Novellette e racconti/LXXXIII. Il Pittore di ritratti
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LXXXIII.
Il Pittore di ritratti.
Nella città di Firenze fu già un nobilissimo pittore, il quale nell’arte sua avea tanta capacità, che ognuno de’ suoi tempi avrebbe giurato la natura medesima essersi tramutata in lui, e che la dipingeva con le sue mani. Non era cosa che cadesse sotto agli occhi, la quale dal suo pennello non fosse con tanta grazia imitata, che quasi ognuno che la vedea non avesse giurato quella essere effettiva. E non senza ragione egli era giunto a tanta virtù; imperciocchè, oltre all’attività dell’intelletto inclinato a quell’arte, l’avea fino da’ suoi primi anni assecondato con la meditazione e con l’esercizio; per modo che, quando egli andava per via, egli era sempre quasi invasato, e si arrestava qua a contemplare una faccia che avesse del virile e del vezzoso, colà un atteggiamento notava, e quai visi facessero uomini e donne addolorate, indispettite, arrabbiate o altro; nè rifiniva mai di delineare o un bel pezzo di greppo che naturalmente in una montagna si porgesse in fuori, o un fiume che lento e chiaro corresse in una bella giravolta, o una rovinosa caduta di acqua; e spesso animali disegnava che dormivano, che rodevano, che rugumavano o lavoravano le terre, tanto che la sua fantasia era un mercato di ogni naturale apparenza. Sopra ogni altra cosa però, come avviene di quasi tutti gli artefici che più in una parte che in un’altra dell’arte loro sono eccellenti; sopra ogni altra cosa, dico, egli era egregio nel fare ritratti di uomini e donne, ed in ciò era principalmente adoperato, massime in que’ tempi ne’ quali gli uomini o le femmine innamorate non poteano così spesso vedersi come fanno oggidì, e aveano bisogno di confortarsi il cuore di tempo in tempo con questa infruttuosa scorza di visi. Ora avvenne che essendosi un cavaliere innamorato di una bella giovane sua pari, e volendo mandarle l’immagine sua che fosse somigliante quanto più si potesse, andò a ritrovare il valentuomo, e dettogli quello che volea, furono insieme di accordo in poche parole, e fu cominciato il lavoro. Il pittore usava nell’opera tutta quella intelligenza e dottrina ch’egli avea; perchè assegnata prima al cavaliere una nobile e insieme gentile attitudine, e pregatolo ch’egli stesse con un certo risolino fra le labbra e con un’affettuosa guardatura, si diede ad imitarla con infinita diligenza, e, prendendo colla fantasia tutti i lineamenti che vedea, ne gli segnava colla punta del pennello sulla tela con tale espressione, che ad ogni pennellata ne usciva un pezzetto del cavaliere così al vivo, che, dal parlare in fuori, chi l’avesse veduto, avrebbe giurato che fosse egli medesimo in ossa ed in carne. Lavora oggi, ritocca domani, venne finalmente il giorno in cui era presso che compiuto il ritratto, di cui il pittore avrebbe giurato che non avea fatto il più bello nè il più somigliante in sua vita. Il cavaliere intanto vedendo l’opera quasi compiuta, ebbe in animo di voler far sì che la fosse veduta da parecchi giovani amici suoi, acciocchè gliene dicessero il loro parere; onde, conferito loro che si era fatto dipingere, ne condusse un giorno da forse cinque o sei alla casa dell’artista a vedere il ritratto. I giovani, fosse o per mostrare che non vi erano andati per nulla, o perchè in effetto sapessero di pittura quanto la pittura sapea di loro, a pena fu presentata loro la tela, volle ognuno fare il saccente e dire la sua opinione. Vi fu alcuno a cui parea che la bocca fosse un poco più grande che la naturale, e tale altro dicea che gli occhi non aveano la forza de’ vivi, che il naso era un poco più lunghetto; e che vi trovò difetto nelle ciglia, e vi fu ancora chi prese l’ombre per macchie, e non avrebbe voluto che le vi fossero; tanto che si conchiuse che il ritratto non somigliava punto all’originale, e che l’innamorata giovane non l’avrebbe mai riconosciuto per lui. Questo punto più che tutti gli altri dispiacque all’animo del cavaliere; tanto che deliberò al tutto di non volere il ritratto, di che, quantunque sentisse il pittore un gravissimo rammarico ed una stizza grandissima, pure ne lo pregò che non gli facesse tale ingiuria, e gli promise che gliene avrebbe fatto un altro che avrebbe appagato lui e tutti gli amici suoi. Di che contentandosi il cavaliere, si pose l’artista a rinnovare il suo lavoro, e come quegli ch’era punto dall’offesa che gli parea di avere ricevuta, e dal desiderio di mostrare quanto sapea a que’ giudici novellini che l’aveano contro ragione biasimato, postosi con l’arco dell’osso e con quanto intelletto avea, fece un ritratto così bene armonizzato e tale, che non vi era arte umana che potesse censurarlo in un capello. Il cavaliere lietissimo in suo cuore di sì bell’opera, e parendo a lui medesimo che non vi potesse essere lingua cotanto prosontuosa che vi trovasse materia da biasimare, fu, come la prima volta, agli amici suoi, e gli guidò alla casa del pittore. Non ebbe il secondo ritratto sorte migliore del primo, e forse peggiore; imperciocchè, oltre a molti difetti che in esso ritrovarono, e alla poca somiglianza che diceano che avea, incominciarono anche a riflettere che quelle sono cose le quali quando non vengono bene al primo, le non riescono mai più; che la fantasia del pittore riscaldata e confusa non potrebbe più fare quello che non ha prima potuto netta e vigorosa; e facendo un lago di dotte osservazioni generali, delle quali ogni uomo ha grande abbondanza, misero nell’animo del cavaliere la disperazione di non poter avere mai più un ritratto che gli somigliasse, e in quello del pittore un veleno che gli schizzava pegli occhi. Non fece però, come avrebbero fatto alcuni, i quali non possono ritenere celato il dispetto, e si credono col quistionare di vincere la prova; ma ristrettosi nelle spalle per allora, pensò fra sè un modo di far sì ch’essi medesimi confessassero la propria ignoranza, e si pentissero dell’aver giudicato diffinitivamente di quello che non sapeano. Per la qual cosa, quando furono partiti, rimasosi col cavaliere solo, il quale tra sè si dolea della sua mala sorte, gli cominciò a parlare in tal modo: Cavaliere, quantunque io sappia che la capacità dell’uomo non ha in sè tanto vigore che la possa giungere nelle arti a far cosa che non abbia in sè difetto veruno, pure quando io penso alla mia passata vita e a quella di coloro che hanno così liberamente sentenziata l’opera mia per non buona, spererei di dover essere stimato miglior giudice di una tela dipinta, ch’essi non sono. Io ho fin da’ miei primi anni abbandonato il pensiero di ogni altra cosa del mondo e quello di me medesimo ancora, per intrinsecarmi in questa benedetta arte, alla quale ho posto tutto il mio amore, cercando di avere per essa qualche onore nel mondo. Ho fuggite tutte le compagnie e i passatempi, facendo ogni mio diletto di questa tavoletta e di questi pennelli che voi vedete. Non mi sono curato nè di dormire, nè di mangiare talvolta per proseguire i miei onorati lavori. All’incontro gli amici vostri, che hanno sentenziata la mia pittura, non solo non hanno mai avuto un pensiero al mondo di quest’arte, nè mai hanno tocco pennello o intenzione avuta di disegno, ma fuggirono anzi ogni qualità di studio e di fatica, correndo dietro a’ diletti ed ai sollazzi a loro piacere. E se vegghiato hanno le intere notti, ch’io non vi potrei negare che non l’abbiano fatto, le vigilie loro furono impiegate in altro, che in fare figure dipinte e similitudini di persone. Con tutto ciò io non intendo che nel giudicare di pittura sia fra loro e me vantaggio veruno, se io non vi fo vedere in effetto ch’essi non sanno quello che dicano, e se voi medesimo non confessate ch’io abbia ragione. Per la qual cosa io vi prego che voi diciate agli amici vostri che vengano stasera, e diate loro ad intendere ch’io abbia ritocco il ritratto; ma prima venite meco, ch’io faccia di voi quello che vedrete. Il cavaliere, che ragionevole uomo era e discreto, consentì a quello che volle. Il pittore, ch’era persona d’ingegno destro e atto a diverse cose, prese incontanente una tela, e per modo la tagliò intorno, che il cavaliere potea adattare al taglio la faccia sua, e sì mettersela fuori per esso, che paresse una cosa dipinta; e fattovi intorno col pennello un campo e certe ombre che aiutassero l’apparizione, acconciò la tela in luogo che fra la notte, la luce di una candela e altri artifizj, avrebbe ingannato ognuno. Disposta in tal forma ogni faccenda, mandò il cavaliere per gli amici suoi di nuovo, pregandogli che venissero a vedere, i quali computando fra sè la brevità del tempo, incominciarono, prima ancora che quivi giungessero, a dirne male, e a conghietturare fra loro che così tosto non avrebbe potuto il pittore far opera buona, biasimando a mente quello che non aveano ancora veduto. Quando picchiarono all’uscio, il cavaliere corse incontanente dietro alla tela, e adattata la faccia, secondo il concertato modo, al foro di quella, incominciò ad essere ritratto, e ad attendere il giudizio che dovea esser dato delle sue somiglianze. Il pittore presa la candela nelle mani, e tenendola a quel modo che più gli piacea, fece loro vedere l’opera di natura; della quale incominciarono tutti a uno a uno a ritrovare i difetti. E chi dicea: Io vi scuso per la prestezza del tempo, ma in verità che de’ tre ritratti che avete fatti, è questo il peggiore. Un altro: Il cavaliere non ha viso così lungo; e il terzo dicea: Oh! parvi ch’egli abbia quel naso con quel rialto costà nel mezzo? oltre di che gli occhi di lui traggono piuttosto al cilestro, e questi sono neri. Il pittore, perchè più si rinfocolassero a dire, si diede a difendere l’opera; ond’essi sempre più infiammati a biasimare e a non voler cedere, ne dissero sempre peggior male per ostinazione, e fu conchiuso ad alta voce che la pittura parea fatta da uno scolare, e che il ritratto era un mostro. Di che il cavaliere non potendo più aver pazienza, rispose loro dalla tela, che ne gli ringraziava caramente della gentilezza che gli usavano, e che finalmente si era avveduto che chi non sa, è tanto buon giudice della natura, quanto dell’arte. Gli amici scornati si partirono, e il cavaliere pagati tuttadue i ritratti volentieri al pittore, se ne andò a’ fatti suoi, e fece presente di uno alla sua innamorata che l’ebbe carissimo.