Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella VIII

Terza parte
Novella VIII

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Don Bartolomeo da Bianoro rimanda indietro un ducato doppio


avuto d’elemosina, e non lo riavendo si fa dar de le staffilate.


Se il Barbaccia, signori miei, si lamentava del nostro cittadino come ora qui ha narrato l’eccellente Firenzuola, a me pare ch’egli n’avesse qualche ragione, perciò che essendo egli dottore famosissimo e di cui i consegli erano molto stimati, credere verisimilmente si deve che si fosse assai affaticato a rivolger tanti libri quanti le loro verbose leggi n’hanno, e che si fosse sforzato di trovar ragioni al proposito, sí per onor suo come per profitto del suo clientulo. Né io osarei dire che il nostro Ghisiglieri sia da lodare avendosi i danari ritenuti. E secondo che questo non sono oso di dire, affermerò bene e santamente giurerò che una nostra gentildonna, chiamata madonna Giovanna dei Bianchi, merita lodi grandissime, avendo ad un prete avarissimo fatto una piacevol beffa, che fu di questa maniera. Non è ancora molto che, che essendo il tempo de la quadragesima, nel quale tutti i buoni e veri cristiani si deveriano al sacerdote confessare, che la detta madonna Giovanna andò a confessarsi ne la chiesa di San Petronio ad un prete chiamato don Bartolomeo da Bianoro, che aveva nome d’esser assai dotto ed uomo di buona vita, ma era piú vago d’un soldo che non è il gatto del topo. Fece diligentemente la sua confessione la nostra gentildonna; e ricevuta la penitenza e l’assoluzione, diede al prete un doppio ducato d’oro, di quelli che al buon tempo faceva stampare il signor Giovanni Bentivoglio. Il prete allegramente prese il doppione e andossene a la camera, ove, come se avesse venduto pepe e cannella, pesò il danaro. E trovandolo che mancava del giusto peso quasi duo grani, se ne ritornò in chiesa e trovò che la donna ancor ci era dicendo le sue orazioni. Egli ebbe pur tanto di discrezione che aspettò che fu levata. Come la vide levare, cosí frettolosamente le andò incontro e le disse: – Madonna, voi m’avete dato un doppio ducato il quale non è di peso. Io vi prego che vogliate cambiarmelo. Eccovelo qui. – La donna il prese e, conoscendo a questo atto l’ingordigia del prete, gli disse: – Sere, in buona veritá che io ora non ho altri danari meco, perché pigliai questo a posta, pensando che fosse buono, avendomelo dato messer Taddeo Bolognino che sapete esser gentiluomo da bene. Ma io ve ne recherò un altro domatina. – Il prete le credette e restò in aspettazione di riaverne un migliore. Ella quel giorno istesso andò a San Domenico, si riconfessò di nuovo con uno di quelli frati e gli diede il doppione, pregandolo che facesse dir le messe di San Gregorio per l’anima di suo padre. Egli il prese e, chiamato il sagrestano, gli mostrò l’elemosina e gli impose che facesse dire le messe che ella aveva richiesto, e il doppione gittò ne la cassa de le elimosine, come è il costume dei religiosi osservanti. Il giorno seguente madonna Giovanna andò a la predica a San Petronio, come ella era solita. Finita che fu la predicazione, messer lo prete si fece innanzi e disse a la donna con un certo modo che teneva piú de l’imperioso che altrimenti: – Madonna, avete voi recati i danari? – Ella, veggendo questa sua presunzione, gli rispose: – Messere, a dirvi il vero, veggendo che voi rifiutaste il mio oro, io andai a confessarmi con un altro sacerdote, che l’ha trovato buono e di peso. – A questa voce il missero prete rimase mezzo morto e non sapeva che fare né che dire, parendogli che il soffitto de la chiesa gli fosse cascato a dosso. Onde cosí mutolo se n’andò a la sua camera e quella matina desinò molto poco, mangiando piú sospiri che pane. Dopo, non si potendo dar pace d’aver perduto tanti danari per la troppa ingordigia che aveva, chiamò un suo chierico che era di valle di Lamone, che era assai giovine ma forte scaltrito e malizioso; e chiuso l’uscio de la camera, si gittò a traverso una panca con le natiche scoperte e gli disse: – Naldello, – ché tale era il nome del chierico, – piglia quello staffile che è sulla tavola, e dammi venticinque buone staffilate sul culo, e non aver rispetto veruno. – Il chierico, veduto scoperto il culiseo di Roma, gli domandò che cosa era questa. Egli altro non rispose se non: – Dammi, dammi, ti dico, e non cercar altro. – Il chierico a questo, sentendo la determinata volontá del padrone, gli diede venticinque buone sferzate con pesante mano, a misura, come si dice, di carbone, di maniera che il culiseo aveva molti segni sanguigni. Avute le brave staffilate, il prete si levò suso e con voce pietose disse: – Figliuolo, non ti meravigliare se io ho voluto che tu mi sferzi, ché io ho commesso un grandissimo errore, che meritava molto maggior castigo di quello che dato m’hai. – E narrò al chierico la perdita del doppio ducato. Come il giovine sentí la pazzia del messere, se gli rivolse con il piú brutto viso che puoté e disse: – Oimè, che sento! che vi vengano tremila cacasangui! E ch’avete voi voluto fare, uomo da poco e da meno assai ch’io non dico? Voi adunque avete restituito un doppione perché non era cosí di peso come la vostra avara ingordigia arebbe voluto, avendolo voi guadagnato col far un segno di croce in capo ad una femina? Che vi venga il gavocciolo! e forse che non l’avevate venduto zafferano? Al corpo che io non vo’ ora dire, se al principio io avessi questa cosa saputa, io ve ne dava un centinaio con la fibbia de lo staffile. Andate, andate, ché non sapete vivere. – E cosí il povero prete restò con le sferzate e con le beffe.


Il Bandello al molto vertuoso signore


il signor Antonio Fileremo il Cavaliero salute


Beveva l’acqua dei bagni d’Aquario la illustre e virtuosa signora, la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, e, come sapete, per piú commoditá e diporto s’elesse alora il suo giardino che è nel borgo de la Porta Comense, ove la casa o palagio ci è assai agiato. Quivi tutto ’l dí concorrevano i primi de la cittá cosí uomini come donne, e ci era sempre dopo il desinare alcun bello e vertuoso ragionamento di varie materie, secondo la professione e dottrina dei tenzionanti, e talvolta al proposito de le questioni che essa signora od altri mettevano in campo. Avvenne un dí che d’uno in altro parlamento entrando, si travasò a lodare il sesso femminile e raccontar alcune eccellenti donne antiche e moderne, le quali, di rare e bellissime doti compiute, si fecero al mondo riguardevoli e chiaramente famose. Ma tra tutte le lodevoli donne di cui si ragionò, per non istare a farne un calendario, sommamente fu lodata ed ammirata Pantea. E ricercando alcune di quelle signore aver piú chiara contezza chi fosse Pantea, il signor Nicolò conte d’Arco, – giovine, oltra la nobiltá di sangue, ricchezze e rare doti del corpo, molto letterato e poeta colto e soavissimo, come per le elegie e altri suoi poemi si vede, – narrò brevemente l’istoria d’essa Pantea; il che non mezzanamente a tutti soddisfece. E perché l’istoria è de le rare e degna di memoria, non mi parve disdicevole ch’io la scrivessi de la qualitá che esso conte la narrò, se ben non forse con quella eleganzia e grazia di parole, almeno intieramente come da lui fu detta. Scritta che l’ebbi, pensai a cui donar la devessi e subito voi m’occorreste. E cosí ve la mando e al nobilissimo nome vostro dedico, sí perché quel giorno che fu narrata voi non ci eravate, come che vostra consuetudine fosse quasi sempre d’esserci, ed altresí perché voi la vostra mercé volentieri le cose mie cosí in rima come in prosa leggete e lodate. Gli portai li ragionamenti che de le cose mirabili e a pena credibili furono fatti in alquanti giorni, ove interveniste voi piú volte ascoltatore e narratore, sono in uno speciale libro da me messi insieme, ma non ancora con l’estrema mano rivisti. Degnerete adunque questo picciolo dono con la solita vostra gentilezza e cortesia accettare e farne anco partecipe il vostro onorato parente messer Bartolomeo Simoneta, uomo ne le greche e latine lettere tra i nobilissimi dottissimo e tra i dottissimi nobilissimo. Ed a l’uno e a l’altro di core mi raccomando. State sano.