Nuovo vocabolario siciliano-italiano/Prefazione
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PREFAZIONE
I Vocabolari parziali sono l’unico mezzo per avventura col quale render più comune che non sia in ogni parte d’Italia l’uso della lingua illustre della nazione, e di far noti a’ singoli paesi ai essa, que’ vocaboli propri delle provincie rispettive, che tutta Italia ha dritto a conoscere, perchè rappresentanti oggetti, usi, idee di esclusiva pertinenza di quelle provincie. — Cherubini, Bibl. Ital. (Cennata da Vigo) |
Essendo noi nella via di compiere quella unità della Italia nostra, che fu ed è stata continua brama fin dagli antichi nostri avi, ben è ragione che ci adoperiamo intanto afforzarne il sentimento nazionale diffondendo per tutte le classi, nelle famiglie, dovunque nel vivere domestico quella lingua che, insieme alle sventure, noi abbiamo avuto unico legame fra le sparte membra della patria: bisogna parlar tutti la stessa lingua, bisogna che c’intendiamo in tutto e collo stesso mezzo perchè fossimo nazione. Desiderando io pure, secondo mio potere, concorrere al diffondimento della lingua italiana, mi sono studiato compilare questo Vocabolario, durando mia fatica in esso per cercare di fornirlo vieppiù adequatamente e copiosamente di corrispondenze italiane, sforzandomi a un tempo di conoscer il dialetto nostro in ogni sua parte, per agevolar i parlanti di esso a recarlo in lingua nazionale negli usi tutti. Non vogliasi pertanto credere ch’io intenda abbellirmi di meriti altrui, io ho fatto tesoro de’ Vocabolari e Saggi Siciliani-italiani che ho potuto vedere e in ispecial modo del dizionario del Mortillaro il migliore di quanti ne conosca: di certo umane vicende, nuove generazioni, progresso continuo e bisogni recenti soglion partorire mutamento si nelle lingue che ne’ dialetti, in maniera da non poter alcuno aver mai raccolto tanto che poscia non rimanga ad altri poter aggiugnere qualcosa, ond’è che io rispigolando nel campo dell’uso e negli scritti vernacoli, ho arricchito e accresciuto così della metà il detto dizionario del Mortillaro, introducendovi altresi modificazioni nelle definizioni, e aggiunte di corrispondenti italiane dove mi è venuto fatto.
La conoscenza del dialetto confrontato nelle sue voci colla lingua, massime coll’antica, valendo a rivendicarlo bene spesso da corrive tacce di esoticità, e osservando come assai detto nostro vernacolo somigli alla lingua, e più quando questa, a detta di Dante, lingua siciliana chiamavasi che poscia fu detta italiana, io ho voluto anco studiarmi in ciò pure che il potesse rivendicare, coll’andar accennando qui e lì voci italiane antiche o poetiche le quali siano od uguali o simili alle nostre del dialetto. Nè è mestieri che mi dilunghi a sostenere la somiglianza di su detta del nostro dialetto colla lingua nazionale, e più coll’antica o poetica, di cui grandi Siciliani hanno più a disteso trattato1; basterebbe dar uno sguardo agli aurei scritti de’ primi secoli della lingua, ove rinvengonsi mille e mille voci uguali alle nostre o con quella inflessione che è nel genio del nostro dialetto: bontate, farìa, dirìa, addisiare, tempora, aggio, averaggio, morraggio, partiraggio, morìo, affiebolìo, levao, durao, infiammao, bilanza, comenza, appojare, ardiscio, auto, saccio, sape, sapia, sapemo, avemo, canoscenza, fora (sarebbe), fuire, suso, loco (costi), cchiù, obbrigare, risprendere, semana, chisto, chillo ecc., alcune delle quali sono o d’uso tuttavia in poesia o nel popolo Toscano. Nel modo istesso con cui rivendico parecchie voci credute straniere e ritrovate nella lingua italiana, io accenno pur anco la origine di alquante voci venuteci da fuori. Non presumo spacciare per filo e per segno la fortuna delle parole come se vi fossi stato li presente; non è l’etimologia generale che io voglia tessere, bensi, ove mi venga il destro, mettere sott’occhio al lettore comechè se in noi è la tal voce che pur sembra assai di lungi dalla italiana, quest’essa non è che una voce quale fu usata dagli antichi scrittori italiani; e metter altresì sott’occhio la provenienza di quelle voci nostre, le quali mostrino più probabilità di essere di straniera importazione; ma non ad ogni voce vernacola non rinvenuta nell’italiano le si può cennar l’etimologia, avvegnachè alcune son pur nate qui, indigene, ed io in tal dubbio ritrovandomi, per non abborracciare, forzate origini mi son sovente contentato lasciar tali voci scrive scrive senz’altro cenno etimologico. Essendomi avvenuto a vocaboli pur derivanti d’altra lingua ma accettati nella italiana, facendo io loro corrispondere detta voce italiana, tralasciato ho d’altra parte di citarne l’origine, perciocchè tali voci non sarebbero più specialità vernacole ma corredo comune.
Le quali cose predette, ecco ora suppergiù il modo che io ho tenuto nella compilazione di esso: primieramente ho cercato restringermi quanto ho potuto onde far capire in poco volume più cose; ho ristretto o tolto definizioni di cose troppo note o di cui alla voce principale si faccia distesa spiegazione. Quando una voce ha più maniere di ortografia, ho registrato ogni maniera in guisa che la men comune o di meno retta scrittura richiami la più vera, secondo me, alla quale sola ultima ho messo i derivati. Ho tolto dagli esistenti Vocabolari certi vocaboli come: adustioni, altresì, czar, esergu, esofagu, transustanziazioni, velleità, veridicu, vetustu siccome voci non siciliane ma sicilianizzate forzatamente; a questo modo ogni voce di scienza è sicilianizzabile ed abbisognerebber volumi e volumi a comprendere la tecnologia Architettonica, Militare, Medica, Archeologica, Araldica, Astronomica, Teologica, Mitologica, Chimica ecc. ecc., non più Vocabolario ma sarebbe una Enciclopedia... ma di vero molte ne ho lasciate che potrebbono togliersi, e ciò è stato pel dubbio che tal voce possa in qualche dizione essere passata nel dialetto.
I vocaboli siciliani aggiunti gli ho in parte raccolti da sui classici in dialetto dal Frate Atanasio da Aci XIII secolo fino agli scrittori moderni, parlo di quelli cui mi venne fatto vedere, e in parte dall’uso. Non mi sia da gridarmi la croce addosso se ho pur registrate voci rancide, poichè avviene che talune vivano tuttavia in qualche proverbio, o in qualche cantuccio dell’isola. Havvi difatti una voce nello Scobar, ripetuta nel Pasqualino, attippari, la quale fu da’ moderni lessicografi messa tra le sferre vecchie; or leggendo io i Canti popolari Siciliani raccolti dal Salomone Marino mi venne veduto in un indovinello di Salaparuta questo verso: quannu di meli la fascedda attipa; ecco che non è voce po’ poi rancida, morta... abbaddatori o baddaturi erano stati buttati fra ’l ciarpume, eppure avendo chiesto a un muratore come si chiamasse quello così così che in italiano chiamasi ballatoio, mi rispose: baddaturi. E se ciò non basta; Vinci registra cataluffu, voce dai moderni lessicografi non voluta registrare o da loro non conosciuta; or bene, il Meli nella Canzone la gran moda presenti ha: ma tanti cataluffi, chi sunnu intaliabili… cospettone! Meli non è un antiquario! Cataluffo (che è nel Vocabolario Italiano del Fanfani) è: mezzo drappo o drappo di mezzana qualità ecc. Questo drappo è qualcosa di Siciliano da ciò che rilevo seguendo lo stesso Fanfani; Cantini, Band. Legg. XIV ecc. Lasciano libere le cataluffe alla siciliana ecc. Esso fu arnese usato, onde il Meli volendo esprimere l’idea di vecchiaia prende la similitudine d’una cosa vecchia, d’una moda; in ogni modo egli conobbe questa voce, la usò, dunque parmi dovrebbe trovar grazia nel Vocabolario. Rinsavito io da tali esempî son andato adagio nello ammazzar vocaboli, e per salvar piuttosto un innocente che sbandire cento rei, ho dato ricetto a qualche voce che potrà esser davvero morta. Non parlo già delle voci non Palermitane; il Vocabolario Siciliano non deve restringersi alla sola capitale, se vuol essere Siciliano; anzi aggiungo che avrei registrate più voci delle interne provincie, ove il mio invito fatto da Firenze il giugno 1867 fosse stato meno sprezzato da’ Municipî Siciliani. A mio credere un simile lavoro non deve intendere esplicitamente a vagliare il fiore del dialetto, quasi vivaio per gli studiosi di esso, quindi ributtando le voci non usate da’ classici vernacoli, o barbare o non capitaliste (se potessi così dire), ma deve tal lavoro intendere a mettere sott’occhio a chi cerca come ogni voce vernacola, quale ch’ella si fosse, la si debba recare in italiano. E ardentemente desidererei che ogni provincia raccogliendo il suo dialetto, tutte unitamente concorressero alla formazione di un più completo Vocabolario Siciliano-Italiano.
Gran parte de’ proverbî Siciliani aggiunti sono tolti dal Catania, dal Veneziano, dal Vigo, altri dalla raccolta del signor Minà-Palumbo, pubblicata negli Annali di Agricoltura Siciliana, ed altri da un Manoscritto favoritomi dal gentilissimo Marchese Mortillaro; altri sono raccolti dall’uso. Essi sono registrati alla voce che a me è parsa dover esserne il soggetto principale; a questo proposito io veggo nel dizionario del Mortillaro, per più comodo, ripetuto a parecchie voci un medesimo proverbio, io per maggior economia li registro alla sola voce principale non ripetendoli altrove che di rado. Per recarli in italiano mi son servito della raccolta de’ proverbi toscani del Giusti.
In fatto di alfabeto divisa ho la j dalla i, facendone sempre due lettere separate: così pure ho fatto per la u e la v. Molte parole registrate alla m e n come: ’mbuscata; ’ntuppari e simili, le ho trasportato alla vocale che dovrebbero avere avanti: imbuscata intuppari, lasciando alla m o n un solo cenno di tali vocaboli per richiamarli al vocabolo modificato: con ciò ho creduto ordinare non secondo il capriccio di alcuna pronunzia contratta, ma secondo regola; riguardato come anco in italiano hanvi in rare pronunzie, e pur in certi scritti, elisioni siffatte, ma di cui non si tiene conto in un ordinamento alfabetico, p. e. il puossi scrivere ’l; imperio, imperadore, incontra, infinta e ingannare il Villani scrisse: ’mperio, ’mperadore, ’ncontra, ’nfinta, ’ngannare, eppure nè l’uno nè gli altri si registran elisi nei Vocabolari, ma sempre vengon fuori interi. Per alcuni vocaboli però parmi tanto comune la elisione che li ho dovuti lasciare come stanno.
Alcuni nomi che, anco nel Mortillaro, uscivano col feminile come: scava, ho riordinato al mascolino: scavu.
Le voci italiane di corrispondenza (s’intende delle modificate o aggiunte) pella maggior parte ho tratto da’ Vocabolarî italiani più accreditati, e alcune da sui classici; pe’ vocaboli di arti e mestieri mi son valuto anche del Carena, Zanotto, Palma, e di alcuni materiali appositamente da me raccolti in Firenze. Intorno alle frasi nostre e modi di dire ho cercato tradurle con equivalenti tolte da sui classici nazionali, e poichè non tutte le voci di arte e mestiere nè tutti i modi familiari si rinvengono ne’ classici, salvo quella parte che possa essere venuta ad essi in taglio di usare, e altresì parte di essi scrittori essendo antichi difettano delle cose nuove, io mi son dovuto sovente valere dell’uso Toscano per recare in italiano alcuni modi nostri, ponendo mente a quel che dice l’illustre Manzoni nella Relazione dell’unità della lingua: che uno degli idiomi, più o meno diversi, che vivon in una nazione, venga accettato da tutte le parti di essa, per idioma o lingua comune: e questo idioma ognuno trova che sarà il Toscano, il quale come ben dice il signor Buscaino-Campo: è la base unificatrice ed il semenzaio della lingua d’Italia. Piacemi qui dichiarare che nessuna voce o maniera di dire italiana (salvo un qualche abbaglio) io ho messo nelle spiegazioni la quale prima non me l’abbia veduta ne’ Vocabolarî Italiani o in qualche classico o udita in Firenze medesimo, e ho citato la fonte di dette voci perchè altri possa farsene un criterio.
Ogni nome vien fuori pel suo mascolino singolare. Agli aggettivi positivi ho unito il superlativo, siccome però il detto positivo rimane delle volte accennato come participio presso il verbo, in tal caso il superlativo vien fuori solo. I verbali escono al mascolino e accanto hanno la desinenza femminile. I vezzeggiativi, diminutivi, peggiorativi, acerescitivi vengon fuori al loro ordine alfabetico,
Ond’evitare che taluni avverbiali fosser veuuti fuori alla lettera della particella che hanno avanti come: a-babbalà, a-bracciu, a-casu, in-quantità, ecc., io li ho registrati alla voce principale loro: babbalà, bracciu, casu, quantità, traggo da questa riformazione quegli avverbiali cui l’uso avrà accettato come unica parola.
Ne’ verbi ho messo uniti sotto unica lettera sì l’attivo che l’intransitivo e il passivo, facendone soltanto de’ paragrafi separati, e poichè ogni attivo può farsi passivo, quando quest’ultimo non ha usi speciali io ho tralasciato di registrarlo. Ho unito parimenti al verbo le voci di participio presente (quando l’ha) e passato, ed essendo il participio aggettivo di sua natura così ho tralasciato di citarlo come aggettivo poi al suo posto alfabetico; ma qualora esso, come aggettivo, avesse usi speciali allora lo faccio uscire all’ordine alfabetico e lo sopprimo là dove starebbe come participio. Cade qui acconcio far notare come quasi tutti gl’infiniti potendosi usare sostantivamente, come in italiano, così non è stato mestieri che a ogni infinito io avessi aggiunto l’uso sostantivo ma l’ho solo fatto là dove altra specialità mi vi abbia costretto.
Abbondando noi di que’ sostantivi feminili formati dal participio, e siccome tali sostantivi di raro si ritrovano ne’ vocabolarî italiani, così per voltarli in italiano mi son valuto di quanto dice Fanfani alla voce participio nel suo vocabolario dell’uso Toscano, cioè: la voce femminile de’ participî, unita ai verbi dare o fare, secondo la natura del participio, si usa a modo di sostantivo per indicare l’azione de’ verbi o fatta in fretta o senza grande attenzione ecc. onde: dar un’accordata, far una corsa, far una risata, dar un’abbronzata, e così in infinito: quando poi si vuol denotare anche maggior velocità nell’azione, o minore studio, si fa diminutiva la voce del participio e si dice: dar un’accordatina, far una corsettina, ecc. ecc. E cosi pe’ verbali di cui lo stesso Fanfani nel detto Vocabolario dice alla voce verbale: la lingua italiana ha molti verbali con la desinenza in ata, e questi sono usati più specialmente dai Toscani con le voci dell’infinito de’ verbi fare e dare, scambio del verbo, ond’esso verbale ha origine, a significare non l’azione così in generale, ma l’attualità limitata di essa, per esempio: vo a far una passeggiata, dà una ripulita, e simili in infinito. In questo modo tolgo da su di me la responsabilità di aver additato voci italiane non potute rinvenire sovente ne’ Vocabolari italiani
Per quelle voci siciliane di cui io non mi ho sicura conoscenza, o sia la prima volta che le veda scritte, o siano parole note usate in nuovo significato, io cito l’autore da cui esse sono tolte; così ho anco usato per le voci e maniere italiane di corrispondenza le quali non mi avessi rinvenuto con quel senso ne’ vocabolarî più comuni: colla sola differenza che ove i nomi degli autori siciliani sono in maiuscoletto, quello degl’italiani son in corsivo.
Nelle corrispondenze, la prima voce generalmente si è quella la quale parmi più adequatamente rendere il significato del nostro vocabolo, quelle appresso sono le più simili od anco uguali. Similmente dico che mi sono studiato sovente a mettere sott’occhio la voce italiana più uguale alla nostra, quando i significati l’avessero comportato. Ho messo in parentesi le voci italiane antiche, con ciò volendo dire come esse non sian adoperabili; accanto ad esse ho posto il nome del classico da cui furono tolte, quando queste voci non siano ne’ vocabolarî; parimenti ho chiuso in parentesi le voci straniere di corredo alla etimologia, con accanto cennata la lingua a cui s’appartengono.
Gran parte delle definizioni sono informate o copiate dal Dizionario de’ sinonimi del Tommasèo: e seguendo alcune volte che una nostra voce dia luogo nelle corrispondenze a più voci italiane, io ho creduto additare la differenza di esse ricorrendo sempre al detto Dizionario de’ sinonimi.
Venendo da ultimo alla ortografia, io non ho introdotte che poche modificazioni: bene spesso ho scritto con due b ciò che negli altri Vocabolarî sta scritto con una: questo ho io innovato dall’osservare come noi non mai pronunziamo essa consonante così dolce e molle come fanno i buoni parlatori dell’italiano; in noi è tal veemenza di pronunzia da renderla doppia, e quel che è più, non conosciamo quasi altro suono; l’istesso ho osservato della g: ma ho dovuto piegarmi a volte scriver una b o una g in principio della parola per non fare troppe novità. Ho tolto la s nelle parole come: sciumi ecc. osservando che diverso è in noi il pronunziare sciogghiri e ciumi, quindi non doversi confondere nel modo di scriverle. In quanto alla s preceduta dalla n mi regolo coll’uso invalso in coloro che hanno scritto in dialetto: noi, parmi, pronunzieremmo meglio z tale s: senzu meglio che sensu.
Non parmi fuor di proposito far qui notare alcune regole per noi siciliani in fatto di pronunzia italiana. Alcuni volendo dare norme sulla e ed o stretta o larga italiana dissero: la e italiana proveniente dalla i latina, fosse stretta, così in seno la e essere stretta perchè in latino si dice sinus; ed allora essere larga la e italiana quando provenisse dalla e latina, come perdere colla e larga perchè in latino perdere: la o italiana proveniente dalla u ‘latina, fosse stretta, come pozzo colla o stretta perchè puteus in latino; e invece dove la o italiana provenisse dalla o latina, fosse larga, come: popolo colla prima o larga perchè in latino populus. Or questa norma sarebbe pei conoscitori del latino, e per coloro i quali non sapessero buccicata di latino?... Ecco altra norma parimenti generale, ma più adatta pe’ siciliani non latinisti, che io ho desunto da attente osservazioni fatte in udendo parlar i Toscani e comparando alla loro parlatura sempre la nostra. Quando una nostra voce volta in italiano cangia la i in e, questa e la si pronunzia stretta, come: lignu, sita, sira si fanno legno, seta, sera colla e stretta; quando però sì nel dialetto che nella lingua vi rimane la e questa è larga, come: lepri, bellu, servu in italiano sono lepre, bello, (add.) servo colla e larga. Parimenti la nostra u volta in italiano fa o stretta, come: lucanna, luntanu, russu, munnu, in italiano fanno locanda, lontano, rosso, mondo colla o stretta; mentre se tanto nel dialetto quanto nella lingua evvi medesimamente la o essa è larga, come: morsa, rosa, morti, in italiano fanno morsa, rosa, morte colla o larga. Ma tale regola fallisce ella? Sicuro! poichè alcune voci vernacole colla o e colla e non riescono in italiano colla o e colla e larga, come lesina, beni, lordu che a dispetto di quanto ho detto escono in o od in e stretta: ma che ne cale di ciò? In regola potrà in ogni modo far evitare una metà o due terzi buoni di mala pronunzia. Notisi per incidenza come queste u ed i da noi usate per le o ed e italiane, furon di sovente anco usate dagli antichi scrittori italiani, per cui non è barbarie nostra ma residuo latino che pur fu già della lingua nazionale; e perciò io ho citato, ove mi è venuto fatto, voci italiane antiche per comprovar quanto dico. In sul proposito di pronunzia abbiasi cura di sfuggire quanto per noi si può il pronunziar alcune consonanti, come facciamo, con tal veemenza che si raddoppiino, che spesso odesi de’ nostri favellando italianamente pronunziare bbuono, rroma, ggente, dazzio, nnemico invece di buono, roma, gente, dazio, nemico e pur quel vizio di pronunziare quechto (ch Francese sci) che è tutto modo della regione Palermitana, Il vizio di pronunziar doppie molte consonanti che son in principio mi tennero in bilancia lunga pezza se avessi dovuto registrar tali parole sempre come si pronunziano, ma pur finalmente seguii l’andazzo di scriver semplici quelle che così sono state scritte sempre.
Io ho messo tutta quanta la volontà e il desiderio, e impiegate tutte mie forze per presentar un lavoro utile e completo; vi sarò riescito?... ecco ciò che non so. A ogni modo io saprò sommamente grado a tutti coloro i quali per loro cortesia mi volesser additare i difetti e ’l modo di correggerli, acciocchè il paese potesse aversi un’opera viessempre meno difettosa.
Non debbo qui por fine senza prima tributar un accento di gratitudine a tutti gli amici per ciò che da loro mi ho ricevuto, e agli illustri cittadini Tommasèo, Fanfani, Vigo, Sanfilippo, Mortillaro, Inzenga ed altri sì per gl’incoraggiamenti da loro avutimi, non che per qualche lume di cui alcuno di essi mi è stato cortese.
- Palermo 25 giugno 1868.
ANTONINO TRAINA
Note
- ↑ Dico del Giudici, del Sanfilippo, del Vigo e di altri benemeriti delle lettere.