Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LX

Terza parte
Novella LX

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Morte miserabile di dui amanti, essendo lor vietato


di sposarsi da Enrico ottavo re d’Inghilterra.


Devete sapere che questo, che oggidí è re de l’isola de l’Inghilterra ed Enrico ottavo si noma, per qualche suo appetito è divenuto molto terribile e crudele ed ha sparso grandissimo sangue umano, facendo ogni dí mozzar il capo a questi e a quelli, e per la maggior parte annullando la nobiltá di tutta l’isola. Ha anco fatto decapitare due de le sue mogli in poco spazio di tempo. Egli ebbe due sorelle, una detta Margarita che fu moglie del re di Scozia; la quale, essendo restata vedova, ritornò in Inghilterra e prese ne le seconde nozze per marito un cavaliero, per esser cosí la costuma in quelle contrade, che le donne dopo il primo matrimonio, pigliando la seconda volta marito, prendono chi piú loro aggrada. Il che anco si vide in madama Maria, sorella pur del detto re Enrico, la quale fu maritata primieramente nel re Lodovico decimosecondo di Francia, col quale stette a pena tre mesi che il re se ne morí, e quella se ne ritornò in Inghilterra, dove il seguente anno ella prese per marito uno a cui il re suo fratello voleva gran bene, ancor che fosse di basso legnaggio, e gli donò la duchea di Suffort, de la quale aveva cacciato il vero signore di sangue reale. Ora quella che era stata reina di Scozia ebbe del cavaliero suo marito una bellissima figliuola, la quale il re come nipote amava e teneva molto cara, deliberando di maritarla altamente al tempo suo. Ed essendo giá di quindici anni, non era in tutta l’isola fanciulla cosí bella com’ella era, la quale anco, dotata di bei costumi e leggiadri modi, era da tutti sommamente commendata, e per l’umanitá e gentilezza sua ciascuno molto l’onorava. Di questa un giovine de l’isola, chiamato il signor Tomaso, nobile e ricco, che era figliuolo d’una sorella del duca di Nofoco, fieramente si innamorò, di modo che senza la vista di lei non ritrovava riposo e in altra parte non gli era possibile che rivolgesse i suoi pensieri. Veggendo adunque che per troppo soverchio amore se ne moriva, tanto seppe fare, seguendola notte e giorno e con messi ed ambasciate sollecitandola, che ella cominciò ad amar lui ed averlo caro. Del che accorgendosi il signor Tommaso, non mancò a se stesso, e sí andò la bisogna, che egli, consentendolo ella, ebbe modo di parlar seco segretissimamente, e sí bene ed accomodatamente le seppe le sue passioni dire e certificarla del suo fervente amore, che non si partirono d’insieme che si sposarono per marito e moglie, e con soavissimi baci e strettissimi abbracciamenti dolcissimamente consumarono il santo matrimonio, aspettando tempo oportuno di publicarlo. Ed in questo mezzo tutte le volte che potevano esser in compagnia, piú segretamente che loro fosse possibile, vi si trovavano ed amorosamente si godevano. Ma perché uno smisurato amore non si può del tutto celare e a lungo andare partorisce troppo domestichezza, di maniera che s’usano degli atti e cenni che fanno che la gente se n’accorge, la cosa fu da alcuni pigliata in sospetto; i quali, spiando piú cautamente che poterono gli andari e l’operazioni di questi dui amanti, vennero, non so come, in cognizione ch’essi insieme si godevano. E perché l’invidia è proprio vizio dei cortegiani, ci furono di quelli che, non potendo sofferir il bene di questi dui amanti, lo rapportarono al re, certificandolo come il signor Tomaso si giaceva con la nipote sua assai sovente. Di che il re fieramente se ne sdegnò, e mettendogli de le spie a torno, una notte gli fece tutti dui a salvamano pigliare e metter in prigione nel castello di Londra, l’uno perciò separato da l’altro. Volendo poi il re intender come il fatto era passato, gli fece essaminare; i quali, non essendo per negar la veritá, confessarono che come marito e moglie si giacevano insieme. E concordando l’una confessione con l’altra, e convenendo i constituti loro puntalmente insieme, gli essaminatori lo riferirono al re. Ora non so io per qual cagione il re non volesse accettare per buona questa loro vera confessione, la quale agli amanti nulla giovò, onde un giorno, nel Conseglio privato del re, Tomaso Cremonello contestabile d’Inghilterra, acerbo e perpetuo nemico di tutta la nobilitá de l’isola, de la quale la maggior parte aveva estinta e fattone infiniti decapitare, fece pronunciar la sentenza che al signor Tomaso nipote del duca di Nofoco fosse mozzo il capo. Si divolgò questa fiera sentenza per Londra con general compassione di ciascuno, parendo a tutti che ella fosse pur troppo ingiusta. Il perché, sentendo questo, il duca di Nofoco, uomo di gran riputazione appo il popolo e di nobilissima ed antica schiatta, se n’andò in castello per parlar al re; e trovato il contestabile che era ne l’anticamera, passò di lungo senza dirgli motto né fargli segno alcuno di riverenza, e picchiò a l’uscio de la camera del re, e subito fu intromesso. Come fu dentro, fece la debita riverenza al re, e pieno d’ira e mal talento, gli disse: – Sire, che cosa è questa che io veggio? Egli mi pare che vogliate sopportare che tutta la nobiltá d’Inghilterra debba morire, e che oggi uno sia ucciso e dimane un altro decapitato, di modo che oramai i nobili sono piú rari che i corvi bianchi. – Il re, mostrandosi nuovo e non sapere a che fine il duca dicesse cotesto, gli disse: – Duca, per che cagione dite voi queste parole? Che vi muove a tanta còlera, come io veggio esser adesso in voi? – Il duca alora gli rispose, dicendo: – Sire, a me sembra pur troppo di strano che Tomaso Cremonello, figliuolo d’un furfante cimatore di panni, si voglia tutto il dí lavar le mani nel nostro sangue e fare un macello di tutti i nobili de la contrada, non essendo mai settimana che qualcuno non ne faccia decapitare, per restare senza persona che gli ardisca rinfacciare la viltá del suo sangue poltroniero, non si sapendo di che ceppo suo padre sia uscito. Egli ha fatto condannare il signor Tomaso mio nipote a morte e vuole che dimane su la piazza di Londra publicamente, come un assassino, gli sia mozzo il capo. E perché? che sceleratezza ha egli commessa? che fallo, che per man d’un manigoldo debbia morire? Egli forse dirá: perciò che ha sposato la figliuola di madama vostra sorella, che nel primo matrimonio fu reina di Scozia. Ma questo che peccato è? Non sapete, sire, che i matrimoni deveno esser liberi e volontarii e che ciascuna donna può prender per marito chi piú le aggrada, ed altresí l’uomo è ne la medesima libertá, e il padre proprio non può vietare che la figliuola non prenda per marito quell’uomo che vuole? Non fa il matrimonio il giacer insieme e godersi carnalmente un uomo e una donna, ma il cambievole consentimento libero e volontario è quello che rende il matrimonio vero. Sí che, signor mio, non permettete questi omicidii anzi publici assassinamenti, e levate via l’occasione ai vostri sudditi d’incrudelire contra i vostri ufficiali. – Il re su questo fece chiamare il contestabile in camera e gli domandò la cagione de la sentenza data contra il signor Tomaso. E dicendo il Cremonello certe sue pappolate senza ragione, il duca se gli rivoltò contra e, senza rispetto veruno de la presenza del re e de l’ufficio del contestabile che egli aveva, gli disse le maggior villanie del mondo e fieramente lo minacciò. Il re, che che se ne fosse cagione, lo lasciò liberamente dire contra il suo contestabile tutto quello che egli volle. A la fine, dopo essersi lungamente disfogato, il duca ultimamente disse: – Io prometto a Dio, se mio nipote per questo matrimonio muore, non avendo altrimenti, che si sappia, peccato, che ne morranno piú di dieci. – E detto questo, se n’uscí de la camera del re senza prender altro congedo, e se n’andò al suo albergo. Rimase il re molto di mala voglia de la mala contentezza del duca, e si dice che stette buona pezza senza dir parola. Ora, perché il duca era il piú nobil barone che fosse in tutta l’isola de l’Inghilterra ed uomo appresso a quei popoli di grandissima stima e di molto séguito, non volle che il contestabile per quel giorno uscisse di castello, dubitando tuttavia di qualche inconveniente, e mandò piú fiate per ispiare ciò che il duca faceva, il quale non fece altro movimento che saper si potesse. Il dí seguente fece il re rivocar la sentenza publicata contra il signor Tomaso; nondimeno volle che tutti dui gli amanti rimanessero in prigione. Era il nipote del duca in una torre, a l’alto de la quale montando, poteva veder sua moglie, che era in un alto torrione assai vicino, e poteva da certe finestre parlar insieme; il che era pure a le passioni loro qualche alleggiamento, avendo tuttavia speranza che il re, mosso a pietá, gli farebbe cavar fuori. Ma la speranza loro era vana, perché il re s’aveva fitto in testa di voler che lá dentro facessero la vita loro. Condolendosi adunque tutti dui dei loro infortunii e pascendosi di vana speranza, s’andavano di giorno in giorno ingannando. Essendo poi certificati de la deliberazione del re, il signor Tomaso un giorno, essendo sua moglie a la finestra, che piangeva di questo crudel proponimento del re, dopo averla, a la meglio che seppe e puoté, consolata, ancor che ella consolazione alcuna non ammettesse, cosí le disse: – Consorte mia carissima e signora, io non vi cominciai giá mai ad amare per ammorzar in modo alcuno questo mio amore; ma la volontá mia sempre fu ed ancora è, fin ch’io viverò, amarvi ed onorarvi. Medesimamente l’animo mio non fu mai di far cosa che in qual si voglia occasione vi potesse recare né danno né noia. Ora io porto ferma openione che, se io fossi morto, il re vostro zio vi caveria di prigione, e cosí uscireste di questa misera cattivitá. Possendo io adunque con la mia morte rendere la vita a voi, che piú de la vita mia io amo, assai meglio sará che, io solo morendo, liberi voi da morte, che perseverar tutti dui in questa viva morte, senza speme d’uscirne giá mai. E perché non mi piace con le proprie mani incrudelire in me stesso, né appiccarmi come un ladrone o gettarmi da le finestre o dar del capo nel muro come forsennato, ho eletto morire a poco a poco, privandomi del cibo. E questa morte mi sará gratissima, sapendo che sará la salute vostra. – La donna lagrimando lo confortava, e diceva che, morendo egli, parimente ella non voleva restar in vita. Messosi adunque il signor Tomaso in cotal deliberazione, e non volendo a modo alcuno cibarsi, se ne morí. Il che sapendo la donna, deliberò di morire e stette dui o tre dí che mai non volle mangiare. Il che intendendo il re, la fece levar di prigione e con l’aiuto dei medici, cibandola per forza, la tenne in vita. Ma ella non s’è mai voluta maritare, e stando sempre malinconica, intendo che mena una vita molto lagrimosa, e mai non fa altro che pietosamente ricordar il suo signor Tomaso, maledicendo la crudeltá di chi cosí miseramente lo lasciò morire.


Il Bandello a l’illustre signore Ridolfo Gonzaga


marchese e signor di Povino


Crederete voi forse, perché siate in Italia ed io qui ne l’Aquitania, che qui si chiama Guienna, che di voi mi sia scordato, o vero che le mie lettere non saperanno passar l’Alpi e trovarvi? Da questo, oltra agli infiniti commodi e grandissima utilitá e piaceri che le lettere dánno a’ mortali, si conosce di quanti bene elle siano cagione. E perciò non si può se non dire che bellissimo trovato sia quello de le lettere, le cui lodi e beneficii chi volesse raccontare non ne verrebbe cosí tosto a capo. Ma questo sapete voi meglio di me, e desiderate che io vi scriva di quelle cose che non sapete. Il che farò io volentieri; e prima vi darò nuova di madonna la signora Costanza Rangona e Fregola, mia onorata padrona e vostra amorevolissima zia, e dei signori suoi figliuoli, che tutti sono la Dio mercé sani. E per fuggir i caldi che in questi dí caniculari fanno grandissimi, siamo partiti tutti da la cittá e venuti ad un castello, o sia villa, detta Bassens, vicina a la Garonna, posta sopra un fruttifero ed amenissimo colle, ove abbiamo un’aria salubre e freschissima. Qui abbiamo di continovo buona compagnia di signori baroni e dame del paese, che vengono molto spesso a visitar madama, e stiamo di brigata allegramente, prendendoci quei diporti che la stagione ci presta. Ci venne questi dí madama Maria di Navarra, figliuola del re Giovanni e sorella d’Enrico oggidí re di Navarra. Eraci madamisella di Lusignano e madamisella di Vaulx con altre donne. V’era anco monsignor di Frigemont de la nobilissima stirpe di Montpesat, e vi si ritrovò il barone di Ramafort, giovine di nobilissimo e molto antico legnaggio, il quale è stato assai in Italia e intende e parla assai acconciamente il parlar italiano. Egli è poi il piú festevol compagno e quello che meglio sappia con bei motti e faceti rallegrare e tener in festa quelli che seco sono. Onde, essendo le donne ritirate in camera e tutti noi altri iti a diporto nel giardino, che ci abbiamo molto bello, fu pregato il barone di Ramafort che con una de le sue novellette ci volesse intertenere. E cosí, essendo tutti assisi sotto un pergolato, egli narrò una novella che pur assai ci fece ridere e meravigliarsi tutta la compagnia. E certo a me parve una cosa molto strana. Avendola adunque scritta, con la comoditá di questo messo ve la mando e vi dono, a ciò che sempre col vostro onorato nome in fronte si veggia, e s’intendano i varii accidenti che, or qua or lá, tutto ’l dí accadono. State sano.