Opere (Lorenzo de' Medici)/XV. Canzoni a ballo/Canzone XXIX.
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xxix
E’ non c’è niun piú bel giuoco,
né che piú piacci a ciascuno,
ch’esser due e parer uno:
chi nol crede il pruovi un poco.
Chi non lo sapessi fare,
venga a me ch’io gliene insegni;
non bisogna adoperare
a impararlo molti ingegni,
pur che da natura vegni,
come avviene all’asinino,
che non è mai sí piccino,
che non sappi fare un poco.
Giá ne vidi una che n’era
nel principio poco destra,
e poi la seconda sera
diventò buona maestra;
ad un gambo di ginestra
l’insegnai la prima volta:
non mi fu fatica molta
a insegnarli sí bel giuoco.
E’ bisogna sofferire,
lasciar far quel che t’e fatto,
e l’ingegno bene aprire,
chi imparar vuole ad un tratto;
non è niun sí sciocco e matto,
che, se ’l giuoco punto dura,
non l’insegni la natura
che s’impara a poco a poco.
Par da prima un po’ fatica
fin che l’uomo siasi avvezzo;
non è alcun che poi non dica
contenta esserne da sezzo;
chi la danza mena un pezzo,
fin che vien quel ch’altri vuole,
nulla prima o poi li duole,
né vorre’ far altro giuoco.
Un maestro c’è di scuola,
che bottega di ciò tiene:
chi avessi una figliuola,
che imparar volessi bene,
s’ella è sana delle rene,
saprá presto il giuoco bello;
fia come uno arrigobello,
come ará apparato un poco.
E’ ci è bene un altro modo,
ma gli e piú pericoloso,
e perciò io non lo lodo,
perché è troppo faticoso;
pur, se c’è niun voglioso,
venga a me, che son maestro:
far l’insegnerò sí destro,
che non guasterá mai il giuoco.