Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XX
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come farebbe con un suo domestico. A me pare che Cornelia truovasse un mezzo a’ casi suoi più apparente e credibile. Ma sia come si voglia: io v’ho narrato questa istoria nè più nè meno come narrar l’ho sentita.
Se mille e mill’anni si ragionasse degli errori che la gelosia appiccata a uomo o a donna produce, e di quanti mali ella sia cagione, io credo che mai a capo non se ne verrebbe, veggendosi tutto il dì la varietà di nuovi falli che quella genera. Essendo poi stato da molti questo biasimevol vizio tassato, io per ora più di quello che è non intendo di vituperarlo, conoscendo che si perderebbe l’opera. Ben voglio scrivere un caso che, non è molto, in una città di Lombardia occorse, dal quale, quando altro mai detto non fosse, di leggero l’enormità de la dannosa gelosia si comprende. E perciò che avvenne in persona che, se nominata fosse, potrebbe di qualche scandalo esser cagione, io mi asterrò di porre i nomi proprii, ancor che il nostro gentilissimo messer Benedetto da Corte, quando in casa de la signora Lionora, sua sorella e moglie del signor Scaramuzza Vesconte, in Pavia narrò questo accidente, dicesse i proprii nomi. Avendolo dunque scritto, con lo scudo del vostro dotto nome il mando fuori, sapendo che a questa mia novelletta egli sarà tale quale fu a Perseo contra Medusa lo scudo di Pallade. E chi dubiterà che voi per me non pigliate la protezione, se in Pavia sempre sète quello che degli stranieri pigliate la diffensione? So che io appo voi non sono straniero, conoscendo quanto mi amate. State sano.
Fu al tempo del sapientissimo prencipe, quantunque sfortunato, signor Lodovico Sforza, in una città del ducato un mercadante molto ricco di possessioni e ne la mercanzia di gran credito. Egli prese per moglie una gentildonna giovane, costumata e d’animo generoso, da la quale ebbe un figliuolo senza più. Non era ancora il figliuolo di dieci anni che il padre morì, lasciandolo del tutto erede, sotto cura de la madre. La donna, bramosa che il figliuolo a l’antica nobiltà degli avoli suoi si traesse, non volle che a cose mercantili mettesse mano, ma con somma diligenza gentilescamente il fece nodrire e a le lettere attendere e ad altri essercizii di gentiluomo. Ella poi attese a ritirar più che puotè le ragioni che il marito ne le cose mercantesche aveva per Italia, Fiandra, Francia, Spagna ed anco in Soria, attendendo a comprar possessioni al figliuolo, che Galeazzo aveva nome. Crebbe egli e divenne molto gentile e magnanimo, e oltra le lettere, si dilettava de la musica, di cavalcare, di giuocar d’arme, di lottare e d’altre simili vertù. Il che a la madre era di grandissima contentezza, e di panni, di cavalli e di danari provedeva al figliuolo largamente, non gli lasciando mancar cosa che a lui piacesse. Ella in pochi anni sodisfece a tutti i debiti del marito ed anco ricuperò quanto egli da altri mercadanti deveva avere. Restava una ragion sola con un gentiluomo veneziano che trafficava in Soria, il quale deveva ritornar a Venezia, essendo già Galeazzo di sedeci in dicesette anni. Onde egli, desideroso, come sono i giovinetti, di veder del paese e massimamente la famosa ed onorata città di Venezia, pregò la madre che lo lasciasse andare. Non dispiacque questo giovenil disio a la donna, anzi l’essortò ad andarvi e volle che egli fosse quello che desse fine ai conti col gentiluomo veneziano, e mandò seco un fattore molto pratico, indirizzandolo anco ad un mercadante in Venezia, che era grande amico de la casa. Andò Galeazzo molto in ordine di vestimenti e di servidori, e giunto a Venezia e fatto capo a l’amico paterno, fu lietamente visto, ed andarono di brigata a ritrovar il gentiluomo veneziano, al quale si diede Galeazzo a conoscere e gli disse la cagione del suo venire. Questo sentendo, il veneziano gli disse: – Figliuol mio caro, tu sia il benvenuto. Egli è il vero che io, dando fine a tutti i conti, resto debitor de la somma che tu dici, come deve aver calculato il vostro fattore. E se più tosto non ho sodisfatto almeno per lettere, è che non sono ancora tre dì che io arrivai qui con le galee di Soria. Ora io son presto a sodisfarti, ma converrà che tu aspetti otto o dieci dì, ch’io vada a Padova, ove ho mia moglie e tutta la famiglia. – Galeazzo disse che volentieri aspettarebbe e che in quel tempo anderia veggendo Venezia, e così fece. Andarono poi di compagnia a Padova, e fu bisogno che Galeazzo andasse ad albergare col veneziano. Egli con un sol paggio vi andò, mandando gli altri a l’osteria. Il veneziano, che altre volte era stato molti dì in Lombardia in casa del padre di Galeazzo ed era stato benissimo trattato, onorò molto il giovinetto. Aveva esso veneziano una bella figliuola di quindeci anni, la quale da Galeazzo tutto il dì vista fu cagione che il giovine di lei ardentissimamente s’accese, non avendo per innanzi mai provato che cosa fosse amore. Ella de l’amor di lui avvedutasi, piacendole il giovine, non ischivò punto il colpo amoroso; anzi di lui senza fine s’innamorò, e tanto andò la bisogna che, una e due volte avuta la commodità di parlarsi, diedero ordine a quanto intenderete. Deveva il padre di lei fra tre dì dar tutti i danari a Galeazzo e seco a Venezia tornarsene, ove gli conveniva star qualche tempo. Ella dopo la partita loro, fra dui dì, doveva fuggir di casa sotto la cura d’un fidato servidore di Galeazzo, il quale egli aveva finto mandar a la madre, e il veneziano medesimo per lui le aveva scritto. Ma il buon servidore stette nascosto in Padova fin al tempo debito. Avuti Galeazzo i danari, insieme col gentiluomo andò a Venezia, e col suo conseglio fece rimetter tutti i danari ricevuti in Milano con lettere di cambio, e niente faceva nè comprava senza lui. Ed ecco venir la nuova al veneziano, come Lucrezia sua figliuola era la notte innanzi fuggita e di lei non si trovava vestigio alcuno. Il padre, dolente oltra modo, deliberò, lasciata ogn’altra cosa, tornar a Padova. Galeazzo, mostrandosi di questo caso dolente, s’offerì andar seco, ed in ogni luogo ove egli volesse. Ringraziato Galeazzo, partì il veneziano e nulla mai puotè de la figliuola intendere. Onde, tornato a Venezia, trovò che Galeazzo ancora v’era, il quale, dopoi in Lombardia a casa tornato, non ardì de la rapita fanciulla far motto a la madre. Aveva il servidore condotta una convenevol casa e del tutto fornita, secondo l’ordine da Galeazzo dato, e pose a la guardia di lei la nutrice di esso Galeazzo col suo marito. Il giovine, con meraviglioso piacer de le parti, colse il fiore e il frutto de la virginità de la sua Lucrezia, che più che la propria vita amava, dormendo quasi ogni notte seco e largamente a torno a lei spendendo. La madre, ancor che sapesse che egli fuor di casa spesso dormisse e cenasse, non diceva altro. Stette circa tre anni Galeazzo con la sua Lucrezia, dandosi il meglior tempo del mondo. Avvenne dapoi che la madre deliberò dar moglie a Galeazzo, ma egli mai non volse consentire di prenderla. Ella dubitando che il figliuolo non fosse innamorato o forse avesse a modo suo presa moglie, tante spie a torno gli pose, che intese il tutto che a Padova fatto aveva. Del che molto mal contenta ritrovandosi, ebbe modo, una sera che Galeazzo in casa d’un suo cugino cenava, di far da tre uomini mascherati rubar Lucrezia e porla in un monastero quella sera stessa. Galeazzo, dopo cena volendo andarsi a dormir con Lucrezia, trovò la nutrice ed il balio che amaramente piangevano, dai quali intese come tre mascherati avevano Lucrezia sbadagliata e menata via. Egli fu per morir di doglia e tutta la notte pianse, ed il matino a buon’ora andò a casa e in camera si serrò e stette tutto il dì senza cibarsi. La madre quel dì non ricercò altrimenti ciò che il figliuolo facesse. Veggendo poi il seguente giorno che non voleva desinare, andò a trovarlo in camera. Ma egli sospirando e piangendo pregò la madre che così il lasciasse stare. Ella cercava pur d’intender da lui di questo suo dolore la cagione, ma egli altro che con lagrime e sospiri non le rispondeva. Il che ella veggendo e mossa a pietà, al figliuolo così disse: – Figliuol mio caro, io m’averei creduto che in cosa del mondo mai da me guardato non ti fossi e che tutti gli affanni tuoi m’avessi scoperto; ma io mi truovo molto ingannata. Tuttavia, mercè de la mia diligenza, io ho ritrovato la cagion del tuo male. So che tu ami Lucrezia, che al nostro amico a Padova rubasti. Il che quanto sia stato bell’atto, tu il puoi molto ben pensare. Ma ora è tempo d’aiuto e non di correzione. Or vivi allegramente e confortati e attendi a ristorarti, chè la tua Lucrezia riaverai, la quale io ho fatta mettere in un monastero, parendomi che, non la ritrovando, tu devessi compiacermi e prender moglie, come saria il debito tuo di fare. – Galeazzo questo sentendo, parve che da morte a vita risuscitasse, e vergognosamente le confessò come egli amava più Lucrezia che la propria vita, pregandola affettuosamente che alora gliela facesse venire. Ella lo astrinse ad avere per quel giorno pazienza, e che voleva che si cibasse e si confortasse, promettendogli il seguente giorno andarla a pigliare e menarla in casa. Che diremo noi? Galeazzo or ora voleva morire, avendone perduto il sonno e il cibo, e a questa semplice promessa tutto si confortò. Egli desinò e cenò la sera, e la notte, con speranza di riaver la sua Lucrezia, dormì assai bene. Venuto il seguente giorno, egli di letto levato sollecitò la madre che per Lucrezia mandasse. La quale, per compiacere al figliuolo, montò in carretta e al monastero giunta si fece dar la giovane e a casa la condusse. Come i dui amanti si videro, di dolcezza piangendo si corsero a gettarsi le braccia al collo, e strettissimamente abbracciandosi beveva l’uno de l’altro le calde e salse lagrime. Galeazzo, poi che ebbe mille volte la sua Lucrezia amorosamente basciata e ribasciata, tuttavia piagnendo così le disse: – Anima mia dolce, come sei stata senza me? Che vita è stata la tua? Non t’è egli fieramente rincresciuto non mi aver in questo tempo veduto? Certamente io mi sono pensato di morire, nè so bene come io mi viva. Oimè, vita mia, chi m’assicura che altri, in questo tempo che da me sei stata lontana, non abbia godute queste tue bellezze? io mi sento di gelosia morire e il core in corpo mi si schianta. Il perchè, cor del corpo mio, per non morir se non una volta sola ed uscir di questo gravissimo affanno, sarà assai meglio che moriamo insieme e in un punto diamo fine a questi nostri sospetti. – E dicendo queste parole, prese un pugnale che a lato aveva e percosse la giovane nel petto per iscontro al core, la quale subito cadde boccone in terra morta; poi a sè stesso rivoltato il sanguinolente ferro, se lo cacciò in mezzo il petto e sovra la morta Lucrezia s’abbandonò. Il romore ne la casa si levò grandissimo con uno acerbissimo pianto. La sfortunata madre, come disperata, mandava le strida fin al cielo. Campò Galeazzo tutto quel giorno e nel tramontar del sole morì. La povera madre, senza ascoltar consolazione nè conforto da persona, per lungo spazio il morto figliuolo pianse: caso veramente degno di pietà e compassione, e da far lagrimar le pietre, non che voi tenere e dilicate donne, che già le belle lagrime sugli occhi avete. E a ciò che la cosa non si divolgasse com’era, i fratelli de la madre fecero segretamente i dui amanti seppellire, dando voce che di peste erano morti. La cosa fu facil da credere, perciò che alora in quella città era sospetto di morbo. E oltra di questo, un medico fisico ed un cirugico, corrotti per danari, affermarono la cosa esser così. Tuttavia non si puotè tanto celare che il fatto non si sapesse come era seguito. Diranno poi costoro che la gelosia non sia un pestifero verme e che non accechi gli uomini, se gelosia per ciò questa si può dire e non più tosto pazzia e furore.
Mentre che la molto gentile e dotta signora Cecilia Gallerana contessa Bergamina prendeva, questi dì passati, l’acqua dei bagni di Acquario per fortificar la debolezza de lo stomaco, era di continovo da molti gentiluomini e gentildonne visitata, sì per esser quella piacevole e vertuosa signora che è, come altresì che tutto il dì i più elevati e belli ingegni di Milano e di stranieri che in Milano si ritruovano sono in sua compagnia. Quivi gli uomini militari de l’arte del soldo ragionano, i musici cantano, gli architetti e i pittori disegnano, i filosofi de le cose naturali questionano, e i poeti le loro e d’altrui composizioni recitano, di modo che ciascuno che di vertù o ragionare od udir disputar si diletti, truova cibo convenevole al suo appetito, perciò che sempre a la presenza di questa eroina, di cose piacevoli, vertuose e gentili si ragiona. Ora avvenne un giorno che, essendosi lungamente di cose poetiche tra dui bramosi spiriti disputato, cioè tra il signor Antonio Fregoso Fileremo cavaliere e messer Lancino Curzio, il dotto e piacevole messer Girolamo Cittadino prese le Cento Novelle del leggiadrissimo Boccaccio in mano e disse: – Signora contessa, e voi signori, poi che la disputazione de la poesia si è finita, io sarei di parere che entrassimo in alcun ragionamento più basso e piacevole, overo che si leggesse una o due de le novelle del Boccaccio, come più a voi piacerà. – Bene ha parlato, – disse alora la signora Camilla Scarampa, – il nostro Cittadino, a ciò che gli affaticati intelletti, per le cose dotte disputate, alquanto con ragionamenti piacevoli e di leggera speculazione siano ricreati. – A questo soggiunse la signora Gostanza Bentivoglia, moglie del signor conte Lorenzo Strozzo: – Ed io anco sono del parer vostro; ma perchè chiunque è qui ha più volte lette e udite le Cento Novelle, io sarei di openione che alcuno di voi dicesse di quelle o istorie o novelle che così non sono divolgate. – Si faccia, si faccia, – disse quasi tutta la brigata; quando la signora Cecilia pregò il signor Manfredi dei signori di Correggio, giovine costumato e piacevole, che una novella volesse dire. Il quale, dopo alcuna escusazione, a la fine una ne narrò, che molto a la lieta compagnia piacque. Onde io avendola scritta e meco pensando a cui donar la dovessi, voi tra molti mi occorreste, al quale meglio che a nessun