Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXXII

Novella XXXII - Pronto ed arguto detto d’un buffone alla presenza del duca Galeazzo Sforza, contra i frati carmelitani
Parte III - Novella XXXI Parte III - Novella XXXIII
[p. 45 modifica]illustre e riverendo monsignor
Sforza Riaro vescovo di Lucca salute


Quanto sia biasimevole in ogni persona la superbia si può di leggero da questo comprendere: che generalmente in ogni compagnia tutti i superbi sono fuggiti e nessuno vuole il loro commerzio, ove per lo contrario gli umani e piacevoli sempre sono amati ed onorati. E nel vero l’inordinato appetito di voler precedere in qual si voglia cosa il compagno oltre i meriti grandi che la persona ha, sará sempre da’ sani ingegni stimato vizio. E stando la superbia in ogni sorte d’uomini male, come senza dubio sta, a me pare che ne le persone religiose stia malissimo, appartenendo a loro, che fanno professione d’umiltá, con opere virtuose a dar al mondo buon essempio. E facendosi il contrario, si dá materia di scandalo ai cristiani, come, pochi dí sono, qui in Milano avvenne in una solenne general processione, che dopo la rotta del campo dei veneziani in Giara d’Adda fu fatta, quando il re Lodovico di questo nome decimosecondo rivenne trionfando a Milano. Volevano i canonici regolari piú degno ed onorato luogo che i monaci di santo Benedetto, allegando alcune loro ragioni che sono stampate. E non potendo il detto luogo ottenere, perciò che messer Sebastiano Giberti, dottor canonista e vicario de l’illustrissimo e reverendissimo cardinal di Ferrara arcivescovo di Milano, non volse, mosso da prudente conseglio, che si facesse innovazione alcuna, alora i detti canonici non vennero in processione; il che diede assai da mormorar a tutto Milano. Avvenne quell’istesso giorno che essendo in casa di messer Giacomo Antiquario, uomo per buoni costumi, integritá di vita e buone lettere eminentissimo, molti gentiluomini, avendo egli fatto una eloquentissima e dotta orazione del trionfo del re, e parlandosi de la questione e lite mossa dai canonici, messer Nicolò da la Croce, iurisperito e piacevole gentiluomo, narrò una breve novelletta che assai ci fece ridere. Ed avendola io scritta, ve la mando e dono, a ciò che talora, quando dai vostri piú gravi studi vi sentite lasso, possiate, interlasciandogli, con la lezione di questa novelletta ricrearvi alquanto, non si disdicendo ad ogni grave ed onorato personaggio con onesta urbanitá talora sollazzarsi. Si legge che il [p. 46 modifica]grande Scipione Africano spesse fiate per via di diporto andava insieme con il suo Acate Lelio su per lo lito del mare, cogliendo de le cocchiglie e dei sassolini che son per entro l’arena sparsi. Socrate anco, quel famosissimo filosofo, soleva dopo gli studii filosofici scherzevolmente con uno suo figliuoletto giocare. E cosí far si deve, a ciò che con l’animo piú svegliato ritorniamo agli affari di piú importanza. State sano.Novella XXXII

Pronto ed arguto detto d’un buffone a la presenza
del duca Galeazzo Sforza contra i frati carmeliti.


L’avere, signori miei, prima udita la gravissima e dotta orazione del nostro dottissimo Antiquario, piena di tante belle istorie ed aspersa di mille passi reconditi, ci aveva di modo elevato l’animo che tutti eravamo restati quasi come fuor di noi, se il nostro ingegnoso poeta messer Lancino Curzio non ci avesse, col raccontare la indiscreta lite dei canonici regolari, alquanto destati, perciò che l’aversi indutto a dire quattro parolette de la loro ambizione e superbia n’ha pur un poco fatto ridere. Egli ci ha dato il digestivo, ed io, non uscendo di proposito, vi darò la medicina. Devete adunque sapere che, regnando Galeazzo Sforza duca di Milano, nacque in questa cittá una grandissima questione di precedenza ne le processioni tra i frati carmeliti e tutti gli altri religiosi, perciò che essi volevano precedere non solamente gli ordini mendicanti, ma anco tutti i monaci. Tutti gli altri allegavano le loro approvate consuetudini, confermate da diversi sommi pontefici. Ma i carmeliti dicevano che per lo passato gli era stato fatto torto grandissimo, e che la semplice umiltá dei loro maggiori era stata di questo cagione, e che questo non deveva pregiudicare a le loro ragioni, essendo eglino i piú antichi di quanti sono al mondo religiosi. Fu dedutta questa controversia al Conseglio secreto del duca, il quale, essendo giovine, volle esser presente ad udirla disputare. Un giorno adunque di festa, nel castello di Milano fece congregare tutti i capi d’ogni sorte di religiosi, e volse che ne la sala verde la cosa si disputasse. Fu dato il carico a l’eccellente messer Gian Andrea Cagnuola, dottor di leggi, come tutti conoscete, dotto e giustissimo, a ciò che egli le parti domandasse e facesse produrre le ragioni loro. Onde al priore dei carmeliti rivolto, domandò lui quanto era che l’ordine suo aveva cominciato. Il carmelita rispose che [p. 47 modifica]nel monte Carmelo sotto Elia cominciò. – Dunque eravate voi, – soggiunse il Cagnuola, – nel tempo degli apostoli? – Ben sapete che sí, – disse il priore, – che noi soli eravamo frati in quel tempo, perciò che ancora non era stato Basilio, Benedetto, Domenico, Francesco, né altro capo di religiosi. – E che fede farete voi di questa antiquitá cotanto antica, – disse il Cagnuola, – se vi fosse negata? – Aveva il duca un buffone molto arguto e galante, il quale, sentendo questa chimera che il priore carmelita diceva, saltò in mezzo e disse al Cagnuola: – Domine doctor, il padre dice il vero che al tempo degli apostoli non ci erano altri frati che essi, dei quali san Paolo scrisse quando disse «Periculum in falsis fratribus». Essi sono di quei falsi frati. – Ciascuno a l’arguto motto del buffone cominciò a ridere, e il duca, udita questa piacevola proposta, comandò che piú non se ne parlasse e che si servassero le antiche consuetudini. Il che da tutti fu ammesso, e i carmeliti se n’andarono dal popolo beffati.


Il Bandello a l’illustre e valoroso signore
il signor Roberto Sanseverino
conte di Gaiazzo salute


Vedesi di continovo per lunga isperienza che ne la natura umana ogni etá ha i suoi diporti e piaceri ove s’essercita, e ciò che a l’etá infantile e fanciullesca sta bene a fare e diletta i riguardanti, sarebbe di biasimo ad un giovine che in quello si volesse essercitare. Medesimamente la giovinezza ha i suoi giuochi e passatempi, e il giovine può fare di molte cose, e non meriterá castigo né riprensione, che se un vecchio e attempato far le volesse, sarebbe meritevolmente da tutti beffato. Lo innamorarsi e far il galante con le donne pare che a’ giovini convenga, in tanto che se si vede un giovine che viva senza amare, si dirá che egli non è uomo e che tiene del selvaggio e malinconico. Per lo contrario, quando l’uomo si truova in etá matura, il voler fare l’innamorato troppo se gli disdice, e spesso è cagione che il misero vecchio impazzisca e divenga favola del volgo. Di rado anco avviene che qualche scandalo non ne nasca, perciò che, non avendo il vecchio le debite forze che in amore si ricercano, egli diventa sospettoso