Novellette e racconti/LXXIII. Si narra come una Giovane si vendicò di un Avvocato linguacciuto che si era fatto beffe del fratello di lei

LXXIII. Si narra come una Giovane si vendicò di un Avvocato linguacciuto che si era fatto beffe del fratello di lei

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LXXIII.


Si narra come una Giovane si vendicò di un Avvocato linguacciuto che si era fatto beffe del fratello di lei.


In una città sottoposta alla benigna madre dei popoli, Vinegia, è una famiglia nobile e antica, la quale, come portano le infinite rivoluzioni della fortuna, non è oggidì ricca di poderi, nè di quei beni che sono l’ammirazione degli uomini; ma all’incontro regna in essa un’onorata virtù e quella gentilezza che ereditò da’ suoi maggiori. Tre fratelli la [p. 130 modifica]compongono e diverse sorelle, i quali e le quali volendo compensare quelle ricchezze che la cieca sorte ha loro negate, hanno con diverse qualità di suono, di canto e di altre piacevoli virtù ornati i loro cortesi costumi, e si sono resi grati alla compagnia delle genti. Pare però che la fortuna abbia una certa inimicizia e ostinazione invincibile appunto contro a coloro ch’ella vede meglio dotati di qualità di animo. Imperocchè non bastandole di non essere larga dei suoi favori verso questa così bene educata famiglia, ha quasi tutti i fratelli e le sorelle, che in essa sono, con qualche difettuzzo nel corpo fatti nascere, e non solo essi, ma tutti di quel casato, secondo che raccontano i vecchi di quel paese, ebbero in ciò qualche sciagura. La qual cosa gli uomini di senno non sogliono mai imputare a mancanza della persona che n’è aggravata, anzi si guardano molto bene dal parlarne giammai, e stimano una inurbanità grossolana e un’arguzia plebea il favellarne.

Ma per entrare nella storia, dico che tutti e tre questi buoni fratelli rivolti col pensiero alle loro faccende, altro non hanno a cuore, se non che di far sì, che quello che posseggono sia misuratamente speso per modo, che la fine delle loro rendite tocchi sempre il principio del nuovo anno, fuggendo sempre le apparenze e le maschere di grandezza, acciocchè duri uguale lo stato loro. Per la qual cosa due di essi, quantunque assai ben veduti ed accolti verrebbero da ciascheduno, vivono per lo più da sè a sè, senza curarsi di compagnia nè di conversazioni; e il terzo, che più giovane è, per far sì che la famiglia sua tenga appicco col mondo e abbia benevola la società, si lascia spesso vedere, e costuma dove tutti gli altri. Della qual cosa venendo spesso da’ fratelli suoi rimproverato, scusavasi col dire che la solitudine fa dimenticare altrui dell’uomo che in essa si seppellisce e si tuffa, e che dovendo gli uomini vivere l’uno dell’altro, era di necessità il conoscersi vicendevolmente. Così dunque facendo, com’egli dicea, ritrovavasi spesso in quei luoghi dove più [p. 131 modifica]si veggono frequenti gli uomini della sua città, e quindi era per la pulitezza de’ suoi costumi comunemente amato ed onorato. Avvenne un giorno fra gli altri, che standosi egli a sedere in una bottega di caffè, e ragionando con varj signori che quivi erano, entrò in quel punto un avvocato che, quanto alla professione sua, è uno dei più ingegnosi e celebrati che sieno in quel paese; ma, parte per natura e parte per voglia di far ridere le brigate, si diletta di pungere e motteggiare altrui forse giù gagliardamente di quello che consenta l’urbanità e la gentilezza dell’animo. Giunto dunque l’avvocato colà dove fra molti era il giovane, e postogli prima gli occhi addosso, quasi avesse a chiedergli qualche cosa d’importanza, gli disse: Signor mio, egli è lungo tempo che io desidero intendere da voi se nella vostra famiglia vi è un testamento, uno stromento o altra scrittura di fidecommissi e primogenitura, o altro, per la quale debba in ogni tempo venire per eredità ai corpi del vostro casato qualche sconciatura. Il giovane che udì il ragionamento, chiuso con tutto altro fine da quello ch’egli avea nel principio immaginato, e udì ridere intorno la brigata alla malignità di quelle parole, arrossì prima, e sentendo in suo cuore non picciola confusione, gli rispose: Signore, io non ho, che il sappia, offesa mai la persona vostra, nè lo farò; onde vi prego, da qui in poi guardatevi dall’attaccare me con parole, perché egli si potrebbe ancor dare che io fossi di tristo umore per aver pranzato male, e vi facessi pentire del vostro ardimento. Gran mercè, ripigliò di subito l’avvocato: voi mi date un buon avviso, ed io non vi parlerò più nè oggi, nè domani, nè l’altro, nè mai, perché sarete di tristo umore ogni dì, sapendo che non pranzate mai bene; gran mercè, gran mercè dell’avviso. Risero tutti i circostanti dell’amara puntura, comeché a molti intrinsecamente dispiacesse, essendo siffatta la natura umana che non si può ritenere dal ridere ad un improvviso morso dato ad altrui, comechè non si applaudisca in cuore al [p. 132 modifica]morditore. Il giovane, pieno di mortificazione ed addolorato, uscì della bottega, e andato a casa sua, stavasi quel giorno alla mensa tutto malinconico, e non avea cuore di mettersi boccone alla bocca. Di che avvedutisi gli altri fratelli, e chiedendogli di ciò la ragione, egli finalmente la disse loro, querelandosi altamente della lingua che ingiuriato lo avea senza nessun argomento nè cagione. I due fratelli, che più volte lo aveano ammonito che ritirato si vivesse, non solo non giudicarono che si dovesse di ciò punto dolersi, ma quasi si ricrearono che ciò fosse accaduto per ammaestramento di lui, e in iscambio di confortarlo, gli rinfacciarono il suo modo di vivere, e deliberarono di starsene cheti. Non piacque punto la risoluzione ad una delle sorelle, la quale piena di spirito e di vivacità essendo, così prese a dire: A cui fa danno la famiglia nostra, s’ella si vive contenta di quello che il Signore Iddio le dà, e qual nostra vergogna si è che i corpi nostri non sono dei meglio fatti del mondo? Abbiamo noi colpa di ciò, e dobbiamo perciò essere derisi e rinfacciati da una lingua che morde il bene ed il male senza distinzione? Se noi sappiamo sofferire le nostre calamità con grande animo, io non chieggo già che siamo di ciò lodati; ma, quanto è a me, non intendo che ciò ci acquisti biasimo e derisione; e bene mi maraviglio di voi che, in iscambio di lagnarvi dell’altrui ardimento, rimproveriate il fratel vostro dell’altrui colpa. Oh, ci lasceremo noi sputare in capo, perché non siamo nè gran ricchi, nè ben fatti come i ballerini? Io fo giuramento che io medesima farò ravvedere l’avvocato del suo errore. Così detto, si tacque, e tacquero tutti gli altri, credendosi pure che ogni cosa dovesse terminare in parole.

Ma la giovane, a cui bolliva in cuore il suo ragionevole dispetto, non dimenticandosi nel vegnente giorno della sua promessa, presa ad una certa ora una vesticciuola ed un zendado, con cui tutto il viso si coperse, in compagnia di una fanticella, anch’essa travestita, andò ad un luogo dove si avea gran [p. 133 modifica]concorrenza di genti, e dove l’avvocato era usato a trovarsi. Quivi giunta dunque, e veduto l’avversario suo che appunto in un cerchio di persone si stava motteggiando e ridendo, gli andò da vicino, e quale un repentino fulmine che scocca dalle nubi, trattosi lo zendado indietro e scopertosi il viso, li auncinò con le mani il cappello e la parrucca, e li lanciò da lontano; indi, senza punto restare, incominciò e con le ceffate e con le pugna a battergli le guance e il capo con tanta furia e tempesta, ch’egli non sapea ove si fosse. Finalmente, quando le parve che bastasse e che tutti i circostanti fossero rivolti a vedere la zuffa, gli disse: Dottore, questi sono i testamenti, gl’istrumenti e le scritture dei fidecommissi, di primogenitura della nostra famiglia: voi siete avvocato, leggete ed esaminatele a vostro agio, chè io ve le lascio.E così detto, andò per li fatti suoi, senz’altre parole, lasciando l’avversario impacciato a raccogliere il cappello e la parrucca dal fango, con tutte le persone intorno che ridevano dell’avvenuto accidente.