Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella VII

Terza parte
Novella VII

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Arnolfo fiandrese si finge esser di gran legnaggio


ed inganna una fanciulla, con altri accidenti e morte di lui.


Fu giá Bruggia in Fiandra terra molto famosa e mercantile, frequentata da tutti i mercadanti de l’Europa; ma poi che in Anversa i mercadanti hanno fatto la residenza loro, le cose di Bruggia sono assai mancate. Nondimeno, quanto appartiene a le lane, il medesimo traffico oggidí vi si fa che prima era consueto di farvisi. Ci sono ancora di ricchi gentiluomini, i quali molto splendidamente vivono. Avvenne non è molto che Arnolfo nato in Guant, che latinamente Gandavum si chiama, essendo povero giovine, andò a Bruggia per trovar padrone. Egli era di buonissimo e molto generoso aspetto e di civili costumi ornato, di modo che dimostrava esser figliuolo d’alcuno gran gentiluomo. Ora s’acconciò egli in Bruggia per servidore d’un ricchissimo mercadante, e in casa serviva tanto accomodatamente che non ci era persona che non l’amasse. Aveva il padrone tra gli altri figliuoli una figliuola di quindeci anni, tutta gentile ed avvenente e molto bella. Di lei Arnolfo fieramente e piú assai che a lui non si conveniva s’innammorò, e seco essendosi domesticato, cominciò a poco a poco a manifestarle il suo amore, e con sí fatto modo le sue passioni le discoperse che la giovanetta volentieri l’ascoltava. Egli, per meglio inescarla e condurla a far ciò che averebbe voluto, le diede ad intendere come era gentiluomo di Guant, figliuolo del piú ricco gentiluomo che ci fosse, e che avendogli il padre voluto dar per moglie una ricca e nobile giovane, s’era partito per non prenderla. Le diceva poi che egli era unico del padre, a che tutta la roba toccava a lui, perché suo avo l’aveva instituito erede e lasciato il padre, fin che vivesse, usufruttuario. Perciò la pregava che volesse accettarlo per servidore, promettendole che mai altra moglie non sposeria che lei. Con queste sue pappolate e fizioni seppe sí ben fare che indusse l’incauta giovanetta a compiacergli, di modo che ogni volta che ci era commoditá si godevano amorosamente insieme, prendendo l’uno e l’altra quel carnal diletto che tanto in amor si ricerca. Ad Arnolfo pareva d’aver il paradiso in questa vita, e quanto piú la sua amante godeva tanto piú di goderla bramava. Ma avvenne che una ciambrera di casa, giovane assai appariscente, s’avvide dei congiungimenti degli amanti e minacciò loro d’avvisarne il messere. La giovanetta, smarrita, tanto pregò la ciambrera che la pacificò, con questo però: che ella voleva esser partecipe degli abbracciamenti del fiandrese. A questo mal volentieri la giovanetta s’accordava, parendole troppo duro e strano che un’altra devesse goder il suo amante. Nondimeno a ciò che la ciambrera tacesse, fu contenta, ed ella medesima portò i polli al suo Arnolfo e gli persuase che si contentasse di far di sé copia a la ciambrera, a ciò che non rivelasse al padre ciò che facevano. Arnolfo, per cambiar vivanda e restar sicuro di non esser dicelato, vi s’accordò e cominciò con la ciambrera a giuocar a le braccia e mettersela sotto. E cosí, vicendevolmente or questa or quella godendo, si dava il meglior tempo del mondo. Ma mentre che indiscretamente trescavano insieme, la vecchia de la cucina, brutta, unta e sdentata, s’avvide degli amori loro. Onde a far che tacesse fu necessario, parte con lusinghe e carezze de le due donne e parte col corno d’Arnolfo, d’acquetarla. E cosí Arnolfo in poco di tempo si trovò due papere ed un’oca avere, a cui dava beccare. Ma se piacere con le due papere aveva, eragli un grandissimo cordoglio a mischiarsi con l’oca vecchia, e faceva il peccato e la penitenza insieme. Ora, quando Arnolfo era in un mare di gioia e li pareva toccar col dito il cielo, la figliuola del padrone ingravidò; del che accortasi la madre, lo disse al marito. Tutti dui colsero la figliuola a l’improviso, la quale, piangendo, non seppe negare il suo fallo e l’onestava con dire che Arnolfo era gentiluomo e ricco e che le aveva promesso di sposarla. Fu subito fatto pigliar Arnolfo e dato in mano de la giustizia, il quale confessò non saper chi fossero i suoi parenti, e che per venir al suo intento s’era finto esser di nobil legnaggio; onde fu condannato a perder la testa. E non dopo molto su la piazza di Bruggia publicamente gli fu mózzo il capo.


Il Bandello a messer Tomaso Castellano salute


Messer Antonio Castellano vostro zio, come voi meglio di me sapete, è uomo molto eloquente e nei communi parlari molto pronto, ché sempre ha qualche nuovo motto a le mani. Egli per esser stato affezionatissimo a la fazione bentivogliesca fu da Giulio secondo pontefice massimo di Bologna bandito, e stette lungo tempo in Milano in casa del signor Alessandro Bentivoglio, che dopo la perdita de lo stato di Bologna s’era ridutto a Milano, ove la signora Ippolita Sforza sua consorte aveva castella e possessioni de la ereditá paterna. E perché esso vostro zio era gran parlatore e che sempre a tutti i propositi che si dicevano aveva qualche istoria o novella da dire, avvenne che un giorno, essendo inferma la detta signora Ippolita, il Firenzuola, medico in Bologna molto famoso, che era stato fatto a posta venire, disse una piacevole novelletta del Barbaccia, dottore siciliano, che lungo tempo aveva in Bologna letto ragione civile, a la quale subito esso messer Antonio ne aggiunse un’altra, che non meno di quella del Firenzuola ci fece ridere. Diceva adunque il Firenzuola che, avendo il Barbaccia fatto un conseglio ad uno dei Ghisiglieri per certa lite che aveva con un suo nipote, il Ghisiglieri mandò venticinque ducati al detto Barbaccia; il quale, ritrovandone sette od otto che non erano cosí di peso come egli averebbe voluto, tutti rimandòglieli a casa, dicendo che voleva buona moneta e non oro che mancasse di peso. Il buon Ghisiglieri, avuti i ducati, menò il Barbaccia d’oggi in dimane, parendogli che per quattro fogli che aveva scritto non devesse mostrar tanta ingordigia del danaro, e mai piú non gli volle dare un quattrino. Di che il Barbaccia piangendo, non faceva se non dire che meritava cento staffilate ad aver rimandato indietro i ducati. Messer Antonio, come ho detto, narrò subito un’altra novella; la quale, avendola io scritta, mi pare convenevole che si debbia dar a voi, essendo frutto nasciuto per opera di vostro zio. Ve la dono anco a ciò che vi sia pegno de la nostra amicizia. State sano.