Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XLVIII

Seconda parte
Novella XLVIII

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Piacevol beffa d’un religioso conventuale


giacendosi nel monastero con una meretrice.


Voi sète, signori miei, entrati in un cupo e ondoso mare a ragionar de la materia che ragionavate, appartenente in tutto ai filosofi e ai teologi, per quello che altre volte io n’ho sentito disputare. Noi siamo su l’ultimo del carnevale, e il tempo vorrebbe esser dispensato in giuochi festevoli e parlari piacevoli, a ciò poi possiamo esser piú forti a sopportar il peso de la quadragesima che ci è su le porte, non si disdicendo in questi pochi giorni alquanto licenziosi a le persone religiose da le mondane cose allontanate in giochi onesti diportarsi. Vi narrerò adunque una faceta novella che non è molto a Milano avvenne. E perché i padri non deveno dar il battesimo ai loro figliuoli, io non vi dirò se la cosa avvenisse a caso od a fortuna, ma vi lascerò porre quel nome che piú vi piacerá, imitando in questo l’eccellente dottor di legge e poeta volgare non volgare, messer Niccolò Amanio di buona e recolenda memoria. Egli componeva rime piene di tutti quei colori poetici che se le convengono, ma ne le testure molte fiate non osservava quella strettezza d’ordine che si ricerca. Onde, essendo di ciò ripigliato, egli soleva dire di non voler dar il battesimo a le composizioni sue: che chi quelle leggeva, le appellasse come piú gli era a grado, e se non erano né ballate né madrigali, che tuttavia perciò erano versi. Vi dico adunque che ne la mia patria Milano sono innoverabili conventi di frati e monaci di varie religioni e monasteri di vergini mariali assai. E di tutte le sorti ce ne sono, cosí d’uomini come di donne, che viveno santamente con osservanza grandissima degli instituti e ordini loro, cosí mendicanti come d’altra sorte. Ce ne sono poi di quelli che «conventuali» si chiamano, licenziosi, dissoluti, poco onesti, che menano una vita scandalosa e di pessimo essempio, a cui starebbe meglio in mano la spada e la rotella che il breviario. Di questi ce ne era, in un convento che non accade nomare, un fratacchione troppo piú amico de le donne che non era convenevole; e non gli bastando il giorno trovarsi in casa di questa e quella meretrice e giacersi amorosamente con loro, soleva anco sovente menarne alcuna la notte a la sua cella e quivi tenerla sino a l’alba e poi mandarla fuori. Avvenne che una volta ce ne condusse una e seco la notte si corcò, correndo gagliardamente di molte poste. E mentre che con quella scherzando se la metteva sotto, venne l’ora del mattutino, e sentendo messer lo frate sonar la campana, si levò e disse a la donna: – Dormi, vita mia, ché io vo’ andar in coro, perciò che questa settimana tocca a me a dar principio a l’ore. Io tornerò subito che l’ufficio sará compíto. – Accese poi un lumicino, ed aperto un suo banco ov’erano molte guastarette ed ampolle, una ne prese. Era del mese di giugno e faceva il caldo grande. Il perché cominciò il frate con l’acqua che era ne l’ampolla, sentendosi per la fatica durata del giostrare tutto pieno di caldo, a lavarsi le mani e la faccia, e poi ritornò dentro il banco l’ampolla, ed, ammorzato il lume, uscí de la cella e, quella inchiavata, se n’andò a la chiesa. Aveva veduto la donna ciò che il frate fatto aveva e sentito l’odore de l’acqua rosa, e le venne voglia di rinfrescarsi anco ella; onde levatasi, cosí al buio andò ed aperse il banco, e credendosi pigliare l’ampolla de l’acqua rosata le venne presa quella de l’inchiostro; e non sentendo odore d’acqua rosa, s’imaginò che fosse acqua a lambicco stillata per far belle carni: il che le fu piú caro. Cominciò adunque a piena mano a lavarsi tutto il viso e bagnarsi benissimo il volto, il collo, il petto e le braccia, e di tal maniera, credendosi far belle carni, le tinse in nero che rassembrava il gran diavolo de l’inferno. E votò tutta l’ampolla, e cosí vòta la rimise nel banco. Poi tornò di nuovo con amendue le mani a fregarsi fortemente la faccia e l’altre parti bagnate, a ciò che meglio l’acqua s’incorporasse; e si corcò e in breve s’addormentò. Ora, circa il fine del mattutino, si partí il frate dal coro e se ne venne con una candela accesa in mano, ed aperta la cella vide nel letto la donna che dormiva. E veggendola tanto contrafatta da quello che esser soleva, dubitò che il diavolo de l’inferno fosse in vece di quella venuto a giacersi nel letto; onde còlto a l’improviso da cosí strano accidente, ebbe tanta paura e tanto tremore ne la persona che si mise a fuggire, quanto le gambe il potevano portare, verso la chiesa, ove ancora i frati erano. Quivi giunto, tutto tremante si gettò ai piedi del presidente del convento. Era tanta la paura che aveva, e tanto si trovava sbigottito, che non sapeva né poteva formar parola; ma ansando e di freddo sudor pieno, si sforzava di pigliar fiato e di parlare. Tutti gli altri frati, ammirati di tal novitá, gli erano a torno, ed il presidente lo confortava, domandandogli ciò che aveva. A la fine egli, preso alquanto di lena, publicamente il suo peccato confessò, e piangendo narrò come aveva introdutto la meretrice, la quale in un demonio infernale s’era convertita. Il presidente, fattosi dar la stola e fatto pigliar la croce e l’acqua Santa, con i frati processionalmente andò a la cella ove la donna dormiva, ed entrando dentro con molti torchi allumati, e dicendo salmi e loro orazioni, furono cagione che ella, a quel romore destandosi, alzò il capo. Come i frati videro quel mostro scapigliato, ché le era caduta la cuffia dal capo, tennero per fermo che fosse uno spirito diabolico. Il presidente fu il primo a fuggire, dietro al quale chi portava la croce quella in terra gittò, e il medesimo fece un altro de l’acqua santa. Ella, meravigliatasi di tal avvenimento, saltò fuor di letto. Come coloro la videro saltar su e che aveva la camiscia indosso tutta macchiata di nero, beato chi piú correr poteva! Di modo che per la calca tra loro alcuni cascarono in terra, e quelli che avevano i torchi, per esser piú spediti a sgombrar il camino, lasciarono andar per terra i torchi. Ella non si sapendo imaginar che cosa fosse questa, uscita de la cella cosí in camiscia come si trovava, cominciò a correr loro dietro e, come colei che quasi con tutti aveva giocato a le braccia e per l’ordinario l’era toccato andar di sotto, gli chiamava a nome per nome. S’abbatté in uno di quei torchi che in terra ardeva e, stesa la mano per pigliarlo, tutta si smarrí veggendosi in quel modo contrafatta, e s’accorse che invece di prender acqua da farsi bella, tutta s’era tinta d’inchiostro. Ella pur tanto gridò che, a la voce conosciuta, dicendo che era fatta nera da l’inchiostro, fu cagione che alquanti frati se le accostarono e riconobbero l’errore. E per la stagione che era caldissima, alcuni fratacchioni con acqua fresca e sapone tanto la lavarono e fregarono che ella tornò bianca come prima. E piú volte poi di questa beffa tra loro risero assai. Io lascio mò giudicar a voi se questo avvenimento fu a fortuna o a caso, e se, dopo che lavata fu e tornata come prima netta e bianca, fu ventura la sua che piú d’una decina di quei frati seco amorosamente si giacque.


Il Bandello al molto illustre e riverendo signore


il signor Ettor Fregoso salute


Abbiamo fatto, questo carneval passato in Bassens, di quella maniera che a la gravitá e gentilezza di madama vostra amorevole ed onorata madre fu convenevole, pigliando quegli onesti piaceri e leciti trastulli che la stagione e il luogo ci concedevano. Erano con noi alcuni gentiluomini italiani, la cui conversazione ne dava lieto e gioioso diporto, non ci mancando parlari piacevoli e faceti giá mai, di modo che furono narrate di molte bellissime novelle, che secondo che si narravano furono da me scritte. Tra l’altre una ne narrò messer Filippo Baldo, che di novelle ed istorie è piú copioso che non è una florida e temperata primavera di varii fiori e di nuove erbette, e ci disse un atto d’un lione che a tutti parve cosa mirabile, e massimamente ad alcune dame e damigelle de la contrada che con noi si trovarono di brigata. E questionandosi onde potesse provenire che un lione si lasciasse levar fuor degli artigli suoi un cagnolino da una giovanetta, molte cose de la natura dei lioni furono raccontate, che tutte, nel vero, sono notabili e meravigliose. Parve gran cosa che il lione, che è re degli animali quadrupedi, cosí fieramente tema il canto del gallo, e da sí disarmato e picciolo augello via se ne fugga, come fa il semplice agnello dal fiero lupo. E tanto piú fuggirá e si colmerá di terrore né potrá sostener l’aspetto di quello, s’avviene, come scrive Alberto Magno, che il gallo sia bianco. Non può anco sofferir lo strepito che fanno i carri rivolgendo le rote. Aborrisce grandemente il fuoco, di modo che mai non s’accosterá a chi porti fuoco in mano. E nondimeno egli è animale ferocissimo e fortissimo, ma con la ferocitá è il piú generoso tra le bestie che si sappia, e pare che la maestra natura gli abbia dato intelletto ed una inclinazione ad intendere e conoscere le preghiere che gli porgono coloro che dinanzi a lui prostrati gli chiedeno mercé, come narra Plinio de la cattiva de la Getulia, che ne le selve con le dolci ed umili preghiere placò l’ira di molti lioni. Ed in effetto egli solo tra le fere è chi usi clemenzia con i supplicanti, e tra tutti piú generosamente l’usano quelli che hanno i biondi crini lunghi sul collo e sovra gli omeri, il che avviene solamente a quelli che generati sono da lioni e da lionze. Ché se un pardo ingravida una lionza, il lione che nascerá né agli omeri né al collo le chiome giá mai metterá. E questi rimescolamenti di varie sorti d’animali avvengono per lo piú in Affrica, perciò che quella provincia non è molto abondevole d’acque, onde sono sforzate varie spezie di bestie trovarsi adunate insieme a bere ove sono l’acque, e quivi, tirate dal furore de la libidine, si meschiano varie sorti e nascono poi parti nuovi e mostruosi. Onde appo i greci ebbe origine il volgato proverbio: «Sempre l’Affrica apporta alcuna cosa nuova». Il che usurpò Aristotile nel libro De la generazione degli animali, e medesimamente Anasilla a quello alluse nel quarto libro di Ateneo. Fu anco raccontato che quando i lioni sono diventati vecchi, e per la vecchiaia mancano loro le forze naturali, di modo che divengono inabili a poter cacciare e procurarsi il vivere de le carni degli altri animali, che grandemente appetiscono cibarsi di carne umana; onde scrive Plinio che alcuna volta tanta moltitudine di lioni vecchi s’è messa insieme, che hanno assediate de le cittá, e che gli affricani per levarsi l’assedio hanno tenuto modo d’aver uno o dui lioni i quali a le publiche forche appiccavano; dal che ne seguiva che gli altri lioni per la paura di total supplizio si levavano da l’assedio. Fu poi ultimamente detto che se il lione per sorte contra l’uomo e la donna entra in còlera, che prima sfogherá l’ira sua contra il maschio e s’insanguinerá contra lui che contra la femina, e che mai non nuoce a’ piccioli fanciullini, se una estrema rabbia di fame, non trovando da pascersi, nol cacciasse e stimolasse; ma non essendo sforzato da la fame, non nuoce a persona. Insomma sovra il tutto fu mirabilissimamente commendato per la generositá, clemenzia e gratitudine che usa verso chi gli fa beneficio, come molti scrittori mostrano. Si conchiuse adunque, dopo molte cose dette, non aver il lione incrudelito contra la giovanetta, sí per la natural inclinazione che lo rende clemente e generoso, ed altresí ché la natura sua lo spinge ad aver piú compassione al sesso feminile, come piú debole, che al maschile. Ora se la natura insegna a cosí feroce e forte bestia esser generosa e clemente, che deve far l’uomo, capace de la ragione? È, nel vero, questa vertú de la clemenzia sempre lodevole e commendabile, che altro non è che una temperanza d’animo in astenersi da la vendetta, o vogliamo dire una lenitá e mansuetudine del superiore in determinar le pene e castighi che dar si deveno ai delinquenti. Né per questo crediate che la severitá le sia a modo veruno contraria, perché tra le vertú non può esser discordia né contrarietá. Bene è contrario a la clemenza il vizio de la crudeltá, che è una ferina atrocitá d’animo in bramar, troppo piú che non ci detta la ragion naturale, il castigo degli errori, e fare che infinitamente la pena sormonti il peccato; cosa invero che tiene piú de la bestia che de l’uomo. Onde perciò che l’ira ingombra assai sovente di modo l’animo nostro che non se gli può metter freno, e sí l’abbaglia che non ci lascia discerner il vero, si suol dire che l’uomo adirato non deverebbe mai castigar un delinquente mentre che l’ira il predomina e l’accende, perché non saperebbe tener la mediocritá, che si ricerca fra il piú e il meno. Questo ho io voluto dirvi, signor Ettor mio, a ciò che in tutte le azioni vostre vi debbiate sforzar d’esser di natura dolce, clemente e benigna, acquistando l’abito di questa santa vertú, la quale ci rende simili al nostro Salvatore, che ci dice che debbiamo imparar da lui che è piacevole ed umile di core, che altro non è che esser clemente e pietoso. E se a ciascuno sta bene usar clemenza verso i delinquenti, io mi fo a credere che a le persone religiose non istia se non benissimo, e spezialmente a quelli che s’allevano e nodriscono per divenir prelati ed aver il governo di molti. Nel numero di questi sète voi, che di qui a poco tempo, col mezzo de la diligenza di madama vostra madre e col favore de le vostre vertú, attendendo come fate a le buone lettere, sapete non vi poter mancar questo onorato vescovato di Agen che per voi si governa. Curate adunque di far un buon abito in tutte le vertú morali, e massimamente in questa tanto lodata clemenza; a ciò poi non si possa da voi rimovere cosí di leggero. Portate anco ferma openione esser minor male assai, quando s’abbia a venir a l’operazioni ed atti de la giustizia e de la clemenza; esser, dico, minor male a peccar in troppa mansuetudine, pietá e clemenza, che esser troppo osservatore rigido de la giustizia, che assai spesso ci fa cadere in crudeltá: vizio che in tutto dispiace agli uomini e al nostro Salvatore, il quale non solamente è alieno da la crudeltá, ma ha per propria natura d’esser misericordioso e perdonare a quelli che peccano, come tutto il dí per isperienza si conosce, pur che di core siano pentiti. E guai a noi se in Dio, ancora che sia giustizia, non superabondasse la misericordia! Il che a tutti deve esser in documento, e spezialmente a quelli che hanno il carico di governare. È dunque lodevolissima cosa a chi casca in alcun errore ed umilmente domanda perdono l’essere clemente; onde io mi do a credere che que’ dui versi, che in Campidoglio furono in marmo intagliati, ad altro fine non ci fossero posti che per ammonire i magistrati che usassero clemenzia. Erano latini, la cui sentenza in lingua nostra materna è tale: «Tu, che irato sei, rammenta che l’ira dal nobil lione, a chi gli è dinanzi prostrato, si nega esser fera.» Ora veggiamo ciò che del lione ci fu narrato in una brevissima ma nel vero ammirabile istorietta. State sano e di me ricordevole.