Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LXVI

Terza parte
Novella LXVI

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Un mercadante vuol ingannare un fiorentino,


ed egli resta l’ingannato ed è da la giustizia punito


Fu un mercadante fiorentino, che teneva casa in Parigi e trafficava in molti luoghi, non solamente in Francia, ma in Italia ed in Ispagna anco aveva pratiche con mercadanti. E volendo egli levar casa da Parigi e ritornar a Firenze, cominciò a ristringer le sue ragione e ricoglier piú danari che poteva. E so io che buona somma per lettere di cambio ne ritrasse da Londra, e gli fece pagar ai suoi agenti a Firenze. Egli aveva uno suo giovine toscano, che lungo tempo adoperato aveva in riscuoter danari in varii luoghi, al quale, tra molti debitori che gli diede in lista, vi pose uno mercadante di Santonge, uomo vecchio ma di mala vita e che faceva fascio d’ogni erba, e per suoi misfatti era stato stroppiato d’una gamba. Egli era debitore di mille ducati del mercadante fiorentino, e giá di molti mesi il termine del pagamento era passato. Onde, avendo inteso che il giovine deveva in breve venire a Santes per riscuotergli, e non si trovando alora il modo di pagare tanta somma a un tratto, si lambiccava nel cervello, chimerizzando di che modo potesse fare a non essere astretto a pagar cosí tosto i mille ducati. Egli conosceva benissimo il giovine, perché altre volte erano praticati insieme, cosí in Santes come in altri luoghi, e tra gli altri a la Rocella. Quivi, avendo i sergenti de la corte assalito il vecchio per metterlo in prigione, era seco Giovan Battista, – ché tal era il nome del giovine, – il quale, dato di mano a l’arme, fece fuggire egli solo tutta quella sbirraglia e gli levò da le mani il vecchio, il quale, cosí zoppo come era, se n’uscí fuori de la Rocella e disse a Gian Battista che facesse il simile. Il giovine, conoscendo il periglio in che era se fosse stato posto in mano de la giustizia, deliberò lasciarsi consigliare. Egli aveva il suo cavallo e la valige in casa d’un borghese de la Rocella suo grand’amico, e sapeva il tutto esser in buone mani e che nulla si perderebbe; onde, seguendo le pedate del veglio, trovò che egli era in una osteria fuor de la Rocella. E trovandosi Gian Battista senza un quattrino a dosso, ché i danari aveva chiavati dentro la valige, richiese il vecchio che lo accommodasse d’otto o dieci ducati per tòrre un cavallo a nolo e farsi le spese. Ebbe dieci ducati, e del ricevuto ne fece una cedola al vecchio, obligandosi di rendergli ad ogni di lui domanda. Cosí montarono a cavallo e andarono fuori de la giurisdizione de la Rocella, dove il fiorentino mandò uno con sue lettere a l’amico che aveva il cavallo e la valige, e cosí riebbe il tutto. Questo era avvenuto di circa dui anni innanzi che egli andasse a Santes per riscuoter i mille ducati, e non aveva ancora pagati i dieci ducati presi in prestito. V’ho fatta questa poca narrazione, perché viene molto al proposito di quanto sono per narrarvi. Chimerizzando adunque il vecchio, e pensando mille cautele e modi per ischifare il pagamento in cosí poco tempo, gli venne in mente la cedola del giovine, e con il mezzo di quella pensò di prevalersi e fargli un’alta beffa. Ma, come si suol dire, una ne pensa il ghiotto e l’altra il tavernaro. Arrivato Gian Battista a Santes, andò al suo solito albergo, ove, prese le sue cedule, cominciò a parlare con i debitori del suo maestro e pregargli a voler metter ad ordine i devuti danari, a ciò che non avesse poi cagione di perder tempo ed intertenersi piú del dovere a Santes. Ritrovò anco il vecchio zoppo e gli disse il medesimo; dal quale ebbe buone parole. Ma il ribaldo vecchio, che aveva fatto conto senza l’oste, s’aveva imaginato, per vigore de la cedula dei dieci ducati prestati fuori de la Rocella a Giovan Battista, farlo da la giustizia sostenere, non ad altro fine se non per menar il pagamento dei mille ducati piú in lungo che poteva. Sperava anco ridurre la cosa dal civile al criminale, e con questo trascorrere cinque o sette mesi senza pagare. Andò adunque al luogotenente de la cittá e gli disse che erano passati circa dui anni che egli aveva prestati alcuni danari ad un giovine italiano e che ancora non era stato pagato; ma che ora, essendo esso debitore ne la cittá, lo pregava a dargli alcuni dei sergenti de la corte per farlo ritenere, allegandolo straniero e fuggitivo, e le mostrò la cedola. Il luogotenente, che era grande amico del zoppo, senza altrimenti considerar il tinore de la cedola, gli concesse la presa del corpo del giovine, senza far menzione de la quantitá dei danari, ma che per debiti fosse preso come straniero e fuggitivo. Avuto cotal mandato, il vecchio prese sei sergenti e loro consegnò lo scritto, e gli mostrò il giovine che voleva che mettessero prigione. Per esser stato Gian Battista lungo tempo in Santes in diverse volte, era da tutti assai ben conosciuto e si sapeva per tutto che egli era animoso e gagliardo, e che l’arme gli stavano benissimo in mano, essendosi alcuna volta ritrovato in qualche mischia di notte e di giorno, ove valorosamente s’era diportato e reso di sé buonissimo conto. Credeva adunque il malvagio vecchio che, subito che il giovine si vedeva dagli sbirri attorniato, devesse cacciar mano a l’arme, e nel diffendersi, per non lasciarsi far prigione, ferire alcuno di quelli de la corte ed a la fine esser imprigionato, di modo che si venisse a proceder contra di lui de crimine laesae maiestatis, per aver date de le ferite ai sergenti reali. Ma il pensiero a questa volta gli andò fallito. Erano alcuni giovini amici di Gian Battista seco, che per la cittá l’accompagnavano, e andavano ragionando di varie cose. Gli sbirri, che per l’ordinario non son troppo valenti ma timidi e poltroni, incontrarono piú volte il giovine né mai ebbero ardire di porli le mani a dosso, sí perché lo conoscevano valente e sí ancora perché lo vedevano benissimo accompagnato; nientedimeno gli andavano facendo la ruota attorno. Era tra quelli de la compagnia del giovine uno, che pochi dí innanzi aveva fatto questione con uno e gli aveva date tre ferite, ma non perigliose de la vita. Egli, veggendo gli sbirri che l’andavano attorniando, disse ai compagni: – Questi sergenti gaglioffi mi vanno facendo la ruota per ghermirmi per la mischia di questi dí; ma se mi s’accostano, io darò loro di quello che non vanno forse cercando. – A queste parole Gian Battista, rivolto ai sergenti, disse loro molto arditamente: – Compagni, volete voi nulla, che ci andate cosí attorniando? – I sergenti alora con le berrette in mano: – Signore, – risposero, – noi abbiamo commissione da la corte di condurvi in prigione. – Me? – disse Giovan Battista. – Se la cosa è criminale, non v’accostate, perché, al corpo di Cristo, io vi darò de le croste e vi gratterò la rogna, insegnandovi a trescar con i par miei. Se la cosa è civile, io liberamente verrò al signor luogotenente a presentarmi. – Ella è, – soggiunsero gli sbirri, – per debiti che in questa cittá devete pagare. – Oh, questo è un nuovo caso! – disse il giovane. – Io son qui per riscuoter danari e debbo aver una gran somma, e mò si vorrá ch’io sia il debitore! Andate, andate, ch’io vengo mò mò a Palazzo. – Partiti gli sbirri, trovarono il vecchio che gli attendeva, il quale, come gli vide senza il prigionero, domandò loro per qual cagione non avevano preso il giovane. Eglino si scusarono che sempre l’avevano trovato con buona compagnia. Il maledetto vecchio, veggendo le sue volpine malizie non gli esser riuscite, si trovò molto di mala voglia e, quasi presago de la sopravegnente rovina, non sapeva che farsi. Gian Battista se n’andò di lungo a Palazzo e, presentatosi al giudice, disse: – Signore, io sono il tale, cui contra concesso avete presa di corpo. Eccomi per sodisfar a tutto quello di che con ragione sarò debitore. – Il giudice, veggendo il buon aspetto del giovane e cosí ben vestito, gli disse: – Gentiluomo, io ho data la commessione ad instanzia del tal mercadante. – Fu fatto venir il zoppo in palazzo, che vi venne come la biscia a l’incanto. Alora Gian Battista, rivolto al giudice, disse: – A ciò che voi conosciate la malignitá e ribalderia di costui, eccovi la cedula di sua mano, sottoscritta dal notaro e testimonii, come egli è debitore al mio maestro di mille ducati. Eccovi la mia procura di riscuotergli. E perché conosciate che io non son fuggitivo e confesso essergli debitore di dieci ducati, leggete questo mio scritto, ove da una parte del foglio scritto è il suo debito, ed a l’incontro al credito suo ho posto i dieci ducati avuti da lui in prestito, – ché queste scritture portava seco in petto il giovane. Il povero vecchio nulla seppe negare, e stava mutolo né sapeva che dire. Ad instanzia poi del giovine fu il vecchio imprigionato, non avendo chi li facesse securtá. Protestò poi Gian Battista dei danni ed interessi e de l’onore, per esser accusato fuggitivo. Ed in somma la cosa andò di modo che il misero vecchio fatto fu prigionero e fu astretto, se volle uscire, a pagar tutto il debito con danni ed interessi, e publicamente disdirsi di aver appellato il giovane «fuggitivo», di maniera che l’inganno tornò sovra l’ingannatore. E cosí si vide verificato il proverbio che dice: «Chi ha a far con tósco, non vuol esser losco».


Il Bandello al vertuoso ed illustre signore


il signor Cesare Fregoso salute


Tra tutte le vertú che ogni uomo rendono commendabile, o sia privato o sia in degnitá di magistrati costituto o padrone e signore di popoli, io porto ferma openione che la gratitudine sia una di quelle che di modo informi ed ammaestri le menti nostre, che di leggero faccia la via a tutte l’altre vertú morali; perché impossibile mi pare d’esser grato dei beneficii ricevuti, se l’uomo anco non ha quell’altre parti che ad esser da bene se gli convengono. E secondo che l’esser grato è cosa onorata e lodevole, cosí per lo contrario l’esser ingrato è vizio abominevole e grandemente vituperoso. Onde santamente lasciò scritto un dotto e santo dottore, dicendo che il peccato de l’ingratitudine è un vento che abbrucia e secca il fonte de la divina pietá. Colui che è grato riconosce tanti beneficii quanti la divina bontá ci ha fatti e tutto il dí fa, e non potendo egli equivalente beneficio renderle, perché dal finito a l’infinito non è proporzione alcuna, almeno si sforza con animo grato e ricordevole degli avuti e non meritati beni renderle tutte le grazie che può le maggiori, ed ogni dí se le confessa debitore. Il medesimo fa verso i parenti e verso gli amici, e insomma verso tutti quelli a cui si sente ubligato. Né solamente rende loro le debite grazie di parole, ma con gli effetti ed opere de l’animo grato si mostra loro, e gli fa conoscere che di se stesso prima sará possibile obliarsi, che porre in oblio gli avuti piaceri e beneficii da l’amico. Di questa vertú ragionandosi, giá molti anni sono, in Milano a la presenza del signor Prospero Colonna, messer Francesco Peto, uomo dottissimo, narrò una bella istoria a questo proposito, la quale io alora scrissi. Ora, facendo la scelta de le mie novelle, questa narrata dal Peto m’è venuta a le mani, onde al nome vostro l’ho intitolata, sí per esservi io quello che vi sono, che dal sacro fonte v’ho levato, ed altresí per la buona creanza che in tutte l’azioni vostre mostrate, e massimamente negli studi de le lettere, nei quali, non avendo ancora compíto l’undecimo anno, fate tutto ’l dí mirabil profitto. Io vi ricordo che avete il nome del vostro padre, che fu segnalato cavaliero e ne la milizia a’ tempi suoi ebbe pochi pari e nessuno superiore. Egli per proprio valor suo, ché da fanciullo si nudrí ne l’arme, e non per istraordinarii favori, con la spada e lancia, con la sagacitá, prudenza, fortezza e scienza militare s’acquistò il nome di valente soldato e di sapientissimo capitano, come l’imprese da lui per l’Italia fatte ne rendono testimonio. Sforzatevi adunque d’imitar il padre, che ne l’opere de la magnificenza, liberalitá e de la gratitudine fu singolarissimo. State sano.


NOVELLA LXVII


Il soldano de l’Egitto usò gran gratitudine


verso Enrico duca de gli vandali suo prigionero.


Fu giá la cittá di Magnopoli capo di molti dominii ne le parti settentrionali, di modo che negli anni di nostra salute mille cento settanta e nove fu re di quella Pribislao, sepolto in un monastero d’essa cittá detto Dobran, su la cui sepoltura è intagliato questo epitafio: «Pribislaus, Dei gratia erulorum, vagriorum, circipoenorurn, polamborum, obotritarum, kissinorum vandalorumque rex». Fu costui l’ultimo re di quei popoli settentrionali, i quali di giá nel trecento quaranta, insieme con i goti, in Austria, Croazia, Dalmazia e ne l’Italia fecero grandissime battaglie, e nel quattrocento dodici espugnarono Roma e dopoi, passati in Affrica, presero Cartagine ed occuparono la Spagna. Ora, morto che fu Pribislao, si cangiò il nome del re in duca, e i suoi figliuoli divisero le provincie tra loro, di cui gli eredi sino al giorno d’oggi regnano e sono signori a’ nostri tempi dui fratelli, cioè Enrico ed Alberto. Negli avi di questi dui, del mille dugento sessanta, poco piú e poco meno, fu il duca di Magnopoli un Enrico, uomo molto catolico, il quale, nel general passaggio che i cristiani fecero in Soria, andò col re Lodovico di Francia che poi fu santo. E volendo esso duca Enrico passare in Gierusalem, fu preso dai soldati de la Cilicia infedeli e mandato a Damasco e poi al Cairo del soldano, ove stette schiavo presso a trenta anni, di modo che nel tempo de la sua prigionia morirono dui soldani e fu eletto il terzo. La moglie d’Enrico, figliuola del re di Svecia, insieme con il picciolo figliuolo, che pure anco egli aveva nome Enrico, veggendo tanti altri signori ritornare di Soria ed il marito non rivenire, non sapendo ciò che di lui fosse, se ne stava con grandissimo dolore. Tuttavia governava essa duchessa i suoi popoli con tanta moderazione che da tutti generalmente era amata e riverita. Faceva poi allevare il figliuolo con grandissima cura, a ciò che apparasse ottimi costumi e col tempo potesse moderatamente il suo ducato governare. Né solo a le lettere e buoni costumi lo fece attendere, ma volle anco che a la essercitazione d’ogni sorte d’arme ed al cavalcare desse opera; il che faceva molto diligentemente il giovinetto. Ora devete sapere che, avendo il padre del duca Enrico, che era in Soria, grandissima guerra con i signori de la Livonia, andò a trovarlo un tartaro, il quale era eccellentissimo maestro di macchine per ispugnare una fortezza ed anco per difenderla con i ripari che sapeva maestrevolmente fare. Fu costui molto accarezzato dal padre d’Enrico, sí per l’eccellenza del magisterio suo, come anco perché era de la persona sua molto prode e ottimo soldato. Gli statuí adunque buon salario, ed al figliuolo, che in campo era, molto lo raccomandò, ché lo accarezzasse e seco lo tenesse; il che il giovine diligentemente fece, di modo che il tartaro gli mise grandissimo amore. Questo tartaro, di cui ora v’ho parlato, era colui che poco innanzi v’ho detto che fu eletto soldano. Essendo adunque il duca Enrico suo schiavo e tutto il dí veggendolo, non perciò lo conosceva, e medesimamente il soldano non riconosceva lui. Ora avvenne che un dí, ridendo, il duca Enrico fece con le labbra un certo movimento il quale altre volte il soldano, quando militava con lui, aveva molte fiate notato; il perché tenne per fermo che quello fosse il duca Enrico giá suo padrone. Ed ancor che fosse stato circa trenta anni schiavo e sopportati mille disagi e divenuto forte vecchio, nondimeno non era mica tanto disfatto che a le native fattezze il soldano non lo riconoscesse. Onde, ringraziato Dio che gli dava occasione di potersi mostrar grato dei piaceri da Enrico ricevuti, lo domandò di che paese egli fosse. Al quale rispose che era di Ponente; né ardiva apertamente dirli chi fosse. Del che accortosi il soldano, gli disse: – A ciò tu conosca che io so piú di te e de lo stato tuo che tu forse non credi, mirami per minuto e guarda se mi conosci. – Il duca, poi che buona pezza ebbe considerato, gli rispose dicendo che non per altro lo conosceva che per lo soldano suo signore. Alora soggiunse il soldano e disse: – Sovvienti, cristiano, quando tuo padre guerreggiava in Livonia, che ci capitò un tartaro fabricatore di macchine, e ti fu raccomandato e tu gli facesti tanti piaceri? Non ti sovviene come per sua industria si diede grandissimo danno ai nemici? Io sono quello, o duca Enrico a me carissimo, il quale, partito da te, me ne tornai in Tartaria, ove feci molte prove. Poi, che sarebbe troppo lungo dire, preso da’ corsari e in questo paese tre volte per ischiavo venduto, sono asceso a la grandezza che tu vedi. E sia lodato Iddio che ti potrò mostrare di non esser ingrato dei beneficii da te ricevuti. – Fattogli adunque carezze grandissime, molto bene messolo in ordine e donatogli grandissimi e preziosi doni, dopo gli abbracciari amorevoli fatti insieme, il soldano lo licenziò, e, datogli una galea ottimamente corredata, lo mandò in Cipri a la reina de l’isola, che era sorella del padre d’Enrico, da la quale egli fu lietissimamente visto e per alcuni dí accarezzato. Poi con buon vento navigò a Marsiglia, ove un’altra sua zia era contessa di Provenza. Quivi medesimamente con gran piacere veduto e festeggiato, del mille ducento novantotto a casa ritornò, dove con inaudito piacere fu da la moglie, figliuolo e piccioli nipoti ricevuto, i quali lungo tempo l’avevano per morto pianto. E cosí il buon duca Enrico quel poco tempo che gli restava de la vita in grandissima quiete visse, non cessando mai di far cortesia e piacer a tutti. Morto poi, fu nel monistero di Dobren sepellito. Onde, signori miei, io vi conchiudo che ciascuno secondo la possibilitá sua deve sforzarsi di far piacere ad ogni persona, perché si vede, per l’istoria che io v’ho narrata e per infiniti altri essempi, che la liberalitá e la cortesia a molti usata, se ben da tutti non è riconosciuta, non è possibile che a la fine non si ritrovi alcuno che d’animo grato e generoso non si dimostri. E quando mai non ci fosse chi grato si dimostrasse, l’uomo almeno, che magnifica e liberalmente opera, fa officio di vero gentiluomo e vertuoso e fa ciò che deve.


Il Bandello al molto magnifico e gentile messer


Giovanni Bianchetto salute


Mirabile certamente è la instabil varietá del corso de la nostra vita, e da esser da l’uomo con intento animo e fermo giudicio, minutissimamente considerata, tutto il dí veggendosi tante e tali mutazioni, quante e quali ogni ora per l’ordinario accadono, ora d’avversa ed ora di propizia fortuna. Vederai oggi uno nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai caduto con rovina ne l’abisso de l’estreme miserie. E tanto piú degna mi pare di saggio pensiero cotesta considerazione, quanto che la volubile varietá de la fortuna non dura in tutti lungamente in un tenore. Onde l’uomo, che si vede rovinato dal felice grado de l’altezza a l’infimo de la vile e bassa condizione, deve usare e porsi per iscorta e guida innanzi agli occhi il chiaro lume de la diritta ragione, di cui da la maestra natura è dottato. E cosí governandosi, non si precipiterá rovinosamente nel profondo e misero baratro de la disperazione, dal quale poi non possa cosí di leggero rilevarsi; ma penserá che, mentre qui si vive, anzi pure a la morte con veloci passi si corre, molti indegnamente soffreno piú di lui acerbe e dure percosse e strazii molto maggiori, i quali con lo scudo de la pazienza sí bene si sono saputi schermire, che, a mal grado dí rea fortuna, sono virilmente risorti ed ascesi al pristino stato e talora a megliore. Medesimamente quando avviene che uno si vede, senza veruno merito suo e senza alcuna vertú, da un soffiamento di prospera fortuna e sorte avventurosa esser levato fuor de la sporca feccia del fango e divenuto repentinamente ricchissimo e al mondo riguardevole, se raggio nessuno del lume de la ragione in lui risplenderá, egli per questo non si leverá in superbia né sprezzerá questi e quelli, i quali a petto a lui sono di vie piú valore e merito, ma tacitamente in sé raccolto dirá: – Ieri io ero misero e sciagurato, ed oggi, non so come, senza che io lo vaglia, mi trovo felice e beato. Quanti ce ne sono che, se ai meriti, al valore ed a la vertú s’avesse, come sarebbe il debito, il convenevol riguardo, deveriano esser riveriti, ricchi ed onorati, ed io deposto al basso? E perciò conoscendo il cieco giudicio de la Fortuna, che cosí sovente cangia proposito, quanto piú ella in volto lieta e favorevole mi ride, quanto piú m’essalta e quanto piú fortunato mi rende, tanto piú io mi delibero divenir affabile, grazioso, liberale, compassionevole e cortese a tutti, e a ciascuno, quanto per me si potrá, largamente giovare e a nessuno non far ingiuria giá mai, a ciò ch’io faccia ufficio d’uomo da bene e mi dimostri degno di tanti beni quanti m’ha donati. Chi sa poi se essa Fortuna, volgendo, come è sua natura e costume, la rota e precipitandomi al basso de la mia prima miseria, mi volga le spalle e piú non voglia favorirmi? Io averò pure in questo mezzo operato bene e mi sarò reso degno che altri abbia di me compassione. – Ed in vero se gli uomini dal nocivo fumo de la mala ambizione e da l’oscure e folte nuvole de la temeraria superbia e del vanissimo e persuasivo gonfiamento del presumere di se stesso piú di quello che si sa e che si vale, e da mille altre taccherelle non si lasciassero accecare, e non dessero talora, per lo piú del dovere stimarsi, il cervello a rimpedulare, averessimo senza dubio questa nostra vita piú tranquilla di quello che abbiamo. Ora, di queste fortunevoli mutazioni, che cosí spesso si vedono avvenire in ogni sorte d’uomini, ragionandosi questi dí in una onorata e sollazzevol compagnia, messer Domenico Cavazza narrò un fiero e crudel accidente avvenuto a messer Marco Antonio suo fratello, che in meno di quindici giorni si trovò esser misero e felice. Piacendomi cotal istorietta per la varietá di molti fortunosi casi che v’intravennero, subito quella scrissi, per accumularla al numero de l’altre mie novelle. Pensando poi a cui donar la devessi, non avendo io altro che dare agli amici miei che carta ed inchiostro, voi a la mente mia in un tratto m’occorreste, come quello che io prima amai che veduto avessi, con ciò sia cosa che madama Gostanza Rangona e Fregosa, padrona mia e de le vostre rare doti indefessa predicatrice, infinite volte di voi m’ha tenuto lunghi propositi. Ma perdonimi ella, ché io in quei pochi dí che voi qui a diportarvi nosco dimoraste, v’ho trovato esser da molto piú che non è la fama ch’io udiva di voi. Né per questo voglio adesso dire tutte quello che di voi sento. Basta che voi sète persona gentilissima ed uomo da tutte l’ore, e rassembrate al zucchero che mai non guasta vivanda veruna ove si ponga. Eccovi adunque essa istorietta, che a l’onorato vostro nome ho scritta e dedicata, a ciò che al mondo resti testimonio del mio amore che vi porto e del desiderio che in me vive di potervi fare alcun servigio, se bene le forze mie sono assai deboli e poche. State sano.