Novellette e racconti/LXV. Il Dente posticcio

LXV. Il Dente posticcio

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LXIV. Il mantello altrui acconciato alla propria statura LXVI. Avventura di un Religioso che si mascherò per assistere inosservato al teatro
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LXV.


Il Dente posticcio.


Io ho soprattutto stizza contro certuni, i quali quando hanno incominciato un ragionamento, non pensano mai a toccarne la fine. Mille volte tu credi che siano per chiudere, e ritrovano tanti appicchi, viottoli, aggiramenti, e tante fila gittano, e ora a questo, ora a quello si appigliano, che il fatto loro è una morte a starli ad udire. In tutto l'anno presente io sono uscito un giorno solo di Venezia due dì fa, e mi sono abbattuto a uno di questi tali che m’empiè il capo di tante parole, che fui vicino a stordire, e tuttavia il termine mi riuscì per caso da ridere e giocoso. È questi un certo valentuomo che passa oltre a’ quarant’anni, ed afferma ne ha trentadue appena; e perchè non so quale calamità passata gli abbia fatti uscire qua e colà dalle gengie da forse sei denti, ne ha comperi altrettanti da un artefice, e tiengli in bocca per suoi fino al tempo dell’andare a letto, e allora gli ripone sull’armario in uno scatolino nella bambagia. Tiensi pel miglior dicitore di questo secolo, e principalmente per cacciatore come Atteone, e sempre va con l’archibugio in ispalla, e quando ritorna a casa, racconta i più mirabili accidenti che fossero mai di [p. 115 modifica]un certo suo cane, di una quaglia o di una beccaccia; e quando egli entra a dire del suo archibugio, la lingua non può più arrestarsi in sua bocca. La fortuna che mi strazia per ogni verso, mi fe’ trovare costui in un cortile, mentre ch’egli ritornava a casa col suo archibugio in ispalla e col cane alle calcagna; onde vedutomi, come quegli che mi conosceva da lungo tempo, incominciò a cianciare e a raccontare il fatto mirabile di una lepre che si era fuggita con non so quai pallini nel groppone; e dálle dálle dálle, tanto si scaldò, che percosso colla lingua un dente, lo sbalestrò in terra di qui colà, come se l’avesse sputato. Beccavano all’intorno di noi alcuni polli, e come fanno che quando veggono a cadere qualche cosa, allargano l’ale, allungano il collo e corrono a quella in furia pigolando per beccare, se ne mosse uno stuolo, e uno fra essi prese il dente in becco e giù nel gozzo. Il galantuomo che si era già chinato per ricoglierlo, e vedevasi la preda uscita di mano, montò in tanta furia contro al pollo che avea beccato il dente suo, che il tirare giù l’archibugio della spalla, lo scaricare, l’ucciderlo, fu un battere di palpebre. Indi, preso un coltello, lo sparò, e trattogli il gozzo, prese da me commiato, e senza altro dirmi, vergognandosi del caso, andò a’ fatti suoi con esso gozzo in mano, come s’egli avesse avuto un tesoro; ed io liberato da una villanella che si querelava pel pollo suo, lo comperai due cotanti di quel che valea, per gratitudine del ricevuto benefizio.