Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella IX

Terza parte
Novella IX

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Istoria de la continenza del re Ciro ed amore coniugale di Pantea.


S’è entrato in un ampio e bellissimo campo, ragionandosi in questa sí onorata compagnia, e specialmente dinanzi a la non mai a pieno lodata signora Ippolita e a quest’altre signore, de le lodi del sesso loro; e molte de le antiche e de le moderne si sono dette, veramente degne che se ne faccia istoria. Ed ancor che per l’umane e divine leggi l’uomo sia capo de la donna, non segue perciò che le donne debbiano essere sprezzate o tenute come serve, essendo il sesso loro atto ad ogni virtuoso ed eccellente ufficio che a l’umana vita si convenga. Il che d’altra prova non ha bisogno, essendosi giá da noi raccontate molte chiare donne, de le quali alcune, come furono le amazzoni e altre, sono state ne l’arme miracolose; altre hanno fatto tremar l’imperio romano, come fece la valorosa Zenobia; altre in governare e amministrare regni e stati, molto rare e prudenti; altre in comporre poemi, di elevatissimo ingegno; altre in orare e diffendere le liti, graziosissime; ed altre in varii essercizii molto famose e singolari. E chi dubita che oggidí non ce ne fossero assai che il medesimo farebbero che fecero l’antiche e forse di piú, se da noi, mercé del guasto mondo, non fossero impedite, ché non vogliamo quelle esser bastevoli che a l’ago e al fuso? Ma preghiamo Dio che la ruota non si volga; ché se un tratto avvenisse che a loro toccasse a governar noi, come ora elle da noi sotto gravissimo giogo di servitú tenute sono, se elle non ci rendessero pane per ischiacciata, direi ben poi che senza ingegno fossero. Tuttavia gli uomini, ancor che basse le tengano e le tarpino l’ali a ciò che alzar non si possano, non sanno perciò tanto fare né tanto astutamente ingegnarsi che elle tutto il dí non beffino degli uomini e molti per lo naso ove vogliono non tirino come si fanno i buffali. Ma io mi lascio trasportare a giusto sdegno che ho di veder questo nobilissimo sesso sí poco prezzato. Ora venendo a l’istoria di Pantea, vi dico che ella fu assiriana, giovane di bellezza corporale a quei tempi riputata che pochissime pari e nessuna superiore se le trovassero per tutta l’Asia. Ed oltra che era bellissima, fu di molte vertú ornata, e massimamente fu lucidissimo e vero specchio di pudicizia e singular parangone d’amore coniugale, come nel successo de la mia istoria intenderete. Ebbe per marito un barone del re de l’Assiria chiamato Abradato, uomo appo il re di grandissima stima e da lui in tutti i maneggi de l’importanza degli stati adoperato. Avvenne in quei tempi che Ciro re di Persi deliberò fare l’impresa contra il re de l’Assiria, e faceva per questo effetto preparazioni grandissime di tutto ciò che a la futura guerra bisognava. Il che inteso dal re de l’Assiria, cominciò anch’egli a mettersi in ordine, a ciò che da’ nemici non fosse assalito a l’improviso. E tra l’altre sue provigioni che preparò, fece di modo fortificar Babilonia e d’ogni sorte di vettovaglia fornire, che la rese inespugnabile. Appropinquando Ciro al paese de l’Assiria, fu impedito di passar avanti, perciò che Gindo, fiume profondissimo, senza navi non si poteva passare. Qui Ciro fece quella memorabil impresa, che, annegandosi in detto fiume uno dei cavalli ch’egli aveva consacrati al sole, si mise con tutto il suo esercito, e in breve tempo lo divise in cento ottanta fiumicelli che da una femina senza periglio tutti si potevano passare. Com’egli con tutta l’oste ebbe passato, trovò gli assirii, con i quali venuto a le mani e combattuto a battaglia campale, gli debellò e gli fece ritirar dentro la cittá. Si trovò in questo fatto d’arme Abradato, il quale, avendo fortissimamente combattuto e veggendo il campo esser in rotta, non volle abbandonar il suo re, ma quello sicuro in Babilonia condusse. Era costume di quelle genti menar con loro nei campi le moglieri e seco portar grandissime ricchezze. Restò Pantea prigioniera e fu data in guardia ad Araspo medo. Assediò Ciro Babilonia e gravemente la premeva. Il re, veggendosi assediato, mandò per suo ambasciatore Abradato al re dei battriani per soccorso; ma Ciro con astuzia ed ingegno prese Babilonia, e il re di quella nel combatter fu morto. Il che intendendo Abradato, se ne tornò nel paese de l’Assiria, ove trovò che Ciro andava il tutto di giorno in giorno acquistando. Fra questo mezzo era Pantea prigionera, come di giá v’ho detto, con guarda condotta dietro a l’oste con l’altre donne. La fama de la bellezza de la quale in modo si divulgò per tutto, che d’altro non si ragionava. Avvenne un dí che Araspo, a la presenza di Ciro lodando l’estrema beltá di Pantea, disse che certamente non si sarebbe trovata in tutta Asia una donna di tanta beltá né di tanta vertú ornata come quella era. Ciro, che a prender intieramente lo stato de l’Assiria e a quello de la Persia soggiogare attendeva, ancor che piú volte avesse udito da molti commendare l’incredibil bellezza di costei, nondimeno per non si sviare da la cominciata impresa, non sofferse altrimenti di vederla, avendo perciò deliberato prenderla per moglie. Onde essendo un giorno alquanti baroni andati a visitarla, e trovatola molto di mala voglia e malinconica, ché tuttavia al suo marito aveva rivolto l’animo e piú de la lontananza di quello che de la sua prigionia s’attristava, uno di loro, che de l’animo del re era consapevole, in questa maniera le parlò: – Pantea, scaccia da te ogni malinconia; allegrati e vivi gioiosa, ché se tu avevi un marito giovine, bello e ricco, ora la fortuna un piú formoso, piú potente e re te n’ha apparecchiato. E vivi sicura che nostra reina in breve sarai, perché Ciro ha deliberato prenderti per moglie. – Credete voi che ella s’allegrasse, si rigioisse o si elevasse né mostrasse segno alcuno di contentezza? Ella subito in un lacrimoso pianto si risolse e, la veste che indosso aveva da l’alto al basso lacerando, miseramente si lamentava, e diceva che mai non fu la piú misera donna al mondo di lei, e che se pure doveva perder il marito, che unicamente amava e a cui solo ella voleva esser viva, che altri di lei non goderebbe giá mai. – Cessino, – diceva – i sommi déi che altri m’abbia. Fui da principio di Abradato, ora anco sono e sarò eternamente. Assicurate voi, signori, il re Ciro che prima io possa morire che mancare di non esser d’Abradato. E certamente io morirò sua. – Furono queste parole dette a Ciro, le quali sí penetrarono a dentro nel petto di lui, che la mandò confortando e sé a ogni suo piacere offerse. Ella altro non gli fece chiedere che la restituzione del marito; il che Ciro graziosamente le concesse. Venne Abradato a ritrovar la moglie, da la quale quando ebbe inteso la continenza di Ciro, restò pieno di meraviglia grandissima, dicendo a Pantea: – Moglie mia da me piú amata che la propria vita, che cosa ti pare che io far debbia a ciò che e per te e per me io a tanto re soddisfaccia e non possa esser con ragione detto ingrato? – E che cosa puoi tu, marito mio, fare di te e di me piú degna che imitar tanto eccellente e vertuoso re, e poi che contraria fortuna del nostro re ci ha privato, servir a costui che valorosamente s’ha acquistato il regno? – Fu adunque cagione Pantea che Ciro non solamente reintegrò Abradato, ma appo sé nel nel numero dei piú cari ritenne e in molte imprese adoperò, ne le quali, dando di sé Abradato odore di valente soldato e di saggio capitano, acquistò di modo la grazia di Ciro ch’egli lo chiamava per amico e voleva che da tutti «l’amico del re» fosse chiamato. Né per tutto questo Ciro volle veder Pantea, dubitando forse non la bellezza di lei l’inducesse a libidine. Abradato sempre pregava Giove che gli concedesse d’esser degno marito di Pantea e degno amico di Ciro. Facendo poi la guerra Ciro a Tomiri reina de’ messageti, fu, valentemente combattendo, Abradato morto, il cui corpo fu portato a Pantea. Ella poi che pianto amarissimamente l’ebbe, non volendo piú star sottoposta a’ dubiosi casi di fortuna, preso un acutissimo coltello, si passò le canne de la gola e, boccone lasciatasi cadere sopra il petto del ferito e morto marito, il suo sangue mischiò con le piaghe di lui e sovra quello finí i giorni de la vita sua, lasciando dopo sé de le sue vertú eterno nome. Che diremo noi qui, signore mie, de l’animo di questa rara ed incomparabile donna? Certo l’animo suo era degno d’esser conservato lungamente in vita e non levarsi del corpo con sí sanguinario fine. Nondimeno se in cosa alcuna si può ripigliare, è questa sola: che a l’altre donne invidiò la sua vertuosa compagnia, che a molte poteva esser essempio di ben fare, ché in vero mai non si deveva ancidere, ma aspettare che naturalmente morisse.


il Bandello al reverendo dottore teologo


frate Cristoforo Bandello


ministro de la provincia di Genova de l’ordine minore salute


Se papa Lione decimo pontefice massimo, nel principio che Martino Lutero cominciò a sparger il pestifero veleno de le sue eresie, avesse prestato benigne orecchie al maestro del sacro palazzo, era cosa assai facile ad ammorzar quelle nascenti fiamme, che ora tanto sono accresciute, che, se Dio non ci mette la mano, elle sono piú tosto per pigliar accrescimento che per iscemarsi. E certamente io non so giá che spirito fosse quello di Lutero, che tanti ammirano come se egli fosse stato qualche acuto dialettico, ingegnoso filosofo o profondo teologo, non avendo egli in tante varie sue sciocchezze trovato mai da sé una sola ragione almeno apparente, ma rinnovate le false openioni da tanti sacri concilii generali ed ultimamente da quello di Costanza riprobate e dannate. Ché il seguito che egli ha, da altro non viene se non che egli e i suoi seguaci aprono la via d’un vivere licenzioso e lascivo. Egli nel vero è da esser biasimato, e in conto alcuno non si de’ dar udienza a le sue favole che tutte sono senza vero fondamento. Non negherò giá che la mala vita de le persone ecclesiastiche non sia di scandalo a le menti non ben fondate; ma non per questo debbiamo dai nostri maggiori tralignare. Deveriano anco questi indiscreti ed ignoranti frati, quando sono in pergamo, diligentemente avvertire che non dicessero cosa al popolo che potesse partorir scandalo, e secondo che devono incitare gli auditori a divozione, non gli provocare al rider dissoluto, che è cagione che a’ nostri giorni le cose de la fede sono in poco prezzo. Io non vo’ per ora dire degli errori che gli idioti spesso in pergamo dicono, ma dirò di quelli che, poco discreti, vanno dietro a certe favole che mettono le predicazioni in deriso: come in Pavia intervenne a fra Bernardino da Feltro, per quello ch’io sentii un dí narrare a fra Filippo da San Colombano, frate minore dai zoccoli, il quale nel loro luogo del Giardino in Milano, essendo in compagnia d’alcuni gentiluomini, per dargli un poco di ricreazione, narrò la cosa come fu, essendo a quei giorni egli scolare legista in Pavia. E perché è cosa da notare, l’ho voluta mandare a donarvela a ciò che, secondo che d’un sangue siamo, siate anco partecipe de le mie novelle. State sano.