Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LXI

Terza parte
Novella LXI

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Fra Filippo de l’ordine dei minori,


non possendo goder la sua innamorata,


si castra e le presenta il membro tagliato via.


Ritornando io ultimamente d’Italia, feci il camino per la Linguadoca, e, passando per una antica e nobile cittá, mi fu da un mio oste detto che non era molto che era accaduta una novella, la quale parendomi strana, me la feci narrare piú d’una volta per meglio imprimerla ne la mente. Ora che le nostre madame sono ritirate e che abbiamo alquanto piú largo campo di novellare che quando elle ci sono, io vi vo’ dir quanto alora in Linguadoca intesi, che dapoi da persone molto degne di fede m’è anco stato affermato per cosa indubitata e vera. Dico adunque che in quelle parti fu un monastero di monache di san Francesco, ed ancora v’è, di santitá e religione famosissimo, nel quale sono vestite monache nobilissime e de le prime schiatte di tutta Francia, che vivono sotto il governo di cinque o sei frati minori a tal cura dal loro ministro de la provincia deputati. Questi dimorano di continovo ne le stanze a posta fabricate per loro e che col monastero son congiunte. E parlando tutto il dí e conversando con le monache, prendono con quelle una famigliar domestichezza; cagione che talora quella conversazione che deverebbe tutta essere spirituale, diventa carnale e fa che si viene ad carnis resurrectionem, perciò che la troppo familiaritá partorisce poco rispetto, e come la riverenza manca, si vien poi ad un guazzabuglio. Ora avvenne che in detto luogo fu mandato un fra Filippo, uomo di ventitré o ventiquattro anni, che era nei servigi de le donne molto gagliardo, e in quelli assai piú volentieri s’affaticava che a cantar in coro o far gli altri essercizii de la santa religione. Questi, come fu giunto in quel santo collegio e vide la privata domestichezza che s’usava, tra sé deliberò di mettersi a la prova, per vedere se trovava possessione da vangare e lavorare col suo piuolo, col quale egli soleva talor piantar gli uomini. E tentando diversi terreni, si domesticò molto con la vicaria del monasterio, che era donna d’altissimo legnaggio, e seco cominciò a parlare de le cose spirituali, narrandole l’istoria de le stigmate di san Francesco e de la penitenza che fece in Toscana nel monte de l’Avernia. E continovando questa sua pratica, cominciò a venir al basso e parlare de le cose de l’amore. Al che la vicaria dava poca udienza, del che egli si mostrava restar molto di mala voglia. Nondimeno da l’impresa punto non si ritraeva, ma piú di giorno in giorno si mostrava d’arder per lei. E perché le povere monache lavavano i panni dei frati fin a le brache, egli talvolta dava le sue brache a lavare, che erano stranamente ricamate a la damaschina con certi parpaglioni su, che averebbero fatto stomaco a Guccio porco. Né ad altro effetto fra Filippo dava le brache cosí ricamate se non che, veggendole la sua amica dipinte di quel modo, si movesse a pietá di non lasciarli gettar via l’umor radicale, ma fosse contenta di prestargli il mortaio, a ciò che esso potesse pestarvi dentro col suo pestello la salsa. Insomma non poteva fra Filippo far cosa che gli profitasse. Per questo si deliberò non parlar piú in zifera, ma apertamente dirle il suo bisogno. E cosí, pigliata un giorno la oportunitá ed entrato seco in varii ragionamenti, a la fine le disse: – Madama, io piú e piú volte mi sono apposto per farvi conoscer l’amore ch’io vi porto e la tormentosa passione che per voi soffro; ma voi non m’avete mai voluto intendere, di modo che, veggendomi da soverchio tormento morire, sono sforzato gittarmi a’ piedi vostri ed umilissimamente chiedervi mercede e supplicarvi che abbiate pietá di me, perciò che io non posso piú durare in queste passioni. – La monaca, che poco di lui e meno de le sue ciance si curava, gli rispose che egli le pareva un pazzo a dir simili materie e che in altro pensasse. Fra Filippo, che averebbe voluto appiccar la coda a la cavalla di compar Piero, le rispose e le disse: – Madama, voi non fate se non dire, e non sentite ciò che sento io. Ma se la cosa vostra vi desse la metá fastidio che fa quel mio diavolo che ho tra le gambe, voi pregareste me, ove io ora sono astretto a pregar voi; ché vi giuro per lo battesimo che ho in capo, che tutto il dí e tutta la notte egli mi sta dritto e duro come una cavicchia di ferro, e mi dá tanta passione che io nol posso sofferire.– Sentendo queste pappolate, la monaca quasi mezzo adirata gli disse: – Fra Filippo, se voi non lo potete sofferire, vostro sia il danno: andate e tagliatevelo via, e sarete libero dal tormento che dite che vi dá. – Si partí molto di mala voglia messer lo frate, ed entratogli il diavolo nel capo, se n’andò a la sua camera, ed avuto, non so come, un rasoio, prese un laccio e quanto piú stretto puoté con dui e tre nodi si legò vicino ai testimoni il membro, e col rasoio in un tratto via se lo tagliò tutto netto. E non sentendo ancor dolore, perciò che la stretta legatura aveva di modo mortificato il membro, che sangue non ne usciva né gli dava doglia alcuna, se n’andò a trovar un frate suo compagno, che era consapevole dei suoi segreti, e sí gli disse: – Frate mio, io mi sono castrato, e so che il mio membro piú non mi molesterá. Guarda qui. – Restò il compagno a simile spettacolo tutto stordito, né sapeva che si dire. Da l’altra parte fra Filippo, a cui pareva d’aver fatto uno dei bei tratti del mondo, si messe d’allegrezza a saltare. Ed ecco che al secondo o terzo salto che fece, il laccio si snodò e cominciò il sangue con larga vena ad uscire, e il dolore a crescere, di modo che il povero fra Filippo, perdute le forze, si abbandonò e si lasciò andar stramortito in terra. Il suo compagno, veggendo cosí strano accidente, levò la voce e quanto poteva piú alto domandava alta, ed avevasi recato fra Filippo ne le braccia. Gli altri frati, udendo il grido, corsero tutti lá e trovarono fra Filippo piú morto che vivo, e dal suo compagno intesero la cagione del suo male; il che a tutti parve pure la piú strana cosa del mondo, e quasi pareva loro che fosse incredibile. Tuttavia, veggendo l’abbondanza del sangue che per terra era, essendovi tra loro alcuno che un poco di cirugia s’intendeva, andò e con certi suoi ogli e polvere fece stagnare il sangue e mitigò assai il dolore a l’infermo, il quale liberamente a tutti narrò la cagione perché sí stranamente s’era circonciso. Alora tutti quei frati corsero a picchiar la porta del monastero con tanta furia che pareva che il mondo abissasse. Le monache, sentito il romore, corsero ad aprir la porta, ed aspettando sentir qualche gran novella d’importanza, i buon frati le dissero la fiera disgrazia e strano accidente che al padre fra Filippo era avvenuto. Le monache, udendo simil pazzia e credendo che i santi frati si burlassero, gli dissero che avevano fatto una bella baia a metter tutto il monastero col lor battere a la porta in romore, e che non credevano a le lor ciance. I frati affermavano pure con santi giuramenti la cosa esser cosí. E veggendo che le monache non erano disposte a volerla credere, dui o tre di loro andarono ne la camera ove fra Filippo aveva fatto la beccaria, e trovarono il povero ser Capoccio in terra tutto pallidetto e languido, e quello presero, mettendolo suso un quadro, il quale tutto copersero, ché era di maggio, di rose, fiori e d’erbe odorifere, come se fosse stata la reliquia di san Brancaccio. Cosí ben adornato, lo portarono a le monache e dissero loro: – Eccovi il testimonio di quanto v’abbiamo narrato, a ciò non crediate che noi v’abbiamo detto bugia. – Le buone donne presero il quadro in mano e discopersero il povero pistello e molto bene lo guardarono, biasimando tutte fra Filippo che avesse fatto sí gran pazzia. Dopoi con dolor di tutti fu data sepoltura a quella poca carne, che non era piú buona a far servigio; e fra Filippo, come fu guarito, non potendo sopportar la baia che le monache e i suoi compagni tutto il dí gli davano, avuta la dispensa dal sommo pontefice, si fece monaco di san Benedetto.


Il Bandello al gentilissimo


messer Domenico Cavazza


Non mira il cielo con tanti occhi in terra alora che è piú lucido e sereno, quanti sono i varii e fortunevoli casi che in questa vita mortale avvengono. E se mai fu etá ove si vedessero di mirabili e differenti cose, credo io che la nostra etá sia una di quelle ne la quale, molto piú che in nessun’altra, cose degne di stupore, di compassione e di biasimo accadono. S’è veduto a’ nostri dí, ne le cose pertinenti al culto divino e dei santi e circa la fede catolica, quante sètte, dopo che Martino Lutero ha contra la Chiesa alzate le corna, sono nasciute e quante cittá e provincie, sprezzato il vivere dei padri loro, da tanti dottori antichi e santi uomini approvato e generalmente dal publico consenso dei buoni dal nascimento di Cristo in qua osservato, variamente vivono; di maniera che oggidí, in quelle genti che da la Chiesa separate si sono, per vivere non ne la libertá de lo spirito buono, ma ne la libertá de l’affezioni loro, sono altre tante le sètte quanti sono quelli che giudicano, sforzandosi ciascuno in particolare di trovar qualche error nuovo, e tutti insieme esser differenti. Il che mi par esser assai manifesto indizio e fortissimo argomento che il Redentor nostro Cristo Giesu non ha parte in loro, ché se egli v’avesse parte, ve l’averebbe anco lo Spirito Santo, la cui vertú e proprietá è unire le cose disunite, non dividere né separar quelli, che devono una medesima cosa essere e caminar una medesima via. Ne le cose poi mondane ha questa nostra etá veduto i turchi aver pigliato tutta la Soria e disfatto il soldano con la setta dei mamalucchi, vinto Belgrado, debellato Rodi, soggiogata la piú parte de l’Ongaria ed aver assediata Vienna d’Austria e fatto in quelle contrade di grandissimi danni, aspettandosi ogni dí peggio, con vituperio indicibile di tutta cristianitá, che oggimai è stata ridotta in un cantone de l’Europa, mercé de le discordie che tra i prencipi cristiani si fanno ognora maggiori. Quelli che deveriano opporre il petto a le forze e crudeltá turchesche, tanto sangue cristiano hanno sparso, che saria stato bastante a ricuperare l’imperio di Constantinopoli e il reame di Gierusalem. Tra gli Angioini ed Aragonesi quanti fatti d’arme nel regno di Napoli fatti si sono, di modo che bene spesso Napoli in poco tempo ha tre e quattro signori cambiati? Milano ora dagli Sforzeschi ed ora da’ francesi ed ora da’ spagnuoli s’ha veduto comandare. In Ispagna i popoli hanno preso l’arme contra i suoi governatori; parte di Navarra da la casa di Lebretto è passata ne le mani degli Aragonesi, e tutta Spagna a’ tedeschi è soggetta. Il sangue proprio de la casa reale al re suo di Francia è stato rubello, e il duca di Borbone, fuggito dal re, a l’imperadore s’è accostato. Abbiamo veduto il gran pastor di Roma, di tedeschi e di spagnuoli prigione, aver la libertá comprata da Carlo imperadore, e Roma crudelissimamente essere stata saccheggiata, spogliate le chiese, violate le monache, e tutte quelle crudeltá essercitate che si possano imaginare, di modo che i gotti altre volte furono piú pietosi. L’Alemagna, tra sé divisa, si va consumando con le sue Diete. L’imperadore e il re di Francia ora sono in guerra ed ora in tregua, e pure accordio non si vede. I veneziani sono stati sforzati a comprar la pace dal Turco e dargli parte de le terre che in Levante s’avevano acquistate. Il re d’Inghilterra, tributario de la Chiesa, e che cosí dotta e catolicamente ha scritto contra gli errori a’ nostri dí nati, da le proprie passioni e disordinati appetiti vinto, s’è a la Chiesa ribellato e fattosi capo di nuova eresia, suscitando ne l’isola una nuova setta e un nuovo modo di vivere non piú visto o udito. E certo noi possiamo dire che pochissime etá hanno veduto cosí subite mutazioni come noi veggiamo tutto il dí, né so a che fine le cose debbiano terminare, perché mi pare che andiamo di mal in peggio e che tra’ cristiani sia piú discordia che mai. Ragionandosi adunque de l’esser de la nostra etá e de le molte mogli che il re d’Inghilterra s’ha preso, messer Liberio Almadiano, viterbese, che lungo tempo aveva praticato in Inghilterra, narrò il tutto brevemente. Il che avendo io scritto e ridutto al numero de le mie novelle, l’ho voluto publicare sotto il vostro nome, come testimonio de l’amicizia che, poco è, in Linguadoca tra noi s’è cominciata. State sano.