Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LXII
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Novella LXII
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De le molte mogli del re d’Inghilterra e morte
de le due di quelle, con altri modi e varii accidenti intervenuti.
Enrico, di questo nome ottavo re d’Inghilterra, prese per moglie Caterina figliuola di Ferrando d’Aragona e d’Isabella di Castiglia sua moglie, che meritarono per lo conquisto del reame di Granata e per il zelo che avevano de la fede catolica esser chiamati i «regi catolici», ancor che prima fosse dato questo titolo ad Alfonso, primo re di cotal nome. Con questa Caterina ebbe Enrico una figliuola chiamata Maria, giovane di grandissimo spirito e di bei costumi e grate maniere dotata. S’innamorò esso Enrico d’Anna, de la famiglia di Bologna, figliuola d’un cavaliero de l’isola, giovane di corpo molto bella ma di basso animo e plebeo, che era de la reina Caterina donzella, e tanto innanzi andò con questo suo amore, e sí il re vi s’abbagliò, che entrò in pensiero di repudiar la reina e prender questa sua donzella per moglie. Si dice che il cardinale Eboracense, che alora amministrava tutti gli affari del reame, lo consegliò che la repudiasse, con dargli ad intendere che seco il sommo pontefice averia dispensato, pretendendo al divorzio questa ragione, che Caterina era prima stata moglie del fratello maggiore d’esso re, e che perciò non poteva esser sua consorte. Ma alcuni altri dicevano al re che avvertisse bene, ché il papa non separerebbe mai questo matrimonio, perché quando egli la sposò fu dal papa, che alora era, dispensato di poterla sposare ancora ch’ella fosse stata moglie del fratello, col quale non aveva consumato matrimonio. Ora il re, ebro de l’amore de la donzella e sazio de la reina, quella di propria autoritá e senza altra dispensa repudiò, e cercando dal papa esser dispensato, non fu mai possibile che potesse aver l’intento suo, adducendo il papa che Caterina era sua vera moglie, avendola con autoritá de la Chiesa sposata e seco consumato il matrimonio ed avutone figliuoli, di modo che piú non gli poteva separare. Furono su questa materia compilati infiniti consulti, e non ci fu universitá alcuna né uomo che avesse fama di scienziato, che non fosse richiesto a comporre qualche cosa su questo caso. Né solamente il papa procurò cotesti consulti, ma il re altresí mandò per tutto; ma generalmente fu da tutti i dottori catolici con efficacissime ragioni conchiuso che il re non poteva repudiar la moglie, e meno il papa disfar cotal matrimonio. Entrato il re in còlera grandissima e pieno di mal talento, cacciò il cardinale de la corte e lo confinò in certo luogo de l’isola, levandoli tutte l’entrate che aveva; il che fu cagione de la morte sua, perché, mandandolo poi il re a pigliare e menarlo a la corte, egli, che si dubitò esser condotto al macello, s’avvelenò nel viaggio, per quello che se ne disse, e morí prima che arrivasse a Londra. Né solamente morí il cardinale Eboracense, ma molti altri grandissimi prelati e baroni furono decapitati, tra i quali vi fu quel santo uomo, il vescovo Roffense, il quale, essendogli mozzo il capo, fu trovato con l’asprissimo cilicio su le carni. Che dirò di Tomaso Moro, uomo integerrimo e di bone lettere greche e latine dotato? Ma se io vorrò far il catalogo di quelli che a le sfrenate voglie del re non volsero consentire, io farò una nuova Iliade, perciò che non lasciò né monaci né frati ne l’isola, ed infiniti n’ammazzò, disfacendo tutti i monasteri e guastando tutte le badie e dando i vescovadi a modo suo, senza autoritá del sommo pontefice. Sposò adunque la sovradetta Anna, vivendo ancora la reina Caterina, che giá s’era ritirata in un luogo che il re l’aveva deputato. Ma grandissima difficultá è che le cose cominciate con tristo e cattivo principio buon fine sortiscano giá mai. Era Anna molto bella e piacevole sovra modo, ma poco del corpo pudica, perciò che prima che il re la sposasse, ella, per quanto confessò al tempo de la sua morte, aveva piú volte provato con che corno gli uomini cacciano il diavolo in inferno. Ascesa poi a tanta grandezza che, di picciola donzella, tenuta era per reina ed onorata, non considerando l’alto grado al quale immeritamente si vedeva sublimata, si diede a disonesti e vietati amori. Ella disonestamente amò il proprio fratello, che il re aveva fatto gran barone, e piú volte carnalmente seco si giacque. Né di tale sceleratezza contenta, s’innamorò d’un favorito del re, che si chiamava il signor Uestone, e a quello, tutte le volte che ella puoté, fece del corpo suo amorosamente copia. Ma la cosa non finí qui, sí era ella disonesta ed insaziabile. Onde gittati gli occhi adosso ad un barone che tutto il dí era in corte, nomato Briotone, ed uomo di molta stima, quello anco indusse a giacersi con lei. E per averne sempre qualcuno a lato, a ciò che non perdesse tempo, si domesticò di modo con il signor Nioris, che la domestichezza non si finí che insiememente presero in letto quel piacere che tanto gli uomini da le donne ricercano. Io veggio molti di voi, signori miei, pieni d’ammirazione di quanto adesso vi narro, e vi deve forse parere ch’io vi narri fole di romanzi, o de le favole che si fingono su le mani. Ma io vi dico una vera istoria, perciò che, quando ella fu dentro il castello di Londra decapitata, io mi vi trovai e sentii leggersi il processo, essendo giá ella condutta su la baltresca, e vidi anco mozzar il capo a cinque suoi adulteri, dei quali quattro ne avete da me uditi. Resta che vi annoveri anco il quinto, del quale molto piú vi meraviglierete, e sará ben ragione. Era in corte un Marco, di bassa condizione, che fu figliuolo d’un legnaiuolo ed aveva imparato a cantare e sonava di varii stormenti di musica, e per questo era amato dal re, e assai sovente, quando era in letto con la reina, lo faceva entrar in camera e, se ben non v’era, lasciava che Marco, essendo la reina in camera, innanzi a lei cantasse e sonasse. Sapeva Marco tutti gli amori disonesti de la reina, e v’era anco una donzella nominata Margarita, che a la reina teneva mano in questi suoi adulterii. Ora accostumava la reina, quando il re era levato, di farsi venir Marco e udirlo sonare; ma o che ella lo facesse a ciò che fosse secreto e non rivelasse ciò che ella con i baroni giá detti faceva, o pur che volesse provare se egli cosí ben sonava con la piva come faceva con gli stromenti, piú e piú volte se lo recò in braccio, compiacendoli di quello che, dal re in fuori, deveva a tutto il mondo esser scarsissima. E cosí la disonesta reina ora con uno ed ora con un altro, sempre che n’aveva l’agio, si trastullava e sempre piú stracca che sazia rimaneva. Era bene per la corte qualche dubio de l’onestá sua; ma, veggendo che il re piú che gli occhi proprii l’amava, nessuno ardiva farne motto, e gli adulteri andavano dietro a buon gioco. Il re medesimamente, non contento de la possessione de la reina, amorosamente godeva una dama bellissima che stava in corte con la reina, con la quale egli giocava spesso a le braccia, ma sempre toccava a la donna a star di sotto. Questa dama era sorella di maestro Antonio Bruno medico, al quale il re faceva di gran carezze e mostrava averlo molto caro. S’accorse poi il re come questa dama si domesticava troppo volentieri con gli uomini e che spesso voleva a la lotta isperimentare chi fosse di piú forte nerbo e dura schena; del che non mezzanamente si turbò e sdegnossi seco. Onde, fattosi un giorno chiamar il fratello di lei, in questo modo gli disse: – Antonio, assai mi rincresce dirti cosa che ti possa far dispiacere, perché t’amo e vorrei poterti sempre far cosa che grata ti fosse; ma per onor mio io sono sforzato dirti quanto ora ti dirò. Io voglio metter in assetto e regolar la corte di mia moglie e levarne certe pratiche che non mi piacciono. Ed a far questo egli è sommamente necessario che tua sorella per molti rispetti non resti in corte, perché tanto non potrei ordinare quanto ella metterebbe in disordine. Levala adunque di corte e provedi a’ casi suoi, ché a me non piace che ella a modo alcuno piú ci stia. Ma per tuo e suo onore, io giudicarei che fosse ben fatto che ella chiedesse licenza a la reina a la presenza de l’altre dame e damigelle, con trovar qualche scusazione che piú non può restar in corte, ed io ordinerò a mia moglie che onoratamente le faccia la grazia. – Maestro Antonio ringraziò il re e disse che farebbe quanto esso gli aveva comandato. E cosí quel medesimo giorno egli parlò con la sorella, dimostrandole l’intenzione del re, e l’esortò a fare come il re aveva divisato. La donna, che sapeva tutti gli adulterii de la reina, cosí gli rispose: – Fratel mio, va pure e di’ liberamente al re che io farò quanto egli mi comanda; ma che io l’avvertisco che attenda bene a guardar sua moglie, e che non fará mica poco se la saperá guardar bene. – Maestro Antonio, sentendo questo e parendoli cosa di troppo scandolo, si scusò che non voleva far simile ambasciata al suo re, e che ella parlasse d’altro. – Né io sono per fare, – rispose ella, – ciò che il re comanda, ed aspetterò d’esser con tuo e mio disonore publicamente licenziata. Ma se tu sarai savio, farai quello che io ti dico, e so che il re te ne resterá con obligo. – Ora, dopo non picciola tenzone tra loro avuta, si deliberò maestro Antonio di far al re l’ambasciata secondo il voler de la sorella. E cosí, a lui accostatosi, disse: – Sire, io ho parlato con mia sorella, la qual è presta a far tutto il voler vostro. Ma prima vuole che io vi dica che ella, come serva umilissima che v’è, vi avvertisce che attendiate bene a guardar vostra moglie, e che mica poco non farete se la saperete guardar bene. – Il re, udito cotesto parlare, fieramente si sentí trafitto e ne l’animo suo molto se ne turbò. E poi che ebbe alquanto tra sé pensato, si rivolse a maestro Antonio e gli disse: – Tu m’hai con coteste tue ciance, che sono di grandissima conseguenza ed importanza, messo il cervello a partito. Ma se tua sorella vuol vivere, egli è sommamente necessario che ella mi faccia chiaro che mia moglie m’abbia mandato, senza partirmi da Londra, in Cornovaglia, ché questo mi pare che suonino le sue parole. Tu le dirai adunque che ella mi chiarisca di questo e che, per quanto ha cara la vita, non ne parli con persona del mondo e che non prenda altramente congedo. – Tornò maestro Antonio a la sorella, a cui fece manifesta tutta l’intenzione del re. Ella alora: – Vederai mò, frate mio, che il re, – soggiunse ella, – t’averá grado di quanto per parte mia significato gli hai. Ora io vo’ che tu gli dica che, se egli desidera certificarsi come le cose di sua moglie son governate e com’egli da’ suoi soggetti è trattato, faccia pigliar Marco sonatore e Margarita cameriera de la reina. Da questi dui egli intenderá molto piú di quello ch’io gli saperei dire, perché eglino sanno piú di me. – Avuta questa risposta, il re fece a sé chiamar il Cremonello, suo contestabile e che dopo la roina del cardinal Eboracense aveva in mano tutto il governo de l’isola, e a quello impose quanto voleva che egli con maestro Antonio Bruno facesse. Era del mese d’aprile quando il re fu fatto consapevole di questa cosa; il perché ordinò di far il giorno de le calende del maggio una bellissima giostra, ne la quale egli intendeva giostrare, e nomò i compagni che voleva che seco giostrassero, che furono il fratello de la reina, il signor Uestone, il signor Briotone, il signor Nuris ed alcuni altri cavalieri, i quali tutti d’arme e di cavalli fecero un bellissimo apparecchio per comparir il dí de la giostra attillati, galanti e prodi cavalieri. A l’ultimo poi de l’aprile, essendo il contestabile in castello, chiamò a sé Marco e lo richiese se voleva andar seco quel dí ad un suo luogo, che era fuor di Londra due picciole miglia. Marco gli promise d’andarvi. – Va dunque, – disse il contestabile, – e reca teco qualcuno dei tuoi stromenti, e ci daremo il meglior tempo del mondo oggi e questa sera, e dimane verremo a buon’ora dentro. – Andò Marco e fece quanto il contestabile aveva detto, e cosí di brigata, essendovi anco maestro Antonio Bruno, andarono, non con molta gente, al detto luogo, ove stettero in piacere e cenarono allegramente e dopo cena in feste si trastullarono. Volle il contestabile che il Bruno ed anco Marco dormissero ne la sua camera, ove, essendo giá tutti corcati, secondo l’ordine del contestabile, entrarono dui dei fidati suoi, i quali presero Marco e stretto lo legarono che non si poteva scuotere, e in potere del contestabile e del Bruno lo lasciarono e si partirono. Alora gli disse il contestabile: – Marco, il re vuole da te sapere le pratiche de la reina, che sa che tu sai. Egli è molto meglio che tu manifesti il tutto e non ti lasci straziare che voler fare l’ostinato. Ad ogni modo altri che tu lo sa e di giá ne ha avvisato il re. – Il povero Marco, timido come un coniglio, parendogli di giá aver dinanzi il carnefice che a brano a brano lo smembrasse, scoperse tutti gli adulterii e se stesso insieme. Il contestabile, fatto metter Marco sotto buona custodia, e proveduto che a Londra niente si potesse presumere de la presa di quello, in su l’ora de la giostra a Londra se ne ritornò. Finita la giostra, certificò il re di quanto Marco aveva confessato; il quale, dolente oltra modo e pieno d’un mal talento contra tutti, la seguente notte fece a salvamano senza romore pigliar gli adulteri e la reina con la Margarita, e metter in diverse prigioni; e quella notte vi fu condutto Marco. Formatosi poi il processo e trovato ciò che Marco detto aveva esser vero, non dopo molto su la piazza di Londra fece publicamente a tutti cinque gli adulteri, con ammirazione grandissima del popolo, mozzar il capo. Dopoi una matina su la piazza del castello a la reina e a la Margarita fece far il medesimo. Morí la sforturata reina molto costantemente, per quello che si vide, e ben contrita dei suoi peccati. Stette il re circa dui anni, e poi prese per moglie Giovanna di Semer, sorella d’un cavaliere, la quale ingravidò d’un figliuol maschio, come il parto manifestò, nel quale essa Giovanna morí; ed il figliuolo è quello che si chiama il «prencipe». Morta questa reina, egli praticò con il duca di Cleves di prender la sorella di quello, e la sposò, e fecela condurre in Inghilterra e tennela per moglie tre mesi solamente, perciò che, essendo ella in letto col re e di varie cose ragionando, ella scioccamente si lasciò uscir di bocca che altre volte, essendo fanciulla, aveva promesso ad uno del suo paese di pigliarlo per marito. Per questo il re la repudiò, e fuori, in un luogo assai vicino a Londra, la mandò a stare, ordinandole una entrata di venti migliaia di ducati. Cacciata via questa di Cleves, prese per moglie una nipote del duca di Nofoco, che è un nobilissimo barone, e la tenne dui anni. Ché, essendo ito il re nel paese di Nort, stette lontano alcuni dí da Londra e poi vi ritornò. Ritornato che fu, intese che la reina s’era amorosamente domesticata con un barone favorito suo, che si chiamava Colpeper, onde, giustificata la cosa, gli fece tutti dui su la piazza de la cittá decapitare. Ma voi, signori miei, avete ad intendere che il re, praticando di maritare Colpeper suo favorito, e desiderando dargli moglie nobile e ricca, condusse la cosa di modo che gli fece publicamente sposare questa nipote del duca. E facendosi le nozze tali quali a simile maritaggio si conveniva, e il re con la presenza sua onorandole, fieramente de la sposa s’innamorò e ad altro non poteva rivolger l’animo se non che via deveva tenere per giacersi con questa sposa. Mal fatto gli pareva pure che fosse d’aspettare che il suo favorito seco si fosse giaciuto, e poi tener pratica con lei per indurla a far ciò che egli volesse; onde a la fine deliberò privarne Colpeper e pigliarsela per sua moglie. Finite dunque le feste de le nozze, credendosi Colpeper andar a dormire con la sua donna, che molto giá amava, il re a la presenza di tutti gli disse: – Colpeper, io vo’ che tu ti contenti per ora di trovar un’altra donna che io ti saperò far avere, perché io voglio questa per mia moglie. – Che poteva fare il povero sposo? Il re alora publicamente per sua la sposò. Nondimeno rimase tra i dui primi sposi una certa affezione che gli condusse a giacersi insieme. Ed usando meno che cautamente la pratica loro, furono veduti nascostamente basciarsi lascivamente insieme; il che fu cagione che furono presi e morti, come giá vi s’è detto. Ora avvenne che un dí una donna vedova, che era stata moglie d’un cavaliero, avendo lite con i parenti di suo marito, e non possendo conseguire la possessione dei suoi beni, avendo tentate molte vie, fu consigliata che, pigliata l’opportunitá, si presentasse al re ed umilmente gli chiedesse giustizia. Il che ella fece, perciò che, da alcuni suoi parenti accompagnata, entrò in sala del re, aspettando che egli di camera uscisse; al quale come egli fu uscito, la donna si fece innanzi ed inginocchiata gli porse la supplicazione, ed anco a bocca gli disse piangendo parte del suo bisogno. Il re, udita la vedova, le commise che dopo il desinare ritornasse, ché la spedirebbe in bene. Tornò ella subito dopo il desinare al re. Egli, vedutala e considerata, le disse: – Madonna, noi vi vorremo dar marito, se vi piacesse. – Era la donna d’etá di circa trentacinque anni, la quale, udendo ciò che il re diceva, rispose: – Sire, io vorrei prima ricuperar i miei beni ed assettare le cose de la mia dote, perché mi crederei che facendo questo, se poi mi volessi maritare, che non mi devesse mancar partito al grado mio convenevole. – Sta bene, – soggiunse il re; – questo è ben ragione. Ma noi vi daremo uno che con poca fatica vi aiterá a far tutto quello che voi dite. – Sia come vi piace, – rispose alora la donna. In questo il re si fece dar la mano e le disse: – Se voi volete, io intendo esser il vostro marito; e perché non diamo indugio a la cosa, andiamo a la chiesa e lá io vi sposerò per mia moglie. – E cosí di brigata con tutta la corte andarono a la chiesa, ove egli la prese e sposò in presenza del suo popolo per moglie, e cosí anche la tiene. Vero è che si dice che tiene de l’altre pratiche di donne, e che quasi ogni quindeci dí va a trovar quella di Cleves e seco dui e tre dí molto domesticamente dimora. Tale adunque è la vita d’Enrico ottavo re d’Inghilterra, per quanto appertiene a le donne e a la religione cristiana.
Il Bandello a monsignor Guidone Golardo
di Brasaco presidente nel senato di Bordeos
Assai sovente suol avvenire che coloro, che si dilettano con inganni beffar il compagno, a la fine restano eglino, non se n’accorgendo, i beffati e gli scherniti. E questi tali non si ponno con ragione lamentare se loro è reso il contracambio de l’inganno, perciò che, come giá cantò il gentilissimo Petrarca,
Che chi prende diletto di far frode,
non si de’ lamentar s’altrui l’inganna.
E non sofferendo la natura umana che ’l bene non sia di convenevol guiderdone rimunerato, vuole anco ragionevolmente che gli inganni e misfatti siano puniti, a ciò che, come dice il volgatissimo proverbio, qual asino dá in parete, tal riceva. Eravamo questi dí molti di noi di brigata in un nostro giardino a diporto, e d’uno in altro ragionamento travarcando, si venne a ragionare di certo prete, che circa un beneficio aveva maliziosamente ingannato un altro prete, che di lui, come d’amico, si era a la carlona, secondo che dire si costuma, di lui, dico, confidato, senza scritti e senza testimoni. E biasimandosi da tutti la poca fede de l’ingannatore, e dicendo ciascuno di noi il suo parere circa il castigo che dare acerbamente se gli deveria, messer Matteo Beroaldo, parigino, uomo non solamente ne la lingua latina e greca eruditissimo, ma ne l’ebrea ancora e negli studii filosofici essercitato, e precettore del nostro signor Ettor Fregoso, dal re cristianissimo nomato al sommo pontefice per vescovo di Agen, ci narrò un meraviglioso inganno usato da un canonico di Laon ad un borghese, e il degno castigo che dal senato regio al canonico fu dato. Sodisfece molto a tutti la pena al canonico data ed alcuni mi pregarono che io ne scrivessi una novella; il che feci volentieri. Quella dunque, da me essendo stata scritta, al nome vostro ho intitolata, in testimonio de la scambievole nostra benevoglienza e de l’osservanza che io a la bontá vostra ed ottimi costumi porto. State sano.