Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte III/Novella VIII

Novella VIII - Don Bartolomeo da Bianoro rimanda indietro un ducato doppio avuto d’elemosina; e non lo riavendo, si fa dar delle staffilate
Parte III - Novella VII Parte III - Novella IX

[p. 390 modifica]sposarla. Fu subito fatto pigliar Arnolfo e dato in mano de la giustizia, il quale confessò non saper chi fossero i suoi parenti, e che per venir al suo intento s’era finto esser di nobil legnaggio; onde fu condannato a perder la testa. E non dopo molto su la piazza di Bruggia publicamente gli fu mózzo il capo.


Il Bandello a messer Tomaso Castellano salute


Messer Antonio Castellano vostro zio, come voi meglio di me sapete, è uomo molto eloquente e nei communi parlari molto pronto, chè sempre ha qualche nuovo motto a le mani. Egli per esser stato affezionatissimo a la fazione bentivogliesca fu da Giulio secondo pontefice massimo di Bologna bandito, e stette lungo tempo in Milano in casa del signor Alessandro Bentivoglio, che dopo la perdita de lo stato di Bologna s’era ridutto a Milano, ove la signora Ippolita Sforza sua consorte aveva castella e possessioni de la eredità paterna. E perchè esso vostro zio era gran parlatore e che sempre a tutti i propositi che si dicevano aveva qualche istoria o novella da dire, avvenne che un giorno, essendo inferma la detta signora Ippolita, il Firenzuola, medico in Bologna molto famoso, che era stato fatto a posta venire, disse una piacevole novelletta del Barbaccia, dottore siciliano, che lungo tempo aveva in Bologna letto ragione civile, a la quale subito esso messer Antonio ne aggiunse un’altra, che non meno di quella del Firenzuola ci fece ridere. Diceva adunque il Firenzuola che, avendo il Barbaccia fatto un conseglio ad uno dei Ghisiglieri per certa lite che aveva con un suo nipote, il Ghisiglieri mandò venticinque ducati al detto Barbaccia; il quale, ritrovandone sette od otto che non erano così di peso come egli averebbe voluto, tutti rimandòglieli a casa, dicendo che voleva buona moneta e non oro che mancasse di peso. Il buon Ghisiglieri, avuti i ducati, menò il Barbaccia d’oggi in dimane, parendogli che per quattro fogli che aveva scritto non devesse mostrar tanta ingordigia del danaro, e mai più non gli volle dare un quattrino. Di che il Barbaccia piangendo, non faceva se non dire che meritava cento staffilate ad aver rimandato indietro i ducati. Messer Antonio, come ho detto, narrò subito un’altra novella; la quale, avendola io scritta, mi pare convenevole che si debbia [p. 391 modifica]dar a voi, essendo frutto nasciuto per opera di vostro zio. Ve la dono anco a ciò che vi sia pegno de la nostra amicizia. State sano.

Don Bartolomeo da Bianoro rimanda indietro un ducato doppio avuto d’elemosina, e non lo riavendo si fa dar de le staffilate.


Se il Barbaccia, signori miei, si lamentava del nostro cittadino come ora qui ha narrato l’eccellente Firenzuola, a me pare ch’egli n’avesse qualche ragione, perciò che essendo egli dottore famosissimo e di cui i consegli erano molto stimati, credere verisimilmente si deve che si fosse assai affaticato a rivolger tanti libri quanti le loro verbose leggi n’hanno, e che si fosse sforzato di trovar ragioni al proposito, sì per onor suo come per profitto del suo clientulo. Nè io osarei dire che il nostro Ghisiglieri sia da lodare avendosi i danari ritenuti. E secondo che questo non sono oso di dire, affermerò bene e santamente giurerò che una nostra gentildonna, chiamata madonna Giovanna dei Bianchi, merita lodi grandissime, avendo ad un prete avarissimo fatto una piacevol beffa, che fu di questa maniera. Non è ancora molto che, che essendo il tempo de la quadragesima, nel quale tutti i buoni e veri cristiani si deveriano al sacerdote confessare, che la detta madonna Giovanna andò a confessarsi ne la chiesa di San Petronio ad un prete chiamato don Bartolomeo da Bianoro, che aveva nome d’esser assai dotto ed uomo di buona vita, ma era più vago d’un soldo che non è il gatto del topo. Fece diligentemente la sua confessione la nostra gentildonna; e ricevuta la penitenza e l’assoluzione, diede al prete un doppio ducato d’oro, di quelli che al buon tempo faceva stampare il signor Giovanni Bentivoglio. Il prete allegramente prese il doppione e andossene a la camera, ove, come se avesse venduto pepe e cannella,pesò il danaro. E trovandolo che mancava del giusto peso quasi duo grani, se ne ritornò in chiesa e trovò che la donna ancor ci era dicendo le sue orazioni. Egli ebbe pur tanto di discrezione che aspettò che fu levata. Come la vide levare, così frettolosamente le andò incontro e le disse: – Madonna, voi m’avete dato un doppio ducato il quale non è di peso. Io vi prego che vogliate cambiarmelo. Eccovelo qui. – La donna il prese e, conoscendo a questo atto l’ingordigia del prete, gli disse: – Sere, in buona verità che io ora non ho altri danari meco, perchè [p. 392 modifica]pigliai questo a posta, pensando che fosse buono, avendomelo dato messer Taddeo Bolognino che sapete esser gentiluomo da bene. Ma io ve ne recherò un altro domatina. – Il prete le credette e restò in aspettazione di riaverne un migliore. Ella quel giorno istesso andò a San Domenico, si riconfessò di nuovo con uno di quelli frati e gli diede il doppione, pregandolo che facesse dir le messe di San Gregorio per l’anima di suo padre. Egli il prese e, chiamato il sagrestano, gli mostrò l’elemosina e gli impose che facesse dire le messe che ella aveva richiesto, e il doppione gittò ne la cassa de le elimosine, come è il costume dei religiosi osservanti. Il giorno seguente madonna Giovanna andò a la predica a San Petronio, come ella era solita. Finita che fu la predicazione, messer lo prete si fece innanzi e disse a la donna con un certo modo che teneva più de l’imperioso che altrimenti: – Madonna, avete voi recati i danari? – Ella, veggendo questa sua presunzione, gli rispose: – Messere, a dirvi il vero, veggendo che voi' 'rifiutaste il mio oro, io andai a confessarmi con un altro sacerdote, che l’ha trovato buono e di peso. – A questa voce il missero prete rimase mezzo morto e non sapeva che fare nè che dire, parendogli che il soffitto de la chiesa gli fosse cascato a dosso. Onde così mutolo se n’andò a la sua camera e quella matina desinò molto poco, mangiando più sospiri che pane. Dopo, non si potendo dar pace d’aver perduto tanti danari per la troppa ingordigia che aveva, chiamò un suo chierico che era di valle di Lamone, che era assai giovine ma forte scaltrito e malizioso; e chiuso l’uscio de la camera, si gittò a traverso una panca con le natiche scoperte e gli disse: – Naldello, – chè tale era il nome del chierico, – piglia quello staffile che è sulla tavola, e dammi venticinque buone staffilate sul culo, e non aver rispetto veruno. – Il chierico, veduto scoperto il culiseo di Roma, gli domandò che cosa era questa. Egli altro non rispose se non: – Dammi, dammi, ti dico, e non cercar altro. – Il chierico a questo, sentendo la determinata volontà del padrone, gli diede venticinque buone sferzate con pesante mano, a misura, come si dice, di carbone, di maniera che il culiseo aveva molti segni sanguigni. Avute le brave staffilate, il prete si levò suso e con voce pietose disse: – Figliuolo, non ti meravigliare se io ho voluto che tu mi sferzi, chè io ho commesso un grandissimo errore, che meritava molto maggior castigo di quello che dato m’hai. – E narrò al chierico la perdita del doppio ducato. Come il giovine sentì la pazzia del messere, se gli rivolse con il più brutto viso che puotè e disse: – Oimè, che sento! che vi vengano tremila cacasangui! [p. 393 modifica]E ch’avete voi voluto fare, uomo da poco e da meno assai ch’io non dico? Voi adunque avete restituito un doppione perchè non era così di peso come la vostra avara ingordigia arebbe voluto, avendolo voi guadagnato col far un segno di croce in capo ad una femina? Che vi venga il gavocciolo! e forse che non l’avevate venduto zafferano? Al corpo che io non vo’ ora dire, se al principio io avessi questa cosa saputa, io ve ne dava un centinaio con la fibbia de lo staffile. Andate, andate, chè non sapete vivere. – E così il povero prete restò con le sferzate e con le beffe.


Il Bandello al molto vertuoso signore il signor Antonio Fileremo il Cavaliero salute


Beveva l’acqua dei bagni d’Aquario la illustre e virtuosa signora, la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, e, come sapete, per più commodità e diporto s’elesse alora il suo giardino che è nel borgo de la Porta Comense, ove la casa o palagio ci è assai agiato. Quivi tutto ’l dì concorrevano i primi de la città così uomini come donne, e ci era sempre dopo il desinare alcun bello e vertuoso ragionamento di varie materie, secondo la professione e dottrina dei tenzionanti, e talvolta al proposito de le questioni che essa signora od altri mettevano in campo. Avvenne un dì che d’uno in altro parlamento entrando, si travasò a lodare il sesso femminile e raccontar alcune eccellenti donne antiche e moderne, le quali, di rare e bellissime doti compiute, si fecero al mondo riguardevoli e chiaramente famose. Ma tra tutte le lodevoli donne di cui si ragionò, per non istare a farne un calendario, sommamente fu lodata ed ammirata Pantea. E ricercando alcune di quelle signore aver più chiara contezza chi fosse Pantea, il signor Nicolò conte d’Arco, – giovine, oltra la nobiltà di sangue, ricchezze e rare doti del corpo, molto letterato e poeta colto e soavissimo, come per le elegie e altri suoi poemi si vede, – narrò brevemente l’istoria d’essa Pantea; il che non mezzanamente a tutti soddisfece. E perchè l’istoria è de le rare e degna di memoria, non mi parve disdicevole ch’io la scrivessi de la qualità che esso conte la narrò, se ben non forse con quella eleganzia e grazia di parole, almeno intieramente