Novellette e racconti/XLI. La fuga per ispavento equivoco
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La fuga per ispavento equivoco
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XLI.
La fuga per ispavento equivoco.
Io udii già dire ad uno (e mi parea che lo dicesse per ischerzo) che le gambe dell’uomo hanno più ingegno del cervello. Esse, diceva, quando nasce un fanciullo, guizzano quasi subito, si raggrinzano, si stendono, si stringono e allargano; non istanno mai salde. Quando sciogli dalle fasce un bambino, tosto lo vedi coi piedi all’aria; e se le forze servissero alla buona volontà, lo vedresti camminare appena nato. Vedi i cerviatti, i puledri, i pulcini come tosto balzano in piedi e corrono. In breve, le gambe fanno i primi ufficj della vita, e se badi bene, le sono più o almeno tanto necessarie, quanto le mani e ogni altro membro del corpo. Potrei dir mille cose di loro; ma ristringomi a una sola, cioè al grande ajuto che prestano all’uomo quando si trova in un gran pericolo: allora egli si vede chiaro che l’intendono meglio della testa. Sarà uno, per esempio, che comincia a dir villania ad un altro, e quegli risponde, e si riscaldano d’ira. Se volessero confessare il vero, mentre che le parole ingiuriose si vanno infiammando, le ginocchia dicono loro sotto: Non fate; e perchè le non hanno altra eloquenza, le tremano sotto alle cosce, e, come possono, danno avviso all’uno e all’altro, che vadano via di là e voltino le spalle al nemico e alla zuffa. Chi presta loro orecchio a tempo, si salva; chi si ostina e non rimane dalla rettorica forza di quelle persuaso, ne riporta il capo spezzato, o forato lo stomaco o la trippa, o ammazza altrui, per balzar poi in una prigione. Sono passati appunto pochi giorni, che vidi la virtù della loro eloquenza, e il caso fu questo.
In Merceria si udirono prima due voci a borbottar piano, che mormoravano non so che fra denti con dispetto; e pareano prima come due voci in un bosco da lontano, che vengano al verso di qua, le quali a poco a poco si andarono alzando tanto, che si scolpivano le parole. Si comprese dunque che i due, i quali favellavano, erano un oste e un forestiere. Diceva l’oste: Io vi ho dato la roba mia e vi ho mantenuto di vitto; vuole giustizia che io sia pagato. Rispondeva l’altro: E voi avete ragione; ma io ora non ho danari e gli attendo. E voi attendetegli, ma io non voglio altro indugiare. Voi avete pegno tale e tal cosa di mio, diceva l’altro; e io sono uomo onesto, nè l’onestà vi concede che mi diate l’assalto qui sopra una pubblica via, come se io fossi un truffatore. Io non so di truffatore o di non truffatore; pagami. Ed ecco che dalla civiltà del favellare si venne al tu, e a mano a mano si passava dal dire le ragioni allo scegliere le meno eleganti parole del linguaggio di due paesi, perchè l’uno parlava in veneziano e l’altro in toscano. Le voci che aveano cominciato piano, erano salite sì alto, che si sarebbero udite sui tetti e sui campanili, e si scagliavano le villanie di qua e di là con una furia, che se le gambe non aveano cervello, si sarebbero vedute budella e sangue. Io non so se il forestiere facesse pur daddovero o fingesse; ma cacciò la mano alla scarsella e fece atto di dar mano ad un coltello; onde le gambe dell’oste, che l’aveano già forse ammonito mille volte, non potendo più comportare la sua ostinazione, lo levarono su di peso come se fosse stato di paglia, e di carriera ne lo portarono in una bottega ove si vendono specchi, con tanta furia, che non ebbe tempo di vedere uno specchio molto ben grande che avea in faccia, onde vi cozzò dentro col capo e ne fece da duemila specchietti in un baleno. Le gambe del forestiere, veduto questo fracasso, ne lo avvisarono che il bottegajo potea fare zuffa per lo specchio spezzato; ond’egli cheto, come olio in un orcio, si partì di là, e l’oste sparì anch’egli per la medesima cagione: e perciò conchiudo, che quanto diceva l’amico mio, cioè che le gambe hanno gran cervello, è verissimo.