Novelle (Sercambi)/NOTE/Nota filologica/I. I manoscritti/A) Il codice Trivulziano 193

I. I manoscritti - A) Il codice Trivulziano 193

Novelle (Sercambi)/NOTE/Nota filologica ../B) Il codice Lucchese 266 IncludiIntestazione 21 marzo 2023 75% Da definire

NOTE - Nota filologica NOTE - B) Il codice Lucchese 266
[p. 795 modifica]

A) Il codice Trivulziano 193


Cartaceo del secolo xv1, mm. 286 x 200, contenente cc. 278 numerate in cifre romane dalla stessa mano responsabile della scrittura a partire dalla prima c. dell’Introduzione, e in cifre arabe da altra mano (non ci sono comunque elementi sufficienti a stabilire la data di quest’ultimo tipo di numerazione) a cominciare dalle cc. di guardia, con una differenza, dunque, fra i due tipi di numerazione, di 10 cc.

Il cod. si compone di 28 quinterni, con richiami alla fine di ciascuno di essi: alla fine della c. numerata con la cifra decimale per i primi nove, ma dal decimo in poi (a causa della ripetizione della numerazione della c. xciv) alla fine della c. precedente quella segnata con il decimale (99, 109, 119, ecc.). Si rileva la mancanza della c. finale dell’ultimo quinterno (che dovrebbe avere il n. cclxxviiii), di altre due cc. dello stesso fascicolo (nn. cclxxvi e cclxxvii), sostituite da una c. bianca incollata alle cc. cclxx e cclxxi, e di una anche dal primo quinterno (n. iii), anch’essa sostituita da una c. in bianco che trattiene quella corrispondente del fascicolo, e cioè la n. viii. L’ultima c. (che riconosciamo come la n. cclxxviii perché così segnata nella tavola riassuntiva che appare all’inizio del codice, e non altrimenti riconoscibile dato che la numerazione è sparita per macchia d’uso) è incollata sulla c. bianca che sostituisce le due cadute. Tutta la numerazione romana dell’ultimo quinterno è sbiadita specialmente verso le cifre finali. [p. 796 modifica]

Le cc. lavorate del cod. sono guardate da un quaderno all’inizio ed uno alla fine, anch’essi cartacei, appartenenti alla stessa risma di quelle che sostituiscono le cc. cadute. Dopo il primo quaderno di guardia vi è una tavola, sostenuta da un’altra c. in bianco, segnata con il n. arabo 9, indicante i titoli latini ed il luogo dove essi si leggono; essa inizia con la nov. n. lxxxiii, e manca perciò della prima parte, che doveva invece formare il contenuto di un’altra c. ora caduta.

La rilegatura e la marginatura delle cc. è a secco. Le cc. del testo recano in filigrana un cane colle orecchie pendenti, di due tipi, in uno dei quali la figura ha la testa e la coda più ritte che nell’altro. La filigrana è identificabile con uno dei due tipi descritti dal Briquet al n. 3643, di cui egli trova testimonianze a Venezia nel 1400 (?) e nel 1415, e in quest’ultimo anno anche a Palermo, e al n. 3645, di cui si trovano testimonianze a Roma nel 1469, a Napoli nel 1471 e a Palermo nel 14772. Le cc. di guardia e quelle che sostituiscono le cc. mancanti recano in filigrana un giglio di Francia, alcune volte ritto, altre volte rovesciato. Il giglio è sufficientemente documentato nelle filigrane presenti a Lucca, e sembra che appaia dopo la calata in Italia di Carlo viii3.

Il cod. è rilegato in pergamena molle, e sul dorso porta scritto: Sercambj / Novelle / C /, e, più sotto, da altra mano, in cifre arabe, 193. La scrittura è minuscola cancelleresca e sono evidenti almeno tre diversi tipi d’inchiostro: uno che dall’inizio va fino alla c. xli, un altro da c. xlii a c. cxxi, ed il terzo da c. cxxii alla fine. La copia venne eseguita da almeno due mani, molto simili. Il n. delle linee varia da un minimo di ventiquattro (c. ccxxiiir) ad un massimo di quarantaquattro (c. ccxlir), ma la media della maggior parte va da trentadue a trentasei.

Al marg. di alcune cc. si trovano i seguenti segni: xir; 🞢g̅h̅s̅ maria verso sin., e verso d. θθθγ; xxiv: sul marg. sin., fra le linee 3 e 4, dei segni illegg. ed il n. 1535, di altra mano; xxr: al marg. inf. sin. della c., segni illegg. di altra mano,⟩⟩⟩ L e sotto di essi, — ff off off; xxxr: mano sul marg. d. verso tre quarti di c.; xlviiiiv; al marg. inf. sin., da altra mano, il n. 49; lviiv: al marg. inf. sin., da altra mano, il n. 57v; lviiiv: allo stesso luogo, n. 58; lxviir: mano disegn. sul marg. d. verso il primo quarto di c.; lxxv; mano che punta verso l’alto immediatamente al di sopra del titolo italiano della nov.; cxcir e v: al centro del marg. sup. [p. 797 modifica]un segno di croce; segni di croce ed altri segni illegg. al marg. Inoltre, segni di richiamo dalla c. clxxxi alla c. clxxxviii, specificati e descritti nell’apparato, dove abbiamo descritto e specificato anche le lacune e altre corruttele incontrate nel testo.

Il cod. ha inizio con le parole: «Lo sommo e potente dio dal quale tutti ibeni deriuano», e termina con la frase: «martino subito auto certo beueragio 7alla donna reina portatolo». La L della prima parola deli’incipit è miniata in rosso; le lettere iniziali di molte nov. e dei loro prologhi sono miniate in nero, ma certo non da un miniatore professionista. Non tutte le lettere iniziali dei prologhi e delle nov. sono miniate, perché l’autore (o piuttosto il copista) ha voluto dare un avvertimento al lettore, scrivendo alla fine della tavola contenuta all’inizio del cod. la nota: «Tutte quelle che sono miniate dinero nonsono daleggere inpresensia di donne dabene. Nota Lettore». Questa nota ha fatto credere al Gamba4 che il codice autografo dovesse essere adorno di miniature e che il T fosse dunque apografo. Il Renier5 credette invece che l’amanuense intendesse come «miniate di nero» quelle nov. che nella tavola sono contrassegnate con un puntino. Ecco la tavola stessa, dove noi segnamo con asterisco i titoli preceduti dal puntino nero:

*

de crudelta massima

acarta

123
de Bona prouidensa

»

124
de bona fortuna in auersitade

»

126
de magnanimitate mulieris et bona uentura juuinis

»

127
de pericolo in ytinere

»

130
de Latrones et bona justicia

»

132
de malisia hospitatores

»

133
de falsatores et bona justisia

»

135
de massimo furto

»

136
de restauro fatto per fortuna

»

136
de rasionabili dominio et bona justisia

»

131
de maluagitate in ypocriti

»

139
de malisia et inghanno

»

141

*

de ciecho amore

»

142
de uiltade

»

145
de Cattiutitate stipendiari

»

144

*

de falsitate mulieris

»

147

*

de malisia homini

»

149

*

de subita malisia in muliere

»

151
[p. 798 modifica]

**

de Auarisia mangna

»

155

*

de inghanno in Amore

»

156
de jnuidia

»

158
de Lungho jnghanno

»

159

*

de Malisia mulieris adultera

»

162
de presuntuosi

»

164
de somma gholozitate

»

166
de mangna gholozitate

»

16.

*

De prelato adultero

»

1..
de justo giudisio

»

1..
de auaro

»

173
de ponpa Bestiale

»

175
De mala Custodia

»

176

*

De Pigrisia

»

177

*

de pessima malisia in prelato

»

181

*

De nemico reconciliato ne confidetur

»

182

*

de ingenio mulieris adultera

»

183
de disonesto famulo

»

188
de pulcra responsione

»

19.
de petito canino 7 no tenperato

»

19.

**

de mala corresione

»

...
De Jnghanno piaceuole

»

193
De disperato dominio

»

195

*

de mala fiducia de nimicigº

»

197

*

de tradimento fatto per monacum

»

199

*

de Malisia mulieris adultera et simile malisia uiri

»

201

*

de paulco sentimento in juuano

»

205

*

de Magna Gelozia

»

207
de juuano sottili in Amore

»

209

*

de Paulca amicisia

»

211

*

de Maluagio famulo

»

214
de perfetta sosietate

»

216

*

de praua amisisia uel societate

»

218
de Tiranno jmgrato

»

220
de somma jingratitudine

»

224

*

de Malisia mulieris adultera

»

226
de somma et justa uendetta de jngrato

»

228
de Bona et justa fortuna

»

230

*

de Romito adultero et jmghano

»

239

*

de Bona uetura

»

241

*

de Gelozo et muliere malisiosa

»

245

*

de placibili furto unius mulieri

»

247
de Massima jmgratitudine

»

251

*

de Motto placibili

»

254
[p. 799 modifica]
de falsatores

»

255

*

de justo matrimonio

»

257

*

de subito amore acceso i muliere

»

259
de Novo ludo

»

262

*

de jmghano i Amore

»

265

*

de muliere uoluntarosa i libidine

»

266
de muliere costante

»

269

*

de paula sapiensia uiri contra muliere

»

273
de falsitate huuani

»

275

*

de paulo sentimento domini

»

278

E qui appare la nota che abbiamo sopra riportato.

La tavola doveva esser considerata fuori testo: essa è certamente d’altra mano, non è inclusa nella numerazione in cifre romane che ha inizio, come abbiamo già detto, con la prima c. dell’Introduzione, e le cc. sono indicate in cifre arabe. Si noti anche come essa termini con la novella frammentaria che conclude il codice quale noi lo possediamo. Bisogna dunque supporre o che il codice non contenesse altre novelle oltre l’ultimo frammento a noi conosciuto, o che esso fosse già mutilo al tempo in cui venne aggiunta la tavola; in quest’ultimo caso, si potrebbe pensare che all’autore di essa risalga anche la numerazione delle pagine in cifre arabe. Confrontando la tavola con il nostro indice, si noterà anche che l’autore di essa non si è molto preoccupato di porre le novelle in giusto ordine, e che fra le cc. 201 e 205 non è indicata la nov. n. cxxviii, alla c. n. 203, di cui nel testo manca il titolo latino.

Quello che qui preme tuttavia di notare è che le novelle segnate con l’asterisco hanno nel testo la lettera iniziale miniata in nero, ad eccezione di tre di esse: De inimico reconciliato ne confidetur (c. 182), De prava amicitia (nella tav. de Panica amicisia, a c. 211), e l’ultima, De paulo sentimento domini. Può dunque darsi che il puntino nero fosse un segno usato per far intendere all’amanuense quali fossero le novelle da contrassegnare con le lettere miniate in nero. Ma non tutte le nov. da non leggere «in presenzia di donne da bene» son contrassegnate, poiché ci si aspetterebbe di veder marcate anche le nov. n. xn, lxiiii, lxxxxiii, lxxxxv, cxxxn, cxl, cl, che invero non sono edificanti; mancanza che potrebbe però essere spiegata dal fatto che esse non fanno sospettare, all’inizio almeno, il loro contenuto erotico.

I titoli latini del codice sono segnati sull’ultima linea del prologo e sono separati dalla novella da un doppio spazio, mentre quelli italiani sono segnati sul margine esterno della c. in corrispondenza delle prime linee (dalla prima alla quinta) della novella. Alla fine di ogni [p. 800 modifica]novella, verso il marg. destro ed in genere sull’ultima linea di essa, vi è Ex.º (=Exemplo) seguito dal numero romano progressivo che si riferisce certo alla nov. che precede. Un doppio spazio separa l’explicit di ciascuna nov. dal prologo di quella successiva. È perciò evidente che la carta mancante nel primo quinterno conteneva una nov. che doveva terminare con il frammento di ballata che precede la nov. ii, e che dunque il codice conteneva 156 novelle ed una Introduzione.

Il cod. contiene inoltre 115 componimenti o frammenti poetici, più quattro proverbi in distici. I metri rappresentati sono: canzoni, sonetti, ballate, madrigali, una caccia. Essi appaiono adespoti, ma nessuno di essi, forse, tranne l’acrostico dell’Introduzione, appartiene al Sercambi. La maggior parte delle poesie utilizzate appartiene invece al poeta fiorentino Niccolò Soldanieri, di cui il nostro testo contiene 30 delle 48 ballate conosciute, 16 delle 22 canzoni, una delle tre cacce e ben 13 dei 14 madrigali, per un totale di 60 titoli. Dato che le canzoni appaiono smembrate in strofe, i brani poetici utilizzati nei prologhi delle novelle vengono ad essere all’incirca cento. Escludendo perciò i sonetti del poeta fiorentino, nessuno dei quali viene utilizzato dal Sercambi, troviamo qui trascritto il settanta per cento della produzione poetica nota del Soldanieri.

Il T 193 rappresenta dunque una delle testimonianze più vaste della produzione del Soldanieri, seconda solo alla silloge contenuta nel cod. Laurenziano-Rediano 184. Non riusciamo però a stabilire quale fosse la fonte di cui si servi il Sercambi, poiché la nostra raccolta non combacia interamente con nessuna di quelle note: alcuni dei componimenti qui presenti mancano financo dal LR, e c’è da supporre che la ballata Ami tu, donna, me come dimostri col madrigale Io son Ballata e vegno a voi, madonna, a cui appare unita nel prologo alla nov. cxlvii, siano da attribuirsi anch’essi al Soldanieri, come notiamo nell’Apparato. Si noterà anche come la lezione offerta dal nostro codice sia in molti casi più corretta e genuina di quella dei codici fin’ora conosciuti ed utilizzati, venendo a costituire una delle fonti indirette più pregevoli per la tradizione del testo delle poesie del Soldanieri.

Il codice è certo apografo: i continui fraintesi ed errori di lettura, le espunzioni determinate da omissioni di linee o di carte (com’è appunto il caso nella nov. xv), da dittografie o da prolessi, i frequenti casi di aplografia ed omoioteleuto, i sospetti di trascrizione sotto dettatura (come ad esempio il livellamento in direzione fonematica lucchese delle sibilanti, molto oscillanti invece in altre opere del Sercambi), le lacune determinate dall’ovvio rifiuto da parte dell’amanuense stesso di con[p. 801 modifica]getturare quando non riesce a decifrare, dimostrano chiaramente che ci troviamo davanti ad un apografo. L’autografia del codice è comunque esclusa anche dal confronto fra la grafia del T con quella dei documenti certamente autografi del Sercambi, e cioè la Nota ai Guinigi e le lettere del 1382, su cui si veda la sezione seguente.

D’altra parte, lo sforzo del copista (o copisti) di mantenersi fedele alla lettera del modello (notevole specialmente nella trascrizione di poesie e nei casi in cui T riesce a rettificare qualche errore grafico che appare invece nella redazione delle novelle contenute nelle Croniche), ci sostengono nel ritenere che esso sia un apografo diretto.

Dal confronto poi tra T e le abitudini grafiche note da altri scritti del Sercambi, ci accorgiamo che la grafia è stata nel nostro apografo modernizzata: ad es., i nessi pt (cipta, aceptare, ecc.) e ct (tucto, lectore, ecc.), così caratteristici della scrittura del Sercambi, qui sopravvivono solo in ruderi molto rari. Ci sembra poi che la calligrafia dei titoli latini sia stata influenzata dai caratteri cancellereschi umanistici. Per cui bisogna ritenere che la copia sia stata eseguita a Lucca piuttosto addentro al secolo xv, verso la metà circa di esso.

Altri elementi caratteristici della scrittura di T sono rappresentati dal modo capriccioso in cui appaiono le maiuscole (raramente presenti), e i segni d’interpunzione, per i quali manca qualunque traccia di sistema (presente invece negli autografi).

Il testo contenuto nella c. iv e nella c. ii (r e v) è diviso in regolari paragrafi, ciascuno separato da un doppio spazio e con il capoverso sporgente sul margine. Ma a partire dalla c. iiii, i capoversi appaiono in modo capriccioso in corrispondenza dell’a capo, ma quasi mai coincidendo con esso. Sistemazione suggerita certo dal desiderio di risparmiare tempo e spazio, ma che denunzia trascuratezza nel copista e noncuranza in chi aveva commissionato la copia.

La storia del testo delle Novelle comincia molto tardi, per esser precisi nella seconda metá del sec. xviii, allorché appare la prima testimonianza dell’esistenza di un codice posseduto dall’erudito e bibliofilo lucchese Bernardino Baroni. Questi, in margine alla copia che egli stesso trasse dal voluminoso studio del padre A. Berti, Memorie degli scrittori lucchesi6, nel quale erano ricordate le Croniche del Sercambi, annotava: [p. 802 modifica]Oltre a queste scrisse ancora ad imitazione del Decamerone del Boccaccio, cento Novelle, raccontate da una brigata di uomini e donne, quali per fuggire la Pestilenza che era in Lucca, intraprendono un viaggio per la Toscana, e per sollevare il disagio del camino, sono racontati varj casi et accidenti, mescolati con sentenze morali, e con poesie; questo ms. codice che forse unico et autografo si trova appresso di me, che (sic) prego sia guardato e custodito, come cosa pregevole.

Una seconda descrizione del codice ci proviene dalla mano del nipote di Bernardino Baroni, il padre servita Luigi, del quale il Papanti7 trovò una lettera indirizzata al bibliofilo livornese Gaetano Poggiali, datata da Lucca il 17 luglio 1793, la quale dice:

Il ms. del Sercambi ha per titolo: Novelliero di Ser Giovanni Sercambi, lucchese; lo scriveva nel 1374 come apparisce da una Novella di un Giudice che comincia: In questo dì 4 Aprile 1374 avvenne in Lucca che uno Giudice Marchigiano ecc. Sono cento Novelle, con rime alla fine di ogni diecina, e dette Novelle sono avventure accadute a suo tempo, nominando le famiglie e le campagne del Lucchese Stato dove accadute. Lo stile è buono, ma mischiato di qualche termine popolare del volgo, come si ragionava a suo tempo. Questo Giovanni fu di casa illustre perché godè nel 1400 delli onori della Repubblica: morì nel 1413 o 14, ottogenario, come apparisce da un vecchio necrologio che tengo. Si può vedere su questo autore il celebre Muratori, tomo xviii, Scrittori Italici, dove porta un frammento di Cronica della città di Lucca, scritta da questo Sercambi, e portata fino al 1410, se non fallo.

La lettera era stata scoperta dal Papanti insieme con la copia della novella De novo inganno (n. xxxv)8, «tra le poche carte manoscritte spettanti al Poggiali, che, or fa pochi mesi, riusciva al Sig. Mario Consigli di salvare dalla stadera del pizzicagnolo», ecc. Lettera e novella furono acquistate dallo stesso Papanti, il quale confrontò i due documenti trovandoli della stessa mano9. [p. 803 modifica]

Su queste due descrizioni fu basata l’ipotesi dell’esistenza di un codice Baroni, distinto da quello Trivulziano10; e in special modo sul fatto che in esse si menzionassero cento novelle, mentre, come rileva il Papanti, il Trivulziano ne conteneva 156; sul fatto che, essendo sfuggita la caduta della c. n. iii del nostro codice, la nov. copiata dal padre Luigi veniva a corrispondere al n. xxxiv del T; sulle rime alla fine di ogni decina, e sul fatto, infine, che il viaggio della brigata era limitato a città toscane. L’esistenza dunque del codice Baroni poggia specialmente sulla testimonianza di padre Luigi Baroni.

Non sappiamo quali fossero precisamente i rapporti fra il Poggiali ed il padre Baroni, ma dal tono della lettera di questi ci sembra che essa contenesse un’offerta del codice stesso. Purtroppo il Papanti non stampò intera la lettera, dalla quale forse avremmo potuto più chiaramente arguire le intenzioni del corrispondente, e la nostra dunque è destinata a rimanere una supposizione. Sta di fatto però che dalla data della lettera in poi manca qualunque notizia del codice cui si riferiva Bernardino Baroni.

Molti anni dopo, il Lucchesini ne lamentava la sparizione, supponendo che esso fosse stato «involato»11. Giovanni Sforza sospetta che a fargli «prendere il volo» sia stato lo stesso padre Luigi12, il quale sul finire del secolo xviii, a partire dalla morte dello zio, si disfece di molti codici e cimeli appartenenti alla famiglia, codici che solo molto più tardi, e solo in parte, la Biblioteca Governativa di Lucca poté riacquistare da bibliofili e antiquari di diverse città13.

Non si hanno elementi per corroborare i sospetti dello Sforza, ma [p. 804 modifica]bisogna però registrare qui un’altra dichiarazione del Papanti, sempre a proposito della fine del codice Baroni14:

È poi a mia certa notizia, che intorno all’anno 1808, tutti i libri del prefato Baroni, furono da lui venduti alla principessa Baciocchi, la quale, in quel tempo, signoreggiava il territorio lucchese; ma se, com’è da supporsi, in quelli fosse pur compreso il codice Sercambi, è cosa che non giunsi ad assicurarmi, per quante pratiche io abbia fatte in proposito. Seppi bensì che, dopo la caduta del primo Napoleone, i Baciocchi, caduti essi pure, presero stanza in Bologna, dove la loro Biblioteca andò dispersa.

Conviene ora domandarsi fino a qual punto la descrizione del padre Baroni sia accurata e se essa sia veramente basata su di una conoscenza completa del codice o solo parziale. A questo proposito, bisogna prima di tutto notare che il Ser che appare davanti a Giovanni esclude che il titolo che appare nella descrizione possa esser di mano dello stesso autore o di un suo contemporaneo. Inoltre, bisogna ricordare un particolare già da noi rilevato, ma sfuggito non solo agli editori del Sercambi ma agli stessi descrittori del codice T, e cioè il fatto che esso reca sul dorso come titolo: Sercambj / Novelle / C. Non v’è traccia di cifre svanite o di rasure dopo il C. Potrebbe forse darsi che i Baroni si fossero lasciati guidare da quella chiara iscrizione e non si fossero curati di controllare fino in fondo il codice che per loro non aveva alcun particolare interesse?

La prima notizia dell’apografo Trivulziano che oggi conosciamo risale al 1816, allorché Bartolomeo Gamba pubblicò venti novelle del Sercambi. Da quanto si apprende dalla breve prefazione, pare che il codice gli fosse stato affidato dal Conte Gio. Giacomo Trivulzio perché lo esaminasse. Egli infatti stabilisce che esso non può essere autografo, riesce a dame una datazione approssimativa, decifra l’acrostico dell’Introduzione dando notizie del Sercambi. Afferma poi che, essendo il codice quasi indecifrabile, ne fece trarre una copia, dalla quale egli poi trasse le sue venti novelle15. Non possediamo alcuna descrizione dettagliata di tale copia16, né si hanno notizie sul numero degli estratti su di [p. 805 modifica]essa esemplati17. Si sa per certo che essa era tutt’altro che un esempio di fedeltà18, e bisogna anche sospettare che non contenesse i titoli italiani delle novelle né i prologhi, giacché nessuno degli editori che se ne sono serviti dopo il Gamba, compreso il D’Ancona, ne fa menzione. Per far tirare tale copia il Gamba asserisce di aver avuto fra le mani il codice «per alcuni mesi». Supponiamo che ciò dovette avvenire fra il 1811 ed il 1812, quando cioè il Gamba trascorse qualche tempo a Milano, tenendo anche presente che la sua edizione usci per i tipi di Alvisopoli, di cui egli era proprietario, nel 1816.

Né il Gamba né i cataloghi forniscono dati sulla provenienza del codice Trivulziano 193, né sulla data in cui esso andò a far parte della biblioteca dei marchesi Trivulzio. Si sa tuttavia che esso, offerto al marchese G. G. Trivulzio dal libraio Molini il 17 novembre 1807 per la somma di quaranta zecchini, venne acquistato per settecento paoli tre mesi dopo, il 23 febbraio 180819. Le date della transazione combaciano perfettamente con quella della dispersione della biblioteca Baciocchi a Bologna.

Sembra che il marchese Trivulzio fosse convinto di aver acquistato un codice autografo, poiché il Gamba, nella prefazione alla sua edizione, cerca di confortarlo affermando che, se esso non era autografo, era tuttavia l’unica copia di cui si avesse notizia.

Vediamo infine, raffrontando il testo trivulziano della novella De

[p. 806 modifica]novo inganno con quello della copia inviata dal padre Luigi Baroni a Gaetano Poggiali, in che cosa precisamente consista la loro differenza20:

[p. 806 modifica]

T


Nella città di Pisa al tempo che messer Castruccio Interminelli di lucha quella tenea come signore era ubidito Era uno jouano nomato ghirardo di Sanchasciano il quale essendosi innamorato duna jouana nomata monna felice moglie di johanni scharso E ben chel ditto gherardo fusse della ditta innamorata Madonna felice di queste cose non sera mai acorta 7 ben che alcuna volta lavesse veduto passar per la sua contrada E stando gherardo in tal maniera pensando in che modo con Madonna felicee esser potesse 7 non vedendo il modo che a lei dir potesse il suo secreto malinconoso più tempo stette Or auenne che uno cuzino di monna felice douea menar moglie a le cui nosse la ditta felice fu inuitata ghirardo che sempre colli occhi stava atento sentendo monna felice abe nosse del parente esser inuitata con honesto modo sofferse allo sposo che di seruidori auea bizogno volentieri ghirardo acetto dicendoli seruidor li trouasse ghirardo che auea auto quello volea disse jo ne trouero alcuno oreuile che vi piacera

E parlato con vno suo compagno giouano degli aglata il quale gran tempo era stato fuora di pisa cognoscere penso la sua imbasciata fare per messo di quel agliata 7 disseli jo amo una 7 fine a qui non o potuto mai a lei parlare E ora sentendo jo che a

[p. 807 modifica]queste nosse e/ inuitata 7 noi siamo seruidori ti prego che mi vogli seruire lo jouano agiata disse di 7 comanda 7 jo faro quello vorrai Ghirardo disse noi anderemo per la donna 7 jo diro che tu se mutoro 7 sordo 7 sta cheto dimostrando esser come dico Lo giouano agiata disse che tutto lo seruira venuto il giorno delle nosse ghirardo col compagno per tempo sono a casa dello spozo per andare per le donne che alla festa esser doueano. Lo spozo mostro la strina gherardo disse elli e bene che madonna felice vostra parente sia quie per riceuere laltre donne lo sposo disse tu di il uero andate per lei Ghirardo che altro non bramaua col jouano aglata se nando a casa di madonna felice 7 pichio luscio la donna aconcia in via scese E ghirardo col compagno messela in messo lacompagnaro 7 perchera molto lungi dallo sposo ghirardo stimo la sua imbasciata fornire E uoltosi a felice disse O madonna che pechato e/ che questo jouano che insieme e con medio vacompagnia 7 mutolo 7 non parla ne ode La donna che mai veduto non lauea ne il giouano lei riuoltatasi inuerso quel jouano il giouano agiata dimostrandosi non vdire ne parlare La donna die fede, che non dovesse vdire E come alquanto funno andati Ghirardo disse madonna Felice ora che qui non e/ altri che noi jo non posso tenere il grande amore che verso di uoi porto 7 o portato che quando jo vi uegho mi pare vedere vno angelo di paradiso E perchè qui non e/ altri che noi du vi dico che per voi moro fine a tanto che di uoi non o/ quello dolce che buono amore desidera la jouana che ode quello che

[p. 808 modifica]alcuna volta dalle donne desiderano ludire per honesta disse come vuoi che al mio marito faccia vergogna


Ghirardo dice questo altri non sapra. E se voi non lapalesate per me non sapalesera E dicosi la fidansa che Felice prese che neuno lo debia sapere che aconsentio che ghirardo allei andasse di notte la domenicha rivegnente 7 così rimasero dacordo spettando quelli du di che venire doueano ciascum di loro con diletto vzo E di molte altre cose dallegressa ragiononno fine che a casa dello spozo giunti furono Raunate le brigate 7 dezinato come d’uzansa doppo desnare ballare 7 chantare divenne che Madonna felice stando a sedere allato a una sua vicina. E uedendo ballare il giovano agliata disse felice alla compagna de che pechato e quello che quel jouano che balla non ode ne non parla di niente La donna disse a felice or non cognosci tu quel jovano elle disse si ma li e mutoro 7 non ode la compagna disse lassa dire che elli parla 7 ode 7 delli agliata bene e vero che molto tempo e stato fuori di pisa. E per fare certo felice chiamo il giouano Lo jouano riuoltosi 7 venuto alloro disse madonna che volete da me La compagna di felice dice quanto era che torno 7 douera stato lo jouano disse non molti giorni che a pisa era tornato 7 chera stato in domascho tra saracini. E partisi e incomincio a ballare


felice auendo vdito parlare lo compagno di ghirardo penso parlare con ghirardo 7 partisi dalla compagnia 7 a ghirardo sacosto dicendoli

[p. 809 modifica]Ghirardo tu mai ingannata che colui che techo era ode 7 parla come noi. Et tu sai quello che abiamo ordinato che sabbato notte douauamo esser insieme 7 prender diletto E ora vegendo che colui sa i nostri fatti tal cosa non puo seguire per lo nganno che mai fatto. Ghirardo disse madonna felice egli e vero chel jouano ode ma non cose che vi sia vergogna ma perche voi non vi sareste asigurata a parlarmi mi conuenne tenere questo modo E se non vorrete atener lampromessa lui credera pur che fatto labiate Et jo vedendo che non marete atenuto il fatto appalezero che con voi abia auuto mio contentamento 7 daro per testimonio il jouano agliata E per questo modo sarete vituperata ma se aconsentite doseruare la promessa jo non ne faro motto el giovano agliata che non vi cognosce 7 jo nel preghero pero che ogni cosa


fare per me non dira ne La donnaient vdendo le ragioni di ghirardo 7 ancor perchè e/ femina che volentieri desidera sasiar il suo apitito che e/ honore Rafrenando che a gerardo che la notte ordinata vegna. E così partiti la notte venuta Ghirardo con felice se die buon tempo pascendosi del pasto che ciascuno secho porta Et poi più volte a tal mestieri si trovonno 7 per questo modo felice fu ingannata posto che tale inganno li tornasse in dolcessa. /

[p. 806 modifica]

B.


Nella città di Pisa, al tempo che messer Castruccio Interminelli in quella terra come Signore era ubidito, era uno giovano nomato Gherardo di San Casciano, il quale essendosi innamorato di una giovana nomata madonna Felice, moglie di un Giovanni Scanso. E benché il detto Gherardo fosse della detta innamorato, mad. Felice di questa cosa non si era mai accorta, benché alcuna volta l’avesse veduto dalla sua contrada passare. Stando Gherardo in tal maniera, pensando in qual modo con mad. Felice esser potesse, e non vedendo via che alla detta potesse il suo amore manifestare, più tempo si stette. Ora avvenne, che uno cugino di mad. Felice dovea menar moglie, alle cui nozze la detta Felice fu invitata. Gherardo, che sempre alla occasione stava attento, sentendo la Felice alle nozze del parente essere invitata, con onesto modo si offerse allo sposo, che di servidore avea bisogno. Esso volentieri Gherardo accettò, ordinandoli altro servitore li trovasse. Gherardo contento, avuto quello volea, disse: Io vi trovaalcun servitore, che vi piacerà. E parlato con uno suo compagno giovane delli Agliata, il quale gran tempo era stato fuora di Pisa, pensò la sua ambasciata fare per mezzo di questo Agliata, e dissegli: Io amo una donna a cui non ho potuto mai altro parlare; ora sentendo io che

[p. 807 modifica]a queste nozze è invitata, noi vi saremo servidori, e ti prego mi vogli servire. Lo giovane Agliata disse: Comandami, che io farò quello vorrai. Gherardo disse: Noi anderemo per la donna, e io dirò che tu sei mutolo e sordo: sta’ attento di tnostrare essere, come dico. Lo giovane Agliata disse che in tutto lo serviria. Venuto il giorno delle nozze, Gherardo col compagno per tempo furono a casa dello sposo per andare per le donne, che alla festa esser doveano. Lo sposo mostrò la strada. Gherardo disse a lui: Fia bene che mad. Felice vostra parente quie sia per ricever le altre donne. Lo sposo disse: Tu di’ il vero; andate per lei. Gherardo, che altro non bramava, col giovane Agliata se ne andò a casa di m. Felice, che trovò in acconcio qual dovea per la festa. Gherardo col compagno messala in mezzo, l’accompagnaro, e perché era molto lungi la casa dello sposo, Gherardo stimò la sua imbasciata fornire: e vòltosi a Felice, disse: O madonna, io ho pregato che questo giovane, che in Siena non è mai venuto e che per sua disgrazia è mutolo e sordo voglia esser con noi. La donna, che mai veduto non l’avea, né il giovano lei, voltatasi verso il giovane Agliata che dimostrava non udire, né parlare, diè fede che non dovesse udire; e come alquanto furono andati, Gherardo disse: Mad. Felice, ora che qui non vi è altri che noi, io non posso piú tener celato il grande amore, che verso di voi porto, e ho portato, che quando io vi veggo, mi pare di vedere un angelo del paradiso; e perché qui non è altri che noi, non vorrete che per voi mora, che morrò fino a tanto che da voi non ho quello,

[p. 808 modifica]che lo amore mio, grande e buono amore, desidera. La donna che udì quello che il piú delle volte le donne udire desiderano, per onestà 'rispose: E come vuo’ tu che al mio marito faccia tale vergogna? Gherardo disse: Questo altri non saprà, e se voi non lo apalesate, per me non si apaleserà. E prendendo fidanza Felice, che niuno lo debba sapere, convennero che Gherardo a lei andasse di notte la domenica vegnente, e così rimasero d’accordo. E spettando dunque che venisse domenica, di molte e varie cose di diletto, e di allegrezza ragionarono fine che alla casa dello sposo giunti furono. Raunate le brigate, e desinato come è d’usanza, dopo desinare ballarono, e cantarono diverse strofe. Mad. Felice, stando a vedere al lato di una sua vicina, e guatando ballare il giovane Agliata, disse alla detta compagna: Che peccato che quel giovane che balla non oda, e non parli di niente. La donna si volse a Felice, e disseli: E che vai sognando? conosci tu quel giovane? Si, rispose Felice, quel giovane è nato mutolo e sordo. Rise molto la compagna, e disse: Lascia dire, che quello parla et ode, e chiamasi Agliata; bene è vero che molto tempo è stato fuora di Pisa: e per fare prova a Felice, chiamò lo giovane. Lo giovane rivolto, e venuto a loro, disse: Madonne, che volete da me? La compagna lo domandò quanto era che era torno, e dove era stato. Lo giovane rispose, che da pochi giorni era a Pisa ritornato e che era stato in Damasco tra’ Saracini; e partitosi ricominciò a ballare. Felice, avendo udito parlare lo compagno di Gherardo, pensò favellare con Gherardo; e scostatasi dalla compagna, a

[p. 809 modifica]Gherardo s’accostò, dicendoli: Gherardo, tu mi hai ingannata, che colui che teco era, ode e parla come noi; e tu sai quello che abbiamo ordinato, che sabbato notte doveamo essere insieme per prendere diletto; e ora veggendo, che colui sà i fatti nostri, tal cosa non può seguire per lo inganno mi hai fatto. Gherardo disse: Mad. Felice, egli è vero che il giovine ode, ma non ne fe’ vista, perché voi per vergogna non vi sareste assigurata a parlarmi, e mi convenne tenere questo modo: che se voi non vorrete tenere la promessa, lui crederà pure che fatto l’abbiate; et io, vedendo che non mi avrete attenuta la parola, come fatto, appaleserò che con voi abbia avuto mio contentamento, e darò per testimonio il giovine Agliata, e per questo modo sarete vituperata; ma se acconsentite di servare la promessa, io non ne farò motto, e il giovine Agliata, che non vi cognosce, e io nel pregherò, perché ogni cosa farà per me, non dirà niente. La donna, udendo le ragioni di Gherardo, e cognoscendo l’amore che li portava, come femina che volentieri credea che col sodisfare l’altrui appetito, l’onore suo non corrompeva, raffermando (sic) a Gherardo che la notte ordinata vegna. E così partiti, e la notte venuta, Gherardo con Felice si diè buon tempo, pascendosi del pasto, che a nessuno peso porta; e poi più volte a tal mestieri si trovorono. E per questo modo Felice fu ingannata, posto che tale inganno non li tornasse in dolcezza.


[p. 809 modifica]Si noti prima di tutto che il titolo che dà il Papanti (e che egli certo leggeva nella copia del p. Baroni) è Novo Inganno, senza la preposizione [p. 810 modifica]de, cosa che si può reputare estranea al Sercambi; estranee bisogna anche considerare voci come favellare, scostatasi, attenuta la parola, servare la promessa; tipi come detto, fosse, ecc. sono modernizzazioni della grafia. Un’accurata collazione dei due testi porta alla conclusione che tutte le altre differenze meno una si possono spiegare come errori di lettura, emendazioni o integrazioni o interpolazioni; non si riesce a vedere chiaro, dato che il Baroni non ha specificato (e bisogna riconoscere che per molte ragioni non poteva).

L’unico luogo su cui rimaniamo perplessi è la variante a p. 808, l. 25-26 (La donna si volse a Felice e disseli: E che vai sognando?), che, dato che in quel punto il testo non è corrotto, non riusciamo a spiegare come congettura del Baroni. A meno che non possiamo spiegare quel luogo come una frettolosa interpolazione del padre Luigi, dovremo credere forse che questo basti a individuare nel codice cosiddetto Baroni un testo diverso da quello contenuto in T.

La novella, come abbiamo già visto, occupa nel Trivulziano lo stesso posto che le venne assegnato nel supposto codice Baroni, il n. xxxv, per cui sembra difficile poter pensare a due diverse raccolte in cui quella con cento novelle (a parte la spiegazione di questo frainteso data più sopra) dovrebbe rappresentare un’edizione riveduta; perché in tal caso l’autore si sarebbe preoccupato di sopprimere una delle due redazioni dello stesso racconto nelle nov. xi e xiii e nelle nov. xxiii, lxxxxi e cxlvii.

Per esser sinceri, l’unico elemento che ci trattiene dall’essere pienamente persuasi della perfetta identità del supposto cod. Baroni con l’apografo Trivulziano è quella variante della novella xxxv. Tutte le altre differenze, o supposte tali, sono scosse da fondatissimi sospetti, sufficienti a renderci molto scettici riguardo all’esistenza di un secondo codice delle novelle del Sercambi.

O per meglio dire, un secondo codice potrebbe ancora saltar fuori, ma da tutt’altra direzione; da quella cioè che proviene da una importante quanto trascurata testimonianza; nella nota dei libri del Sercambi, da noi sopra trascritta21, è menzionato tra gli altri «un libro di novelle fece Johanni», che deve senza alcun dubbio essere l’autografo della raccolta. Non sappiamo se questo ms. sia andato distrutto o se un giorno potrà anch’esso esser disseppellito da uno dei tanti fondi ancora non catalogati o da una biblioteca privata.

  1. Il cod. fu descritto, molto sommariamente, da G. Porro, in Trivulziana, cat. dei codd. mss., ed. per c. di G. P., Torino, Paravia, 1884, p. 406; poco attenta è anche la descrizione di C. Santoro, I codd. Medioev. della Bibl. Triv., cat. a c. di C. S., Milano, 1965, al n. 39 (pp. 26-27).
  2. Cfr. C. M. Briquet, Les Filigranes, 2ª ed., Leipzig, Hiersemann, 1923, vol. i.
  3. Cfr. L. Volpicella, Primo contrib. alla conoscenza delle Filigrane nelle carte ani. di Lucca, Lucca, tip. Dessena, 1911, n. 328. Ma l’opera è rimasta incompiuta e non registra filigrane con il cane dalle orecchie pendenti.
  4. Cfr. Nov. di G. S. lucchese cit., pp. x-xi.
  5. Nov. ined. di G. S. cit., p. xliii e n.
  6. Ms. n. 33 della Bibl. Gov. di Lucca. La nota che riportiamo si trova alla c. 295v, sulla colonna destra riservata alle correzioni e postille.
  7. Cat. dei novell. dal. in prosa, rate, e possed. da G. P., Livorno, Vigo, 1871, ii, pref. all’App., pp. lv e v.
  8. Dalla descrizione del padre Baroni il Papanti arguì che il supposto Novelliero fosse addirittura diviso in giornate come il Decameron, giacché egli indica la novella come «quinta della giornata terza» (ibid. p. iii) senza peraltro spiegare su quale informazione abbia basato le sue conclusioni.
  9. Potrebbe darsi benissimo che la nov. compresa nella c. mancante dal primo quinterno (n. iii) fosse appunto quella cui si riferisce il p. Baroni.
  10. Per la questione si veda il Renier, pref., pp. xlvii-lii.
  11. «Scrisse ancora il S. molte novelle, che il Baroni possedeva, ma dopo la sua morte furono involate, onde io non potrei darne che sol questo cenno» (cfr. Della Storia letter. del duc. lucch. l. sette, Lucca, Bertini, 1825, p. 127).
  12. Cfr. La distruzione di Luni ecc. cit., pp. 7-8.
  13. Lo Sforza (ibid.) riferisce però un episodio piuttosto curioso che illumina la personalità di Luigi Baroni: «Era esso un appassionato raccoglitore di monete e di medaglie e ne adunò una bella collezione, che poi vendette alla principessa Elisa Baciocchi nel tempo che tenne il possesso di Lucca. Nel contratto di vendita ci volle un fatto, quello d’esser nominato conservatore del ricco medagliere, che venne allogato nella reggia colla magnificenza che era propria dei Napoleonidi. Il p. Baroni ogni giorno andava a vedere le già sue monete e medaglie, e spesso se ne metteva qualcheduna in tasca e se la riportava a casa. Quando nel marzo del ’14 caddero i Baciocchi, il medagliere era quasi vuoto. A sua scusa, anzi a sua giustificazione, bisogna, peraltro, confessare che il medagliere non gli fu mai pagato, e che se non avesse ripreso da per sé i pezzi più rari, il gabbato sarebbe stato lui».
  14. Op. cit., p. v.
  15. Nov. di G. S. cit., pp. iii-iv.
  16. Che una volta era essa stessa conservata nella Bibl. Trivulziana in due separati mss. catalogati sotto i nn. 194 e 195. Il Porro, nel suo cat. registra i due mss. (cfr. cat. cit., p. 406), notando solo che «è diviso in due volumi e vi sono riprodotti gli errori di lingua e di ortografia dell’originale». Qualche anno fa, avendo richiesto una riproduzione fotografica dei mss. attraverso la Bibliot. dell’Università di Toronto, ci fu risposto che essi erano andati distrutti a seguito di un’incursione aerea nel 1943 o 1944. La stessa risposta ci fu data a voce dal personale della Trivulziana, ma non siamo riusciti a vedere nessun documento scritto a conferma della notizia.
  17. Che vi fossero più estratti lo dichiara il D’Ancona, nell’introd. alle Nov. ined. di G. S. cit., Firenze, Libr. Dante, pp. 6-7; egli stesso, come diremo più sotto, basò la sua copia su uno «spezzone» postillato dal Gamba e scoperto nella Bibliot. della famiglia Scotti di Bergamo (ibid.).
  18. Lo stesso Gamba ebbe a riconoscere le mende piuttosto gravi della sua copia (cfr. Delle nov. ital. in prosa, bibliogr. di B. G. cassanese, 2ª ed., Firenze, tip. all’insegna di Dante, 1835, p. 74; e dello stesso, Serie di testi di lingua, 4ª ed., Venezia, tip. del Gondoliere, 1839, p. 351); ma si v. anche le osserv. del Papanti (in Dante sec. la tradiz., e i novell., Livorno, Vigo, 1873, p. 72), e la rec. di L. Biadene a G. Ulrich, Ausgewahlte Novellen Sacchettis, Ser Giovannis und Sercambis, mit einer Einl. vers., Leipzig, Rengersche Bachliandlung, 1891, in «Riv. crit. d. lett. ital.», vii (1892), pp. 214-15.
  19. Le date sono riportate da L. Rossi (cfr. Per il testo del Novelliere di G. S., in «Cultura neolatina», xxviii, 1968 [ma 1969], fasc. i, 59-60; ci fa piacere notare che il R., alle pp. 53-60 dell’art., in base a molti degli elementi da noi qui rilevati, esprime la sua convinzione che il cod. Baroni e T 193 siano identici), che ha potuto vedere di persona i documenti. Dobbiamo qui annotare con rammarico che una nostra richiesta, avanzata nell’estate del 1966 alla direzione della biblioteca Trivulziana allo scopo di ottenere il permesso di consultare eventuali allegati del T 193, venne respinta.
  20. Diamo qui il testo di T sciogliendo solo i gruppi grafici e le abbreviazioni.
  21. Cfr. sopra, n. i a p. 762.