Novelle (Sercambi)/Novella CXVIIII
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CXVIIII
Odito quanto dé l’uomo guardarsi di fidare la sua persona al suo nimico — per la qual cosa il proposto lodò molto l’altore che di tale cosa avea amaestrato la brigata — , e perché era assai di buon’ora prima che fusse l’ora del desnare, il proposto comandò a’ cantatori che una canzona dicesseno fine che l’ora serà d’andare a desnare. E presto uno cantatore con una damigella comincionno una canzona in questo modo:
«Io prego che ogni donna cruda invecchi
e poi per più sua pena ognor si specchi;
che veggia i dì perduti e ser condotta
nelli anni ove natura lei disprezza.
Ver’è che ’l tempo ritorna a bell’otta
a chi trapassa al dare quel che il diletta;
così d’ognuna invidia fa vendetta
tornando il ben dell’altre a’ suoi orecchi.
Se stesse fermo e non fuggisse il tempo,
o che ier ritornasse, ristorare
sé donna altrui potrebbe; ma di tempo
chi la potrebbe, chi l’amasse, amare?
Non vuol per suo piacere donna filare:
pensa poi tu che in perdere tempo pecchi».
Ditta la canzone, le vivande aparecchiate, lavate le mani, a seder si puoseno. E desnato, preso le danze, in uno giardino se n’andaro dove lo proposto comandò a l’altore che una novella dica fine che l’ora sera d’andarsi a posare per lo giorno che caldo era. L’altore atto a ubidire si voltò alla brigata parlando: «A voi, omini che v’afrigete trovando le vostre donne in fallo, non pensando che natura l’ha condutte a tale atto; e però ad exempro dirò una novella: non però che le donne debiano di ciò prendere sigurtà, ché radi si troverenno pazienti, come innella seguente novella sentirete, in questo modo:
DE INGENIO MULIERIS ADULTERE
Al tempo del vecchio re di Napoli, re Manfredi, e di madonna Lagrinta, che s’inamorò di uno scudieri.
Fu in Napoli al tempo del vecchio re, cioè dello re Manfredi, uno cavalieri nomato messer Astulfo, il quale avendo una sua donna bellissima e gentile nomata madonna Lagrinta, la quale doppo molto stare col marito e di lui prendendo quello piacer che donna di marito prender si possa intanto che a ciascuno di loro parea essere innel secondo paradiso, e così dimorando, divenne che più volte trovatasi la ditta donna a sollazzo a certi giardini con alquante donne e baroni, e doppo molto sollazzare (come più volte è adivenuto) la ditta madonna Lagrinta s’infiammò d’amore d’uno scudieri nominato Nieri, assai della persona da pogo a rispetto del marito. Per lo quale amore, doppo molte danze e canti prese ardimento la ditta donna di parlare a Nieri sua intenzione narrandoli l’amore ch’ella avea preso di lui; e doppo alle presente parole, Nieri aconsentìo a tutto ciò che la ditta donna li richiese. E dato l’ordine di trovarsi insieme, <si trovonno> quine u’ si preseno piacere e diletto. Per le quali cose l’uno e l’altra si teneano assai contenti.
E perché le cose non si puonno sì strette fare che a luce non vegnano, un giorno il ditto messer Astulfo, oltra l’usato modo, per alcuno accidente si partìo di corte et a casa dove la donna tornava se ne andò. E non avendo la donna pensiere che il marito tornasse, lassati aperti et usci e porti, essendo inne’ letto con Nieri dandosi piacere, sopravenne messere Astulfo; et in camera entrato, trovò la moglie con Nieri innel letto; e tutto spaventato vedendo la moglie averli fallito, di dolore quasi tramortìo. Nieri, che hae veduto messer Astulfo, subito gittatosi fuora de’ letto e quanto potéo dato a fuggire, <la donna volendolo seguire>, messer Astulfo come savio disse: «Donna, tu hai troppo fallito ad avermi vituperato, et ora il fallo che far vuoi sarè’ magiore volendo fuggire; e pertanto ti dico che a me hai fatto quello che giamai contento non debbo essere. E però ti dico che giamai meco non dèi usare fine che altro non sento di te che sia vastevile al fallo fatto».
E così di casa partisi tutto malanconoso et a corte tornò, e di quine pensò non partirsi né mai alla sua donna tornare. Lo re Manfredi, che ’l vede si malinconoso, disse più volte ch’era la cagione che sì malanconoso stava. Messer Astulfo fingendo li dicea or una cosa or un’altra, e del fallo della moglie niente dicea.
E dimorati alquanti mesi in tal maniera, essendo un di per malanconia posto a uno portico della sua camera del palazzo de’ re e pensando sopra di quello che la donna sua fatto li avea, venendoli alcuna volta pensieri d’ucciderla et alcuna volta di disperare se tanto dolore l’abondava; e stando sopra tali pensieri, vidde uno cattivello, che andava col culo innel catino, acostarsi alla porta del palagio di madonna Fiammetta reina e moglie de’ re Manfredi e collo scannello picchiava la porta di tal palagio. E doppo molto picchiare, la reina venne alla porta e quella aprìo. Di che quello giovano che innel catino sedea gittando lo scannello percosse innel petto della reina, dicendole villania che tanto avea posto ad aprire. La reina scusandosi che più tosto a lui non era potuta venire, e colle braccia prese quello giovano et in casa lo tirò. E cavatoli lo catino, in quello spazzo si lassò caricare. E stato alquanto in tal maniera, raconciantoli il catino e datoli de’ confetti e beuto, lo rimisse fuori di casa.
Messer Astulfo, che tutto ha veduto, cominciò a ralegrarsi (ché in fine a quel punto era stato molto malanconoso) dicendo: «Omai non mi vo’ disperare se la donna mia m’ha cambiato a uno scudieri, poi che io ho veduto la reina aver cambiato lo re a uno gaglioffo che va col culo innel catino». E pensò pigliarsi vita e buon tempo né mai più di tal fallo malinconoso stare.
E partitosi di quel luogo se n’andò in corte, dove con piacere e sollazzo danzando e cantando cominciò. Per la qual cosa lo re Manfredi, vedendo l’allegrezza che messer Astulfo di nuovo si prendea, considerato la malinconia che veduta li avea, lo dimandò dicendoli come potea esser che da tanta malinconia quanta era stata la sua tanto tempo, in sì picciola ora s’era mutato in tanta allegrezza, stringendolo che la cagione e ’l perché li dovesse narrare. Messer Astulfo, volendo celare, si fingea or d’una cosa or d’un’altra. Lo re, cognoscendo le scuse non esser sofficenti a tale atto, li disse: «Per certo, messer Astulfo, se non mi dite la verità voi cadrete dell’amor che io vi porto, e sempre per pogo mio amigo vi terrò se di tal fatto non m’aprite l’uscio della verità». Messer Astulfo, odendo tal parlare, fra se medesmo dicea: «Se io celo la cosa io verrò in dispetto di colui che più che me amo, e se apaleso il fatto dirò la vergogna che la reina li ha fatto, e potrenne morire».
E stando in tal pensieri, diliberò con uno onesto modo narrare tutto. E preso licenzia di parlare e chiesto perdono se contra di lui o di suoi cose dicesse men che bene, lo re li disse: «Dì arditamente, che tutto ciò che dirai da me perdonato ti serà né mai per tal ditto te ne serà fatto se non bene». Messer Astulfo, auto licenzia di parlare, disse: «Messer lo re, poi che così desiderate, io vi dirò tutte le cagioni in parte in parte; ma perché queste cose seranno di lunga materia, vi prego vi piaccia che altri che voi et io a tal pratica non debia essere». Lo re contento si trasse in una camera dove non volse che altri che lui e messer Astulfo fusse, e tutta brigata di fuori rimase.
E serrata la camera, messer Astulfo cominciò a narrare il vituperio che la sua donna li avea prima fatto, e che trovata l’avea innel letto con Nieri scudieri: «E di tal fallo presi tanta malinconia che più volte ho disposto di uccidermi per non volere tanto vituperio vedermi innanti. E molti altri pensieri istrani mi sono venuti innella mente. E quest’è la cagione che fine a qui hoe auto malinconia. E stando io in tali pensieri in sul portico della mia camera del vostro palagio, viddi venire uno gaglioffo, il quale — perché atratto e’ va col culo innel catino — venne a l’uscio del palagio di madonna reina e collo scannello più e più volte picchiò. E stando alquanto, viddi venire madonna reina et aprire la porta: lo gaglioffo, dicendole villania, le gittò quello scannello che in mano tenea per lo petto, dicendo: — Quanto se’ stata ad aprire? — La reina scusandosi che più tosto non era potuta venire, et aperte le braccia quello prese et in casa lo tirò et in mia presenza (che tutto io vedea) li levò lo catino e di sopra sel misse, e tale atto le viddi fare. E stato alquanto, aregò alcune confezioni; bevuto, li raconciò il catino, e’ di fuori n’andò. E penso, poi che così liberamente venne con tener tali modi, che più tempo sia che tale mestieri colla reina fatto abbia. Per la qual cosa, stimando io in me medesmo a cui la reina v’ha cambiato, comincia’ a pensare che magior cattività fusse quella della reina — per un, mille — che quella che la donna mia m’ha fatto, però che la vostra persona vale c mila pari di colui a chi la reina v’ha cambiato et io non vaglio molto più che Nieri. E pertanto dispuosi a darmi piacere e più non prendere malanconia; e questo è la cagione che ora di nuovo mi sono ralegrato».
Lo re sentendo tale novella disse: «Per certo, se così è come dici, ti dico che hai ragione di stare allegro et io di stare malanconoso, bene che a me innell’animo caper non può che la reina sia stata tanto matta ch’a’ tale atto sia divenuta; e se fusse vero, mai allegrezza non debbo sentire». Messer Astulfo dice tenea a certo esser vero: «Ma ben vi dico che a me incresce che constretto m’abiate a dovervi narrare questo fatto». Lo re dice: «Come avanti ti dissi, così ora ti rafermo che se mai ti volsi bene, ora te ne vo’ per un, cento; ma ben ti vo’ pregare che di tal cosa mi facci certo acciò che io possa a’ neri pensier mettere rimedio». Messer Astulfo disse: «Io penso a certo farvelo vedere, per modo che certo ne sarete». E diliberò che a quell’ora che la reina aprisse l’uscio lo re fusse con lui in su quel portico. Lo <re> disse che li piacea. E partiti di camera, ciascuno se n’andò con quelle che avea colte.
Messer Astulfo, stato alquanti dí <in> ascolto, un giorno di festa vidde venire quello gaglioffo: subito andato per lo re e lo re venuto, viddeno colui che l’uscio collo scannello picchiava, e perché la reina era alquanto dilungata dalla porta, non udendo sì presto, più e più volte colui picchiò. Ultimamente la reina in una giubba venn’e l’uscio aperse; lo gaglioffo con ira gittò lo scannello per darle innella faccia — e dato l’arè’ se non che la reina schifò il colpo — , dicendole: «Puttana, che hai fatto a venire?» Ella temorosamente in braccio lo prese e dentro lo messe, e fatto come messer Astulfo ditto avea in presenza de’ re, e poi misselo fuori. Lo re, che tutto hae veduto, disse: «Per certo, Astulfo, io sono diliberato non volere più vivere al mondo e vo’ che tùe et io ci partiamo di questo luogo et a persona non lo facciamo asapere, e pigliamo dell’argento assai per ispendere e scognosciuti a piedi senz’altra compagnia ci partiamo con intenzione di mai non ritornare fine che qualche aventura non ci viene alle mani che ci faccia certi del nostro ritorno». Messer Astulfo disse che volentieri si partirè’ dalla moglie se a lui piacesse, e con lui andarè’.
Lo re disposto a partirsi, senza altro dire, presi molti denari secretamente si partirono e caminarono verso Toscana per là passare tempo. E giunti che funno innel contado di Fiorenza in una villa chiamata Paretola, domandando del camino per andare in verso Pisa, fu loro contato che la via di Empoli era buono camino e poi da Saminiato; e di quine se a Lucca volesseno essere, lo camino era per la Cerbaia, e da Lucca a Pisa ha x piccole miglia. Costoro, inteso lo camino, si partirono da Paretola e vennero verso Saminiato dove fu loro contato che Lucca era piccola terra et assai ben posta, e piena di gran mercadanti e devota di molti santi. Lo re e ’l compagno, diliberati di venire a Lucca, passonno da Santa Gonda e Santa Croce e poi a Fusacchio, dirizzandosi verso la Cerbaia.
Et essendo del mese di luglio gran caldo, come funno giunti in un bell’oraggio et ombrina dove è una dilettevole acqua, si puoseno per lo caldo a riposo. E mentre che in tale maniera stavano, viddeno verso Lucca per la Cerbaia venire uno il quale in collo avea una gran cassa di molto peso, venendo assai agiatamente. E come fu presso a’ luogo dove lo re e ’l compagno erano a una arcata, diliberò lo re nascondersi lungi da quell’acqua per vedere qual camino quell’uomo far vorrà. E come diliberò misse in effetto, che lui e ’l compagno si partiron da quell’acqua et in uno boschetto si missero in ascoso.
Venuto colui colla cassa dov’era quello rezo e quella bell’acqua, avendo molto sudato sì per lo caldo grande sì per lo caminare sì per lo peso grande, si misse quine a riposo. E posto giù leggiermente la cassa e trattosi della scarsella una chiave, aperse la cassa e di quella uscio fuori una bellissima giovana d’età d’anni xx et a lato a lui se la fe’ puonere a sedere. E tratto del pane e della carne et un fiasco di vino della ditta cassa, in santa carità cominciorono a mangiare. E come ebbeno mangiato, essendo in sulla nona, il ditto, posando il capo in grembo a quella giovana cominciò a dormire et a sornacchiare forte. Lo re e ’l compagno, che tutto hanno veduto e vedeno, diliberonno, sentendo sornacchiare colui, d’apalesarsi a quella giovana, ché gran bisogno aveano d’una sua pari, però che poi che partiti s’erano, con neuna s’erano acostati.
E fattosi alquanto fuora del boschetto e faccendo amicchi alla giovana che a loro andasse, la giovana, come li vidde, parendo a lei omini d’assai, piano piano sotto il capo al marito misse il fiasco ùe lei di sotto l’uscio et andò a’ re et al compagno, dove fu la bene riceuta, che da’ re e dal compagno un volte fu contenta. La giovana, lieta di sì buona ventura che li era venuta, loda Idio e coloro che sì l’hanno fatta contenta.
Lo re la dimanda chi ella fusse e d’onde e chi era colui che ùsopra le spalli innella cassa la portava e la cagione. La giovana dice: «Io sono chiamata la Savia da Siena e sono moglie di colui che là dorme, il quale ha nome Arnolfo senese; e la cagione per che mi porta a questo modo si è per la gelosia che lui hae di me, che io non abbia a fare con altro uomo che con lui. Ha diliberato patire questa pena ogni volta che di fuori di Siena va per alcune mercantie, e quando siamo a Siena, sempre mi fa stare in una camera terresta innella quale non ha uscio né finestre se non graticolate di ferro e molto alte. Et in quella camera <entrare> non si può se non per una cateratta ch’è di sopra innel solaio, in su la quale lui fa il suo mestieri di dìe, e di notte quella apre e chiude da dentro con una chiave e viene a me, e quine si dorme fine a dì; e questo modo tiene di continuo. Ma la natura m’ha dotata, me e l’altre di Siena, che a tali rimedi troviamo modo: che io hoe fatto <sotto> terra, dove io tegno il mio letto, una cava tanto adentro che di fuori dalla casa riesce, e per quella ogni dì a mio diletto metto or uno or un altro, e talora vado a diportarmi con altri. E per questo modo mi do piacere e lasso il pensieri e la malinconia a Arnolfo mio marito, et io mi prendo sollazzo e diporto non guardando a sua gelosia». Lo re, che ha udito il modo che ’l marito tiene di costei et ha sentito che ella si fa chiamare la Savia, dice al compagno: «Costei ci arà tanto insegnato che con buona scienzia a casa potremo ritornare».
E parendo tempo alla giovana dover al marito tornare, disse al re et al compagno se le suoi cose piaceano loro che di grazia ciascuno coglia una meluzza del suo giardino. Lo re, odendo si piacevolmente proferire, colse una meluzza, et una ne colse il compagno; e per ricompensazione del buono servigio, lo re li donò un bellissimo anello di grande valuta. Lei come amaestrata cognove il gioiello, pensò costoro esser di grande stato. Et acomandati a Dio, ritornò dove il marito giacea; e svegliatolo, faccendo vista d’esser co’ lui stata, disse: «Deh, quanto m’hai dato carico in sulle cosce!» Lo marito presala et innella cassa messala e chiusa la cassa colla chiave, in collo se la misse e caminò verso Siena.
Lo re Manfredi, avendo tutto veduto e sentito, disse: «O messer Astulfo, ornai non è d’andare più tapinando per lo mondo, considerando che costei ci ha dato amaestramento che la femmina guardare non si può che non fallisca; posto che alcuni belli tratti loro si tolla, nientedimeno, a conclusione, ultimamente fanno la loro volontà. E pertanto ti dico che a Napoli ritorniamo e con onesto modo le donne nostre castichiamo né mai malanconia di tal fatto prendiamo».
E così disposti, a Napoli tornoro, dove ciascuno con bel modo la moglie castigòe.
Ex.º cxviiii.