Novellette e racconti/XXXII. Il Contrattempo
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Il Contrattempo
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XXXII.
Il Contrattempo.
La fortuna alle volte fa nascere certe piacevolezze che sono di picciolo momento e tuttavia danno di che ricreare gli animi di chi le ode; e que’ medesimi a’ quali sono accadute, benchè in sul fatto ne avessero qualche dispetto, in fine ne ridono quanto gli altri. Un certo giovane, pieno di spirito e di un umore piuttosto spensierato che altro, per vivere lietamente o forse per meglio attendere a’ fatti suoi, ch’io non voglio affermare quello che non so, va la notte a dormire in uno stanzino dappresso a S. Marco, dove non ha altro della roba sua, fuorchè quella che si porta indosso, e si spoglia la sera quando va a coricarsi. Tutte le sue camicie principalmente gli sono tenute in custodia da una sorella ch’egli ha; la quale si sta a casa in un’altra contrada assai lontana. Poche sere fa giunge alla sua stanzetta molto ben tardi, e dice ad una donnicciola, che gli facea lume con un lumicino: Buona femmina, io mi ti raccomando, svegliami domani a tale ora, perch’io debbo essere dinanzi ad un magistrato: vedi bene che tu non mancassi; picchia forte finch’io risponda e sia desto: se io non sono diligente, guai a me; mi può accadere cosa di grave sconcio se non mi trovo costà puntuale. Dice la donna. Posatevi con l’animo quieto; io vi do parola di essere all’uscio appunto allo scoccare dell’ora che desiderate: buona notte. Entra il giovane nella sua stanza, e facendo il caldo grande, si spoglia in fretta, e come quegli che non usa molta diligenza nel riporre le robe sue, qua si scalza e lascia le calze, colà gitta il vestito, da una parte si sbraca e lascia i calzoni; spegne il lume, va tra le lenzuola, e trattasi la camicia, la lancia lunge da sè fuori del letto, e così nudo, come nato era, comincia a dormire. Passano intanto le ore, e la buona donna si desta qualche minuto più tardi di quello ch’era stato ordinato; onde in fretta e in furia corre all’uscio, e picchiando con una forza che parea che lo volesse atterrare, grida: Su su, egli è tardi. Il giovane si desta, e con gli occhi ancora mezzo chiusi balza in piè e comincia a brancolare cercando della camicia, e non la trova. La maraviglia lo fa destare affatto; il dì era entrato per le fessure delle finestre, onde vi si vedea benissimo: cerca di qua, rifrusta di là, non ci è verso, la camicia è sparita. Eravi nella stanza, come si usa ancora in certi tinelli all’antica o ne’ conventi, un lavatojo con una conca di pietra molto ben grande, dove si lavano le mani, che per avventura era piena di acqua: si affaccia colà e vedevi la camicia che lanciata da lui al bujo, vi si era annegata dentro, piena come una spugna. Oimè! oh che farò io ora? gridava egli; e la femmina all’uscio gridava: Che avete voi? aprite se volete ch’io vi ajuti: siete voi ancora vestito? Ora comincio, rispondeva egli arrabbiato come un cane: aspetta. Mettesi i calzoni e apre l’ascio con la camicia in mano, che colava acqua e avea fatto in terra più rigagnoli come una gran pioggia. Ch’è stato? dice la donna. Tu lo vedi, risponde; la camicia mia è stata in molle: che farò? di qua alla casa di mia sorella è un trotto di lupo: qui non ho camicie; questa esce ora della mastella; debbo comparire al magistrato: che farò io? che maladetta sia la ventura mia! e in questo, ecco che scoccano le ore, ed egli maladice l’oriuolo e la camicia, e dice alla femmina: Accendi il fuoco. Essa mette legna nel cammino, accende uno solfanello e soffia, e intanto egli torce la camicia quanto può e grida: Soffia, per amor del cielo! e quando il fuoco è acceso, la donna piglia di qua ed egli di là, e cominciano a rasciugare il bucato. La camicia fumicava, la donna toccala di qua, egli di là per sentire se la si andava asciugando. Accosta un poco più da questo lato, accosta un poco più qua dove la è increspata, chè la è più umidiccia che altrove. L’accostano tanto, che il fuoco si appicca ad una manica, che non se ne avveggono. Dice la donna: Qui sa di arsiccio. Così pare anche a me, risponde il giovane: volta, vedi, ed eccoti da mezza manica verso alla spalla che ardea com’esca; Oimè, grida la donna: acqua acqua. Come acqua? (grida il giovine, e stringendo in pugno la tela dove ardea) tu gridi acqua ancora, che vedi quel che m’ha fatto l’acqua? In fine l’ammorzò: e dall’una parte arsa e dall’altra mezza molle ancora, si pose la camicia indosso, e andò, come potè, a fare le sue faccende.