Ché duo mal atti a sopportarsi pari
e men disposti a rimaner secondi,
l’empia discordia de’ tartarei fondi
trassero a funestar le terre e i mari.
Fervidi fûr d’ambizïoso sdegno
gli emazi campi, del cognato sangue
rigârsi l’aste, e della patria esangue
su le ruine fabbricossi il regno.
Se ’l vinto o ’l vincitor con piú ragione
degli arnesi guerrier vestisse il pondo,
fu tra doppia sentenza ambiguo il mondo,
giudici quinci i dèi, quindi Catone.
Ah, che piú di magnanimo e di grande
nulla ritieni, effeminata e molle!
Gli olivi ond’altri il crin cerchiar ti volle,
furon legami e ti parean ghirlande.
Quindi, fra gli ozi d’una ingrata pace
comprata a prezzo d’un umil servaggio,
oblïato il valor, spento il coraggio,
di barbaro voler fusti seguace.
Ed or se i sonni tuoi rompe talvolta
tromba di Marte, impallidisci e tremi,
e neghittosa infra i perigli estremi
agli altrui scettri ogni tua speme hai volta.
E s’alcun figlio tuo d’ardir s’accinge,
per l’altrui signoria solo contende
e sol la propria servitú difende:
gettisi il brando che sí mal si stringe!
Sotto altro nome e da diversa parte
s’avvien che torni un Annibal novello,
dove un Fabio sará, dove un Marcello,
e dove un Scipïon, folgor di Marte?
Minacci ampia vorago ampie ruine,
e ciò che piú s’apprezza avida attenda;
Curzio s’arretri, e ’n vece sua vi scenda
sparso di molle odor Batillo o Frine.