Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XLVII
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Novella XLVII
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Piacevole e ridicolo inganno usato da una gentildonna
ad un suo amante che teneva alquanto de lo scemo.
A me pare, signori miei, che voi vogliate che ognora io monti in banco e con le mie ciancie v’intertenga e vi narri di quelle cosette che vi fanno ridere. Io n’ho dette alcune e la presenza di madama Gostanza Rangona e Fregosa nostra signora, come fu quella de la duchessa di Savoia ed alcune altre novelle da me narrate. Ora che essa madama è ritirata e siamo qui tra noi buon compagni, io vi vo’ narrare un’istoria avvenuta ne la mia patria Milano ad un giovine nobile e ricco. Ché se io questi dí vi lodai esso Milano, non vorrei perciò che voi credeste che tutti i milanesi fossero Salomoni e tra loro non fossero assai feudatarii de la badia di San Sempliciano. Vedete voi questo giardino come è ben coltivato? come ha grasso e buon terreno? E nondimeno, ancor che dui ortolani fatti venir fin da la bella Toscana ognora ci siano dentro ed altro non facciano giá mai che purgarlo e levarne le cattive erbe, tanto non si ponno affaticare né tanto mondarlo, che tra le buone erbe non ce ne siano di quelle che per l’uso de l’orto non vagliono nulla. Cosí è il giardino del grasso Milano, nel quale ci è d’ogni erba sorte, e tra quei nostri ambrogiani molti si trovano che non sono mai passati sotto l’arca di san Longino: onde meraviglia non è se talora fanno de le cose sgarbatissime. S’è a questi giorni parlato pur assai de le divine e poderose forze che suol adoperare Amore, e de le mirabilissime trasformazioni che talora fa, come fu di Cimone e di molti altri che di bestioni fece uomini. Tuttavia egli talvolta, per esser fanciullo e cieco, alberga in certi cori sí sgarbati e ottusi che, quanto piú gli accende, quanto piú si sforza di fargli avveduti a scaltriti, tanto piú ne le azioni loro si mostrano scemonniti e, come dice il romagnuolo, restano decimi. Eglino fanno come le simie, che quanto piú s’innalzono piú mostrano le parti vergognose. Né si deve questo errore attribuire a l’Amore, perciò che egli dal canto suo s’affatica quanto può; ma alcuni nascono sí indisciplinabili che non è possibile d’ammaestrargli. Molti vanno a Parigi, a Pavia, a Padova, a Bologna e in altri luoghi agli Studii generali per farsi dotti in diverse scienze; ma a la fine tanto ne sanno l’ultimo anno quanto il primo, e pure i lettori dottissimi fanno il debito loro. Ora per narrarvi l’istoria che v’ho promessa, vi dico che in Milano fu, ed ancora forse è, un giovane nobile e molto ricco, il cui proprio nome per ora vo’ tacere per buon rispetto, e lo domanderemo fintamente Simpliciano. Era egli bello de la persona e vestiva molto riccamente, e spesso di vestimenta si cangiava, ritrovando tutto il dí alcuna nuova foggia di ricami e di straffori ed altre invenzioni. Le sue berrette di velluto ora una medaglia ed ora un’altra mostravano. Taccio le catene, le anella e le maniglie. Le sue cavalcature che per la cittá cavalcava, o mula o giannetto o turco o chinea che si fosse, erano piú polite che le mosche. Quella bestia che quel giorno deveva cavalcare, oltra i fornimenti ricchi e tempestati d’oro battuto, era sempre da capo a piedi profumata, di maniera che l’odore de le composizioni di muschio, di zibetto, d’ambra e d’altri preziosi odori si faceva sentire per tutta la contrada. Soleva Romano profumiero publicamente dire che messer Simpliciano gli dava piú guadagno in una settimana che non davano venti altri giovini nobili di Milano in tutto l’anno, levandone perciò sempre il signor Ambrogio Vesconte, il quale ne lo spender circa i profumi era prodigalissimo. Era adunque il nostro Simpliciano il piú polito ed il piú profumato giovine di Milano, e teneva un poco anzi che no del portogallese, ché ogni dieci passi, o fosse a piede o cavalcasse, si faceva da uno dei servidori nettar le scarpe, né poteva sofferire di vedersi a dosso un minimo peluzzo né altro. Si dava poi egli ad intendere che in Milano non fosse gentildonna né signora, che non si tenesse bene appagata che egli degnasse di far a l’amor con lei. E perché troppo piú si stimava di quello che valeva, non aveva molta intrinsica pratica con altri gentiluomini, non gli parendo trovarne uno che la sua compagnia meritasse. Per questo quasi per l’ordinario si vedeva sempre solo, seco non avendo altra compagnia che alcuni suoi servidori. Aveva poi un certo suo parlare pieno di melensaggine e fastidio, parlando molto adagio e da se stesso ascoltandosi, di modo che nessuno o ben pochi seco praticavano. Ora, andando ogni dí per Milano, avvenne che una volta vide in porta una bellissima gentildonna, moglie d’un nostro gentiluomo molto ne la cittá stimato, sí per la nobiltá e ricchezze, come che anco era uomo che valeva assai. Parve a Simpliciano di mai non aver vista la piú bella né la piú graziosa donna di lei, e cosí de l’amore di quella s’infiammò che, lasciato ogni altro pensiero da canto, tutto si diede in anima e in corpo a seguir costei. Cominciò adunque a passarle molte fiate il dí dinanzi a la casa, ed ogni volta che in porta si trovava, egli, o a piede o a cavallo che si fosse, quivi si fermava e con lei entrava in ragionamento. La gentildonna, che cortese ed umana era, gli rispondeva graziosamente; ma veggendolo poi parlare cosí sazievolmente e senza alcuna grazia, cominciò a dargli del grosso e non gli far quelle accoglienze che egli averia volute, di che lo sciagurato amante senza fine s’attristava. Né perciò da l’impresa si levava, anzi piú che prima la teneva sollecitata: e ben che da lei non potesse né buoni visi né risposte a modo suo cavare, essendo per aventura meglior profumiero che intenditore, quanto ella piú ritrosa si mostrava, tanto piú egli ferventemente e senza sbigottirsi la seguitava. E trovatala un giorno in porta tutta sola, le fece assai lungo ragionamento, caldamente supplicandola che volesse di lui aver compassione, che tanto e unicamente l’amava, chiedendole in tutta somma che una notte gli volesse dar segreta audienza. Era la donna di natura e complessione totalmente contraria a Simpliciano, e punto di bene non gli voleva; anzi veggendolo cosí sazievole e fastidioso, gli voleva male e non l’averebbe mai voluto vederselo innanzi. Onde con rigido e fiero viso e quello voltatasi, in questa guisa iratamente gli disse: – Sia questa, poco discreto e scostumato giovine che voi sète, l’ultima volta che voi piú d’amore mi parliate: ché se per l’avvenire sarete tanto temerario e presuntuoso che vi basti l’animo di parlarmi mai piú di cose d’amore, io ve ne farò quell’onore che meritate. Vi sia questo detto per sempre. – E lasciato lo sbigottito amante in strada solo, se ne entrò in casa. Era il marito de la donna uomo in simil materia terribile, il quale, se una volta sola si fosse avveduto de l’amor del nostro Simpliciano, e a lui e forse anco a la moglie averebbe fatto uno strano scherzo. La gentildonna, che in conto alcuno disposta non era d’amare Simpliciano né far cosa che egli si volesse, averia volentieri voluto che da se stesso egli si fosse ritratto da la mal cominciata impresa; ma ella cantava a’ sordi, perciò che in luogo alcuno comparir non poteva che l’amante non ci fosse. Se in chiesa andava, egli la seguitava; se sola in carretta od in compagnia d’altre gentildonne per la cittá andava a diporto, egli dietro le era; di modo che chi orbo non era, avvedere di leggero si poteva da qual tarantola Simpliciano fosse morso. Veggendo la gentildonna questo fastidioso fistolo andar di male in peggio, ed avendo dubio che per altra via non pervenisse a l’orecchie del marito, deliberò d’esser quella che la trama del giovine innamorato gli manifestasse; onde una notte in letto, con lui di varie cose parlando, cosí gli disse: – Marito mio caro, io vi vo’ dire una cosa che mi pare di non poca importanza, ma vi piacerá prima di darmi la fede vostra di proveder a quanto vi dirò senza venir a l’arme, perciò che io mi do a credere che facilmente senza scandalo saperete e potrete dargli oportuno rimedio. – Promise il marito di fare quanto ella voleva. Il perché madonna Penelope, – ché cosí nominaremo la donna, – fattasi da capo, narrò puntalmente al marito l’amoraccio di ser Simpliciano. Come egli ebbe intesa questa istoria, tra sé subito pensò il rimedio che far voleva, e lo disse ridendo a la moglie; e le impose che come prima vedeva l’amante, cominciasse a dar principio a la comedia. Madonna Penelope, lieta d’aver trovato il marito in buona disposizione, parendole che la cosa riuscirebbe in riso senza spargimento di sangue, e che non si verrebbe a pericoli d’esser bandito e perder i beni, come il dí seguente, essendo a la finestra, vide per la contrada passar l’amante, cosí contra il suo consueto cominciò a fargli un buon viso e mostrò di vederlo volentieri. Simpliciano, che mai sí buona vista da la donna ricevuta non aveva, cominciò per gioia a gongolare e non capeva ne la pelle; onde, data una volta, ritornò di nuovo ne la contrada. Il che avendosi madonna Penelope imaginato, scese a basso e andò in porta. Come il giovine la vide, arrivato ove ella era, amorevolmente la salutò. Ella tutta ridente lo risalutò e gli disse che per cento mila volte egli fosse il ben venuto. Stava il buon Simpliciano tutto fuor di sé e non sapeva formar parola, fisamente la sua donna guardando in viso. Ella alora, tratto un gran sospiro, in questa guisa gli parlò: – Io porto ferma openione, signor mio dolcissimo, che voi molte volte vi debbiate esser meravigliato di me ed insiememente doluto de la mia poca amorevolezza verso voi per lo passato usata; ma spero, quando da voi le mie ragioni saranno intese, che appo voi troverò perdono, essendo quel gentile, costumato e grazioso giovine che sète. Se per a dietro mi vi sono mostrata ritrosa ed ho fatto sembiante di non istimare né gradir il vostro amore, questo non è giá proceduto da poco amore che in me fosse, non essendo il mio in conto alcuno minor del vostro; ché io so bene come ardo, vinta da la vostra bellezza e dai vostri modi gentili, e quanta passione e tormenti ho sofferti e soffro tuttavia per l’amor immenso che vi porto. Ma, signor mio, due cagioni sforzata m’hanno che io chiusamente ardessi e non scoprissi di fuori via il mio fervente amore. Prima per dubio che il signor mio consorte non se n’accorgesse, perciò che se egli avesse una minima mala sospezione de la mia onestá, io son certissima che senza rispetto veruno m’ancideria ed io restarei la piú vituperata femina che fosse giá mai. Ed anche voi mettereste la vita vostra sovra il tavoliero a periglio grandissimo, ché devete pur conoscere l’uomo che egli è. Mi sono anco mostrata agli amorosi vostri desiderii renitente, dubitando che voi non faceste come il piú dei giovini fanno, che fingono fervidissimamente amare e, come hanno goduto de l’amor loro, non solamente abbandonano le ingannate donne, ma si vanno gloriando, e con questi e quelli vantando di ciò che hanno fatto, e talora dicono assai piú del vero, parendo loro di trionfare se le innamorate che hanno metteno in bocca al volgo. Questi rispetti adunque mi sono stati un freno che finora m’ha ritenuta ed hammi vietato che io potessi con effetto mostrarvi quanto v’amo e quanto desidero farvi cosa grata. Ma a la fine, vinta e superata da l’ardore che mi abbruscia, e stimolata da la grandezza de l’amore che io vi porto, non gli ho potuto far piú resistenza, e sono sforzata di condescendere a compiacer agli appetiti vostri. Ben vi prego affettuosissimamente che due cose ne seguano: l’una, che le cose cosí segretamente si facciano che nessuno lo sappia giá mai, e sovra tutti il signor mio consorte; l’altra, che voi deliberiate esser sempre mio, come io mi confido, perché tal mi pare la gentilezza vostra che voi non m’abbandonarete per qual altra donna che si sia. Ché se io altrimenti credessi, non pensate giá che io volessi cominciar questa amorosa impresa, per restar poi da voi ingannata. Io v’amo per amarvi sempre, e ne le braccia vostre mi metto e vi raccomando la vita mia e il mio onore. A voi sta, che uomo sète, l’aver cura de l’una e de l’altro. – Il buon Simpliciano al dolce ragionamento de la sua donna era tutto pieno di dolcissima gioia, ed attuffato restava in un mare di contentezza, di modo che non sapeva che risponder dovesse. Pure a la fine tanto in se stesso si raccolse che, a la meglio che puoté e seppe, con semplici parole il ringraziò, e le giurò mille volte che mai non l’abbandoneria, ma che le resteria eternamente servidore. Le domandò poi quando sarebbe che insieme esser potessero, assicurandola che di nessuno si fidarebbe, ma che ove ella volesse, di notte e di giorno sola si ritroveria. La donna a questo rispose che mentre che suo marito fosse in Milano, non ci sarebbe ordine a ritrovarsi insieme, sí per il marito, che era troppo avveduto, ed altresí per la molta famiglia che seco dimorava; ma come egli andasse fuori in contado a la caccia o per altri bisogni, che vederebbe di trovar modo che potessero di notte esser insieme, e che glielo faria intendere. Rimase il buon giovine con questa conchiusione e da la donna si partí, non attendendo altro se non che il marito di lei andasse fuor de la cittá, ed ogni ora che tardava ad andarvi gli pareva un anno. Tutto il dí adunque piú e piú volte passava per la contrada, per veder se madonna Penelope gli dava segno alcuno. Egli era tanto ebro de la gioia de la promissione che ella fatta gli aveva, che non trovava luogo che lo tenesse, e per Milano ora a piede ora a cavallo andava come smemorato e proprio pareva che fosse incantato; ed ogni volta che in porta trovava la donna, sempre la sollecitava di ritrovar la commoditá d’esser insieme. Madonna Penelope, a cui punto non piaceva questa pratica, disse al marito un giorno, essendo tutti dui insieme: – Voi m’avete fatto entrar nel pecoreccio de le ciancie con il veramente semplice Simpliciano, che ogni ora mi rompe il capo. Io vorrei che voi mi levaste questa seccaggine da le spalle e metteste fine a cotesta pratica. – Or via, – disse il marito, – lasciate far a me, che vi farò ridere. – Avevano in casa una donna attempata che si chiamava Togna, la quale era di circa sessanta anni e lavava in cucina le scudelle ed altri vasi, e nodriva alquanti porci e le galline, e sempre era unta e bisunta, e putiva da ogni canto come fanno i solfarini. Aveva l’unghie che parevano quelle di Lanfusa madre di Ferraú, con tanto grasso e mal nette sotto che averebbe ingrassata una caldaia di cavoli. Era poi guercia da un occhio, con la tigna in capo, e l’altro occhio di continovo gli colava, e sempre la bocca era bavosa, con un fiato puzzolente sovra modo, di maniera che la Ciutaccia con cui giacque il proposto di Fiesole era sette mila volte men brutta. Questa eletta fu per druda di Simpliciano. Chiamatala adunque a sé, il padrone de la casa le disse: – Togna, io vo’ porti dimane di notte con un bellissimo giovine, e voglio che a lui ti lasci maneggiare e far tutto quello che vorrá; ma guarda non parlar mai. – Promise ella di far il tutto, ed il padrone le disse che la vestiria di nuovo. Il dí seguente le fece far un bagno e le mise a torno due fantesche, che da capo a piedi tutta la stropicciarono e lavarono benissimo, e le tagliarono l’unghie de le mani. Il marito di madonna Penelope dopo desinare diede la voce d’andar a caccia, e, a cavallo montato, andò fuor di Milano. Madonna Penelope si mise subito in porta, né guari vi stette che Simpliciano comparse e la salutò. Ella alora gli disse: – Signor del mio core, voi sète venuto a tempo: mio marito è andato fuori e non ritornerá questi dui dí. Voi questa sera tra le cinque e sei ore ve ne verrete qui, ove troverete questa porta aperta; spingetela soavemente e fermatevi tra la pusterla e la porta. Io ci sarò, ma non parlate né fate romore, ché io farò il medesimo, perciò che ci sono restati molti de la famiglia che non sono iti fuori. – Dato questo ordine, la donna entrò in casa, e Simpliciano tutto gioioso andò a mettersi ad ordine per comparir galante cavaliero su la giostra. Come fu notte, il marito di madonna Penelope ritornò in Milano ed entrò in casa, ove fece vestir la Togna con sottana di tela d’oro ed una veste sopra di damasco cremesino, con cuffia d’oro in testa ed altri ornamenti a torno, che proprio pareva una bertuccia vestita; e di nuovo l’ammaestrò e la fece metter tra la porta e la pusterla sua, ché quasi tutte le buone case de la cittá ne l’andito hanno prima la porta verso la strada e la pusterla dapoi verso la casa. Se ne stavano il marito e la moglie con altri di casa con grandissimo silenzio ne l’andito presso a la pusterla, per sentir tutto ciò che Simpliciano farebbe con la Togna, la quale, tutta alor sola, era tra le due porte. E sapendo che deveva esser tosto nuova sposa, se ne stava molto lieta. Simpliciano poi, per mostrarsi bene valoroso cavaliero, come fu da la sua donna partito, andò a casa e con buona vernaccia fumosa e pistachea ed altri preziosi confetti si rinfrescò. Dapoi questo, fatto ben profumare una camiscia di bucato, tutta bella e lavorata d’oro e di seta, se la mise indosso, e tutto da capo fin a’ piedi si profumò con composizione di zibetto, ambra fina e muschio; e cosí profumate le vestimenta parte con la detta composizione e parte con augelletti di Cipro ed altre buone polveri odorifere e preziose, tutto d’ogn’intorno spargeva assai buon odore. Vestito e messosi ad ordine, con piú desiosa voglia aspettava la dessignata ora che non aspettano i giudei il Messia. Cento volte l’ora si levava da sedere e mirava se il sole s’affrettava a correr verso l’occaso. Ogni atomo e punto di tempo gli pareva pure troppo lungo, e malediceva Febo che non isferzasse i suoi cavalli. Venne la notte, e quelle cinque ore che ancora aspettar deveva gli parevano piú d’un anno. E pensando di deversi trovar con la sua cara amante, diceva tra sé: – Qual fu mai di me piú fortunato e piú aventuroso innamorato? Io debbo pur questa notte esser con la mia signora, la quale di bellezza e leggiadria non ha pariglia in questo mondo. E qual è gentiluomo dentro Milano che meco parangonar si possa? O me beato! o me felice! – E farneticando tra sé e mille pappolate dicendo, sentí toccar le cinque ore. Il perché, avendo indosso un giuppone di raso morello ricamato con cordoni d’oro, prese una rotella e la spada, e andò verso la casa di madonna Penelope, e spinta soavemente la porta, essendo chiarissima la luna, vide a quel birlume la Togna starsi aspettando. E creduto fermamente che fosse la sua diva, risospinta la porta, se le avvicinò e le gettò le braccia al collo ed amorosamente in bocca la basciò. Ben si può dire che in lui faceva l’imaginazione il caso: aveva la Togna duo labroni grossi da schiava, e il fiato fieramente le putiva; nondimeno a l’innamorato Simpliciano parve la piú delicata bocca e i piú dolci labri e il piú soave fiato che trovar si potesse, e non si poteva saziar di basciare e ribasciare senza fine. Sentendo poi che roba a dosso gli cresceva, pose la Togna suso una panchetta che a caso v’era, ed entrò gagliardamente in possessione di quei beni che tanto credeva aver desiderato. Né contento d’aver fatto tre arringhi, corse il quarto e il quinto. Messosi poi a scherzar con la Togna, le basciava il petto e le poppe lunghe e grosse e le ruvide e corte e gonfie mani, tuttavia imaginandosi di basciar madonna Penelope. E in bassissima voce le diceva: – Vita mia cara, quando sará mai che possiamo liberamente esser insieme? Non volete voi alcuna cosa da me? Pigliate questo rubino, prendete questa catena e queste maniglie per memoria del nostro amore. – La Togna, nulla dicendo, faceva pur cenno di non voler quei doni. A la fine, stimolandola il fervido amante, perché era la Togna molto balbuziente, balbettando gli disse che le comprasse un pettine d’osso per pettinar le lendini. A queste interrotte parole conobbe il misero Simpliciano con cui giaciuto si fosse, ed aperta la porta per meglio chiarirsi, aiutato da lo splendor de la luna, vide manifestamente quella esser la Togna. Onde disperato, presa la sua rotella e la spada, se ne fuggí via. Madonna Penelope ed il marito, sentendo colui andarsene, apersero la pusterla, e il marito disse: – Poi che Simpliciano da sé s’è sgannato, non accade a far altro. – Simpliciano poi mai piú non passò per la contrada, e se per Milano vedeva madonna Penelope andar ad una banda, egli si voltava ad un’altra e quella fuggiva come il morbo. Cosí adunque senza spargimento di sangue madonna Penelope si levò, col conseglio del saggio marito, la seccaggine del giovine da le spalle.
Il Bandello al magnifico messer Girolamo Aieroldo
maestro di stalla del serenissimo re di Navarra
Quel dí medesimo che voi questo carnevale da noi partiste, dopo che si fu desinato, s’entrò a ragionare di quegli avvenimenti che talora impensatamente e fuor d’ogni intenzione accadeno, volendo alcuni la cagione di questo investigare. Chi diceva la fortuna e il caso esser la causa di cotali effetti. Altri in contrario affermavano non ci esser né fortuna né caso, ma cotali nomi esser stata invenzione d’uomini che negano la providenza di Dio e non vogliono che egli s’intrometta in queste azioni umane, misurando l’infinito poter divino con erroneo giudizio. Altri contendevano la fortuna e il caso prender da la providenza divina le cause loro. Ci fu chi disse che quegli effetti [che] per l’ordinario d’un medesimo tenore sempre si veggiono succedere o che il piú de le volte tali divengono, non aver dipendenza alcuna né da fortuna né da caso. Che ordinariamente la notte succeda al dí e il giorno a la notte, e che in oriente si levi il sole e verso occidente conduca il suo aurato carro e quivi si corchi, in questo la fortuna non ha che fare e meno il caso. Che poi il piú de le volte l’uomo dopo l’etá giovinile comincia a cangiar pelo e di nero e biondo che l’avesse se gli veggia divenir bianco, di ciò né il caso né la fortuna si prende cura, e la cagione assai è nota. Perciò dicevano alcuni che in quelle cose che fuor del pensamento nostro ci avvengono, come è che io mi parta di casa per andar a visitar un amico mio e caminando ritrovi una borsa piena di ducati, o mi sia a l’improviso presentata una ricca badia non l’aspettando io; dicevano, dico, costoro che in questi avvenimenti pare che la fortuna e il caso abbiano alcuna giurisdizione. E questi tali a cui avvengono queste cose, chiamiamo noi «fortunati» e «aventurosi», con ciò sia che trovar danari od esser assunto a dignitá ecclesiastica non si può attribuire a necessitá né a consuetudine, ma sí bene a fortuna o a caso, che sono cagioni «per accidente» in quegli effetti, che non semplicemente né il piú de le volte sogliono avvenire. Ci è ben poi differenza tra il caso e la fortuna, perciò che il caso a piú effetti assai distende le sue ali che non fa la fortuna. Onde ragionevolmente si può dire che tutto quello che da la fortuna proviene, altresí dal caso provenga; ma non giá diremo che la fortuna in cose pur assai che a caso provengono abbia parte alcuna. Ma perché di questi casuali avvenimenti e fortunevoli ed altri simili effetti, nei ragionamenti che si fecero a Milano in nove giornate a la presenza de la sempre onorata ed acerba memoria de la illustrissima eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, assai a lungo ne scrissi, per ora mi rimarrò di farne piú lungo parlare. Ragionandosi adunque, come v’ho detto, di cotali avvenimenti, e andando il tenzionare piú in lungo che ad alcuni non parve che si convenisse, il nostro piacevole messer Filippo Baldo si pose in mezzo, e con quella sua effabilitá pose a ciò che si tenzionava silenzio, e ci narrò una festevol novella ne la vostra e sua patria Milano avvenuta. Ed avendola io scritta, a voi la mando e ve la dono, a ciò resti appo voi per testimonio de la nostra scambievole benevoglienza.