O di possente impero inclita sede

Ciro di Pers

Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu canzoni Letteratura XXVI. L'Italia avvilita Intestazione 3 agosto 2022 100% Da definire

Qui dove, Iola, in grembo al mar sen corre Chi mi toglie a me stesso?
Questo testo fa parte della raccolta Ciro di Pers
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XXVI

L’ITALIA AVVILITA

A monsignor Gherardo Saracini

     O di possente impero inclita sede,
Italia, un tempo e glorïosa e forte,
qual con dure vicende abietta sorte
servil catena or ti consente al piede?
     Per opra giá del tuo valor guerriero
cadde lacera al suol l’alta Cartago,
e con l’arene tributarie il Tago
i margini indorò del Tebro altero.
     Portò l’Eufrate ad Anfitrite in seno
di pianto prigionier torbide l’onde,
e mormorò tra soggiogate sponde
de’ latini trïonfi il vinto Reno.
     E s’abbattuto ogn’altro incontro ostile
ai propri danni i tuoi furori armasti,
fûro i tuoi vizi e generosi e vasti
e la tua sceleraggine non vile.

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     Ché duo mal atti a sopportarsi pari
e men disposti a rimaner secondi,
l’empia discordia de’ tartarei fondi
trassero a funestar le terre e i mari.
     Fervidi fûr d’ambizïoso sdegno
gli emazi campi, del cognato sangue
rigârsi l’aste, e della patria esangue
su le ruine fabbricossi il regno.
     Se ’l vinto o ’l vincitor con piú ragione
degli arnesi guerrier vestisse il pondo,
fu tra doppia sentenza ambiguo il mondo,
giudici quinci i dèi, quindi Catone.
     Ah, che piú di magnanimo e di grande
nulla ritieni, effeminata e molle!
Gli olivi ond’altri il crin cerchiar ti volle,
furon legami e ti parean ghirlande.
     Quindi, fra gli ozi d’una ingrata pace
comprata a prezzo d’un umil servaggio,
oblïato il valor, spento il coraggio,
di barbaro voler fusti seguace.
     Ed or se i sonni tuoi rompe talvolta
tromba di Marte, impallidisci e tremi,
e neghittosa infra i perigli estremi
agli altrui scettri ogni tua speme hai volta.
     E s’alcun figlio tuo d’ardir s’accinge,
per l’altrui signoria solo contende
e sol la propria servitú difende:
gettisi il brando che sí mal si stringe!
     Sotto altro nome e da diversa parte
s’avvien che torni un Annibal novello,
dove un Fabio sará, dove un Marcello,
e dove un Scipïon, folgor di Marte?
     Minacci ampia vorago ampie ruine,
e ciò che piú s’apprezza avida attenda;
Curzio s’arretri, e ’n vece sua vi scenda
sparso di molle odor Batillo o Frine.

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     Erri la destra, e gastigar la voglia
Muzio moderno; avralla forse il foco?
Anzi né pure il Sol vedralla un poco,
se non coperta d’odorata spoglia.
     S’opponga il Tebro tumido e sonante
a Clelia, e rivedrem l’esempio antico,
non giá se d’uopo fia torsi al nemico,
ma ben se d’uopo fia darsi a l’amante.
     Infra i duri novali esercitata
di Cincinnato la virtú robusta
piú non si piega; alma di vizi onusta
torpe fra i lussi e detta vien beata.
     Di Curzio e di Fabricio oggi s’onora
l’altera povertá con poca laude;
sol ricchezza s’ammira e ’l volgo applaude
al tradimento ancor, s’altri l’indora.
     Oggi chi pregio vuol d’alma gentile
spieghi fra i lussi altere pompe; a lui
Dedalo sudi a far palagi in cui
non vi sia del padron cosa piú vile.
     Qui cosí terso il pavimento splenda
che il piede di calcarlo abbia rispetto,
e l’oro qui, sotto il superbo tetto,
d’un pallido fulgor le travi accenda.
     Veggansi qui da le pareti illustri
di serico lavor drappi pendenti,
ove su l’ostro co’ filati argenti
scherzin degli aghi le vigilie industri.
     La mendace di Rodi arte vetusta
qui con mute bugie schernisca il vero,
e sia vil prezzo un patrimonio intero
de l’ombre vane d’una tela angusta.
     S’ornin le mense e Bacco in tazze aurate
sposi l’alpino gel; turba di cuochi
sudi ad un sol palato e in vari fuochi
stridano l’esche in piú d’un clima nate.

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     Aliti nabatei bevan le piume
da la pigrizia acconce, ove gl’impetre
i tardi sonni un molle suon di cetre,
né per lui splenda il matutino lume.
     Sorga e ad uso del crin grande apparecchio
trovi apprestato, e qual novella sposa
l’unga, il terga, il gastighi e senza posa
il pettine e la man stanchi e lo specchio.
     Prenda il vestito e sia di foggia strana,
marchio di servitú; gentil lavoro
gl’indori il lembo e serpeggiata d’oro
cinga la spada, inutil pompa e vana.
     Greggia di servi a solo fasto eletti,
pari al vestir di ricchi fregi adorno,
arresti il passo al di lui carro intorno,
qual volta avvien ch’ei fastidisca i tetti.
     Quinci prenda ad ambir titoli vani,
quindi a mercar con simulati ardori
agli altrui letti ingiurïosi amori,
quindi a sfamar mille appetiti insani.
     Ma s’anco sia che bellicose lodi
fra duri studi d’usurpar sia vago,
moderi il freno ad un destrier del Tago
e lo spinga e ’l raggiri in vari modi.
     Su questo e di gran piume e di grand’ori
superbo stringa in piazza asta dorata,
trastullo al volgo; e la sua bella amata
plaudendo esalti i non sanguigni orrori.
     Tali sono, ed è vero, oggi quei ch’hanno
fra noi piú pregio, ond’a ragion mi sdegno.
Deh, turbi omai questo vil ozio indegno
straniero Marte, e sia beato il danno!
     Gherardo, a te cui de l’aonio monte
cede i musici imperi il biondo dio,
miei carmi aspersi di quel fele invio
ond’amaro ha talor Permesso il fonte;

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     acciò tu di gran corde armi la lira,
da trarne forti e generosi accenti,
atti a destar ne l’avvilite genti
nobil vergogna e vie piú nobil ira.