’Intermezzi, ne ho composto uno in due parti ed uno in tre, e terminata la piazza di Padova, cioè le recite della Primavera, la Compagnia passò a Udine per trattenervisi tutto2 l’Estate. Io mi vi resi egualmente, attirato da più motivi, di cui non era l’ultimo la Ferramonti. Desiderava altresì di riveder quel Paese, dove vissuto aveva parecchi mesi, dove avea molti amici e dove mi lusingava di rivedere (per semplice curiosità) qualche oggetto delle prime mie tenerezze.
La Compagnia fu accolta da que’ buoni Friulesi con giubilo e con acclamazioni: poichè non erano soliti di avere colà Compagnie di Comici sì complete; e fu un accidente estraordinario che questa, mancando in quell’anno di migliori piazze, si riducesse a quelle di Padova e di Udine. Non ne fu però malcontenta; poichè fra l’utile del Teatro, ed i regali che faceano di quando in quando quei Cittadini liberali e cortesi, partirono i Comici di là soddisfatti. Io fui accolto amorosamente. Le opere mie piacquero in generale, e dicevano che il Compositor de’ Predicatori era ancora miglior Compositore de’ Comici. Passai un giorno per quella strada, ed osservai quella casa, dove fui sorpreso di notte dalla Madre accorta di una Fanciulla imprudente. Non vidi persona alcuna, m’informai ad un bottegaio vicino, e seppi che la Madre era morta, e che la figlia erasi maritata. Due giorni dopo la incontrai per la strada; la salutai, mi riconobbe, mi fece accoglienza, m’insegnò la sua abitazione, e andai a rendere i miei doveri.
Ma ritorniamo in carriera e parliamo del mio esercizio. I Comici, la prima sera che si presentano sopra un Teatro per loro nuovo, o che ricompariscono sopra di uno in cui stati sieno altre volte, sogliono fare un complimento all’Udienza, ed è la prima Donna, ch’è incaricata ordinariamente di quest’ufficio. Siccome erano due le prime Donne di quella Truppa, e faceano il complimento a vicenda, toccava alla Romana a farlo a’ signori Udinesi. Ella mi pregò di comporlo, ed io lo feci assai volentieri, per la stima e il dovere che mi obbligava verso quella Città rispettabile. Si accorsero da chi venia il complimento, e me ne sepper buon grado.
Quest’occasione mi fe’ pensare, che tornando la Compagnia in Venezia, richiedevasi un complimento. Io desiderava di farlo; ma la Bastona, che aveva il suo recitato trent’anni di seguito in tutti i Paesi dov’erasi presentata, non si curava d’impararne un nuovo. Mi venne in mente di fare una novità. Dissi all’Imer, che avendo de’ Personaggi nuovi da produrre a Venezia, sarebbe ben fatto di presentarli al Pubblico con una introduzione novella, e far che tutti contribuissero al complimento, distinguendo sul fine la prima Donna. Piacque all’Imer l’idea, e più gli piacque l’esecuzione. Composi una specie di divertimento per la prima sera, diviso in tre parti, che riempivano lo spazio di tre Atti soliti di una Commedia. La prima parte era un’Accademia di belle lettere, nella quale recitava ciascun Personaggio un Componimento in lode di Venezia o dell’uditorio, e le Maschere lo facevano ne’ loro linguaggi, e l’Arlecchino principalmente nel suo carattere. La seconda parte era una breve, allegra Commedia in un Atto solo, in cui le Maschere e i nuovi Personaggi brillavano principalmente; e la terza un’Operetta in musica in sei Personaggi, intitolata la Fondazion di Venezia, in cui cantavano l’Imer, l’Agnese, la Passalacqua, il Gandini Brighella, il Campagnani Arlecchino, ed il mio Casali cantovvi anch’egli, e si fece onore. Cercai nella Parte accademica, che i Personaggi novelli si mettessero in grazia dell’uditorio, domandando protezione e compatimento, e distinto aveva sopra degli altri la brava e meritevole Ferramonti; ma, oimè! la povera donna era gravida, era entrata nel nono mese, l’assalirono i dolori del parto, non potè liberarsi per le vie ordinarie, soffrì l'operazion cesariana, e due giorni dopo morì. Venne a darmi la trista nuova l’addolorato Consorte. Io era più afflitto e più addolorato di lui.
La piazza era quasi finita, e col pretesto di sollecitar il Maccari, che componeva la musica dell’Operetta, partii d’Udine, e andai a Venezia ad attendere la Compagnia. Colà arrivato, trovai mia Madre ritornata di Modena, e la vista di questa Madre tenera ed amorosa mi consolò. Alloggiava ella colla Sorella e coi parenti Bertani, fintanto ch’io ritrovassi una casa comoda per tutti e tre. Mi diede nuova di mio fratello; e seppi da lei il partito ch’egli avea preso al servigio della Repubblica.
Io continuava a restare in casa dell’Imer: la Compagnia tornò dieci giorni dopo; la musica era in ordine e l’introduzione era pronta. Mancava una seconda Donna: l’Imer aveva già scritto, e ne trovarono una che chiamavasi la Vidini, più bella della Ferramonti, ma non così brava, nè così virtuosa.
L’Imer, che pensava a sostener gl’Intermezzi, e temea dell’incontro della Passalacqua, fatto avea un altro acquisto. Un certo Martinelli, Ebreo fatto Cristiano, e suonator di Violino, che seguitava la Compagnia, si era rimaritato di fresco, e vecchio di sessanta sei anni, avea sposato una giovinetta vezzosa, che avea bella voce e da cui speravasi buona riuscita. La Passalacqua temeva il confronto, e cercò di fortificarsi colla mia amicicia. Non le riuscì a Padova, lo tentò a Venezia. Non eransi ancora cominciate le recite, quando un giorno mi mandò a chiamare, mostrando aver qualche cosa d’interessante a comunicarmi. Vi andai sulle ventidue ore; mi ricevè con tutta l’immaginabile gentilezza e si lagnò dolcemente, che meco aveva poca fortuna. Intesi quel che voleva; cambiai discorso, e col pretesto d’affari volea congedarmi. Ella insistè che avea qualche cosa da confidarmi; che per farlo con maggior libertà avea fatto venir una Gondola, che potevamo andar a prendere il fresco, e mi avrebbe svelato il segreto. Io non ho avuto cuor di negarglielo. Scendiamo, montiamo in Gondola, ritorniamo a un’ora di notte. Troviamo al ritorno la tavola preparata, si cena, si discorre; suona la mezza notte; l’Imer mi aspetta: addio, addio... a domani. Parto, e l’assicuro della mia buona grazia.
Non racconto per vanità questo nuovo acquisto, ma è necessario ch’io ne parli; poichè ciò mi ha servito di fondo per comporre il mio Don Giovanni Tenorio, ch’è la terza Commedia in questo Tomo compresa. Continuando l’amicizia con questa Donna, la quale bella non era, ma avea tutte le grazie possibili per incantare, l’Imer mi ha imbarazzato non poco.
Premevagli la sposina del Martinelli, e avrebbe voluto ch’io dato le avessi qualche istruzione; ma il vecchio Marito non mi vedea volentieri, ed io me n’esentai con politica. La povera giovine, che imparava la musica col violino, si sfiatò a segno che le venne la schiranzia: era gravida; i Medici non lo sapevano; non lo poteva credere il Martinelli medesimo; le cavarono sangue, abortì, e morì in poco tempo.
Eccoci alla prima recita dell’Autunno dell’anno 1735. Si aprì il Teatro coll’Accademia. Avvezzo il Popolo a veder sempre sortire la prima Donna a recitare quel Complimento, che sapevano tutti a memoria, riuscì una sorpresa piacevole il vedere tutta la Compagnia in semicircolo e sentir cose nuove, e in varj metri e con varie invenzioni sentir gli elogj della Città, del Governo e degli ordini varj della persone. L’ho detto e replicato più volte: non sono stato mai buon Poeta, e molto meno nel serio; ma i miei Componimenti hanno spesso avuto fortuna a causa dell’argomento e dell’occasione. Ebbe la mia Accademia perciò tutto l’applauso che poteva desiderare, e l’onore, ch’ella mi ha fatto, mi ha indotto a prenderla per soggetto del Frontispizio di questo Tomo, esprimendo nelle due figure al di sopra la Verità e la Gratitudine, che m’hanno indotto a farla.
Piacque mediocremente la Commedia in un Atto, e molto più l’Operetta per musica; e principiato bene quest anno, si seguitò ancora meglio. Il Bellisario continuò con egual fortuna, e la Griselda fu sì bene applaudita, che gli andò quasi del pari, e gl’Intermezzi nuovi ed i vecchi si sostennero sempre, e la Passalacqua piaceva. Godetti anch’io qualche tempo della di lei felice riuscita, veggendo prosperare quelle attenzioni, ch’io le usava nel comporre le parti e nell’istruirla del modo di rappresentarle; ma, sia per naturale incostanza o per debolezza di spirito, mi diede ella ben tosto motivo di pentimento. Il Comico Vitalba, damerino di professione, avvezzo a dominare sul cuore principalmente delle sue Compagne di scena, attaccò quello della Passalacqua e non tardò ad impossessarsene. Me ne accorsi, me ne assicurai, e non volendo disputar con un Comico, non feci che ritirarmi da quell’ingrata. Ciò le spiacque per l’interesse, mi scrisse un viglietto tenero, mi pregò ch’io andassi da lei. Vi andai con animo di rimproverarla e lasciarla per sempre. Mi lasciò dire; soffrì tutto, fino le ingiurie, senza giustificarsi e senza parlare. Finalmente, sazio di dire ed annojato di non sentirmi rispondere, m’incamminai per partire. Allora sciogliendo ella la voce, ed accompagnandola con qualche lacrima, di cui usar sapeva a sua voglia: andate, dissemi, andate: il mio destino e deciso; lo saprete pria di scender le scale. Tenea, così parlando, una mano nella saccoccia. Queste parole mi colpirono la fantasia. Arrivato alla porta, mi rivoltai per guardarla. S’accorse della mia debolezza, tirò uno stiletto, finse di volersi ferire, ed io fui sì sciocco, che corsi ad arrestarla e pacificarla, disceso sino alla viltà di domandarle perdono, e contento con buona fede di aver ricuperato quel cuore partii più acceso che mai, e la lasciai gloriosa del suo trionfo. Quale fu il mio stupore, il mio pentimento, quando seppi, sei giorni dopo, che il Vitalba e la Passalacqua erano stati insieme a merenda in un Casino della Zuecca? Allora aprii gli occhi un po’ meglio, e cominciai a conoscere il carattere di quella sorte di donne. Ella presentemente non vive più; non ha parenti, che se ne possano offendere; posso parlare con libertà, sicuro che i leggitori non sapranno formalizzarsi di me: poichè un uomo libero con donna libera può concepire delle passioni senza malizia. Dissimulai il mio torto e il mio sdegno agli occhi del Pubblico; ma ella si accorse ch’io l’aveva scoperta, e non tentò una seconda volta riguadagnarmi.
Piccato però della corbellatura, e immaginandomi che il Vitalba avrebbe riso di me, pensai al modo di vendicarmi senza far male a nessuno, e in una maniera che facesse valere la mia indifferenza.
Era gran tempo ch’io aveva voglia di riformare Il Convitato di Pietra, Commedia tratta dallo Spagnuolo, fortunatissima per tanti anni sopra la scena; ma piena zeppa d’improprietà e stolidezze. Mi ho soddisfatto in quest’anno, e mettendola in questo medesimo Tomo, vedrà il Lettore dall’opera e dalla prefazione l’idea che ho avuto nel farla, e la ragione dello stile con cui l’ho scritta. Aggiungerò qui solamente che questa Commedia ha servito alla mia vendetta; vendetta ingegnosa e bizzarra.
Scrissi per il Vitalba la parte di Don Giovanni, e per la Passalacqua quella di Elisa, e feci rappresentare a questi due Personaggi i loro veri caratteri. Mi posi io stesso in Commedia col nome di Carino (Carlo è il mio nome, e mi diceano graziosamente Carlino. Elisa era una comoda abbreviazione di Elisabetta). Elisa nella Commedia tratta Carino, come la Passalacqua avea trattato il Goldoni; gli dice le cose medesime, fa la medesima azione dello stiletto, e Don Giovanni Tenorio rappresenta perfettamente in quell’istoriella il Vitalba. Distribuite le parti della Commedia, non si accorse la Passalacqua della burletta; ma unita la Compagnia, per far leggere a ciascheduno la parte che dovea rappresentare, tutti compresero l’allegoria. I Commedianti ne risero, Vitalba sostenne con intrepidezza il suo personaggio; ma la Passalacqua arrossì; mi slanciava delle occhiate di fuoco, e terminata la lettura andò a lamentarsene da Sua Eccellenza Grimani, ed a protestare che non volea recitare in quella Commedia.
Il buon Cavaliere, desideroso di compiacer tutto il mondo, volea soddisfarla, me ne parlò; ma io tenni forte; protestai di rinunziare al Teatro, se la Commedia non si faceva, come io l’aveva distribuita. L’Imer sostenne le mie ragioni e le ragioni del Teatro; fece l’elogio della Commedia, persuase il padrone. La Passalacqua fu obbligata, o a recitare la parte di Elisa, o a sortire dalla Compagnia. Pres’ella il miglior partito; la recitò francamente con dello spirito, con della bravura, riuscì meglio che in ogni altra Commedia; e il Pubblico senz’essere istrutto di questa burla e di tali beghe, trovò la commedia buona, l’aggradì, l’applaudì, ed io ebbi il piacere di veder riuscire il mio Don Giovanni, e l’altro di vedere mortificata la Passalacqua. Fu in questa Commedia che il Campagnani riuscì mirabilmente nel carattere di Carino, ed io gli ebbi grandissima obbligazione d’aver reso onore al mio personaggio. I Comici la chiamarono in appresso il Convitato Nuovo, e l’hanno con fortuna dappertutto rappresentata. Venuta la novella Quaresima, la Compagnia doveva condursi a Genova per passarvi la Primavera.
L’Imer mi propose, e mi pregò di andarvi con lui; ma per più motivi ho resistito alle prime istanze. Premevami in primo luogo di riunirmi a mia Madre, e di provvedere la casa. Premevami secondariamente assicurarmi la direzione del Teatro di S. Giovanni Crisostomo, per cui qualche cosa avea fatto nel Carnoval precedente.
Per obbligarmi a seguitare la Compagnia sollecitò il mio affare presso Sua Eccellenza Grimani. Il Cavaliere mi accordò la direzione de’ suoi Teatri, e mi pregò di portarmi a Genova. Chi poteva negarglielo? Rimisi al mio ritorno la ricerca della mia abitazione, e mi disposi partire. Successero anche in quell’anno de cambiamenti nella Comica Compagnia, ed anche per questo credevano necessaria la mia persona. Il Monti Dottore ed il Monti figlio, terzo Amoroso, andarono a Napoli: al secondo fu sostituito Gasparo Zorni, non superiore al Monti in abilità; ed al primo il bravo, eccellente Dottore Rodrigo Lombardi Bolognese, egregio Comico e degnissimo galantuomo. Anche il Campagnani Arlecchino fu licenziato, e preso uno in suo luogo, il quale in grazia della figura era conosciuto nell’arte Comica col nome di figurina. Non aveva altro di buono che questa sua decantata figura: restò egli nella Compagnia la Primavera e l’Estate; e per Venezia sostituirono un altro. Fortificarono altresì gl’Intermezzi. Presero la Rosina Costa, giovane, non bella, ma spiritosa, che sapeva un poco di musica, ed aveva una voce angelica ed un’abilità sorprendente; ma il cambiamento più rimarcabile fu quello della Bastona madre nella Bastona figlia, moglie di Girolamo Foccheri, Comica eccellente, quanto sua Madre,; ma che, oltre l’avvantaggio dell’età, aveva quello di una maniera più nobile di recitare. Ella fu presa per prima Donna a vicenda colla Romana, com’era sua Madre; e la Passalacqua, sollevata dal peso degl’Intermezzi, recitava da Serva e da seconda Donna, quando occorreva. Con questa riforma nella Compagnia ci portammo a Genova. Dirò nel Tomo seguente qual buona fortuna colà mi attendeva.