Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XII

Seconda parte
Novella XII

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Il marito trovata la moglie in adulterio fa che impicca l’adultero


e quella fa sempre in quella camera restare ove l’amante era impiccato.


Avete veduto, valoroso signore, esser quasi general costume di tutti i gentiluomini nostri di Piemonte lasciar le cittá e le grosse terre ed abitar a le lor castella di che il paese è molto pieno, perciò che pochi gentiluomini vi si trovano che non abbiano o in campagna o per questi fruttiferi colli e ne l’amenissime ed abbondanti valli che molte ci sono, qualche castello. E se voi, signor mio, fossi venuto in questo paese prima che la guerra si facesse, avereste veduto tanta nobiltá e tanti bei luoghi e tanta fertilitá ed abbondanza e delicatezza del vivere, che forse forse in tutta Italia non è contrada che sormonti questa parte. Taccio la domestichezza del conversar insieme e le tante cortesie che in tutti i luoghi di Piemonte ai forestieri s’usavano, che certo era cosa mirabile a vedere. Ora la guerra ha guasto il tutto, e tutte le belle e buone consuetudini si son poste da canto. Si spera perciò che tra il gran re cristianissimo e monsignor il duca di Savoia debbia succeder buona pace, il che seguendo, potrebbe anco tornar il nostro paese com’era prima. Ora per dir quanto di narrarvi ho promesso, dico che nel tempo che madama Margarita d’Austria figliuola di Massimigliano Cesare venne in Savoia a marito, fu in una parte di Piemonte un nobile e valoroso gentiluomo il cui nome mi taccio, il quale castella e vassalli aveva sotto di sé, e la piú parte del tempo dimorava in corte, perciò che egli era uomo di gran conseglio e vedere, e il duca faceva non picciola stima di lui. Egli aveva preso per moglie una gentildonna del paese, la quale ben che non fosse la piú bella del mondo, era nondimeno assai appariscente e poteva fra l’altre stare. E in quello che mancava di bellezza ella suppliva con la vivacitá d’ingegno, con bei costumi, con leggiadri modi, con accoglienze gratissime, con la prontezza de le parole e con mille altre belle maniere. Era poi avvista e scaltrita pur assai e quella che vestiva meglio che donna di Piemonte, non tanto in portar ricche vestimenta di che era copiosa e ben fornita, quanto che sapeva troppo ben accomodar ogni abbigliamento ancor che di panno vile fosse stato. Il marito che era uomo grave e da bene, sommamente l’amava e teneva cara. Aveva giá avuti dui figliuoli da lei che erano assai grandicelli. Egli era pur vicino ai sessantatré anni e forse gli passava, e la moglie poteva averne circa trentacinque; onde non contenta degli abbracciamenti del marito ed avendone gran carestia, perché il piú del tempo egli stava ove era il duca che il piú de l’anno dimorava in Savoia, gittò gli occhi a dosso ad un giovine vassallo del marito e di lui fieramente s’innamorò. Praticava costui tutto il dí dentro il castello ove la donna dimorava, e seco a scacchi, a tavola e talora a le carte giocava e molto domesticamente di giorno e notte soleva andarvi. Il marito che niente aveva del geloso, quando era con la moglie, a cosa che ella si facesse non metteva mente, e tanto piú quanto che, come sapete, in queste nostre bande usano le nostre donne grandissima domestichezza con gli uomini in ogni luogo, e il basciare le nostre mogli a la presenza nostra non si disdice anzi è lecito ed onesto, perciò che se un gentiluomo viene a casa nostra, riputaremo che ne facesse ingiuria quando non degnasse basciar moglie e figliuole e sorelle e quante donne sono in casa, le quali basciando teniamo per favor grandissimo. Cosí per l’ordinario se vediamo le nostre donne parlar con uno di segreto, non le garriamo né è reputato male, come tra voi lombardi subito sarebbe preso in mala parte, perciò che tale è la costuma del paese. Praticando, come è detto, il giovine molto famigliarmente con la donna, di leggero s’accorse che ella era di lui oltra misura accesa. E reputandosi non poca ventura esser da cosí gentile ed alta donna amato, col petto aperto, senza considerar il danno che avvenir gliene poteva, ricevette le amorose fiamme e cominciò ferventemente amarla; onde non passarono molti dí che amandosi tutti dui, si discoprirono insieme i lor amori. Né dopo questo stettero molto che essendo le lor voglie piegate ad un medesimo fine, vennero a le strette pratiche, e tanto innanzi s’assicurarono che presero l’uno e l’altro amorosamente il frutto del lor amore. Il che tanto a tutti dui fu di piacere che altro piú non desiavano che ritrovarsi spesse fiate insieme. E fu loro la fortuna cosí favorevole che gli venne fatto di ritrovarsi bene spesso a goder l’un l’altro. Ma meno discretamente usando questa loro domestichezza e da troppo amor accecati, cominciarono a prender troppa sicurtá dei servidori di casa e far de le cose in publico che non stavano troppo bene. Da questo nacque che molti di casa entrarono in sospetto di questa pratica e tennero per fermo che la madonna fosse del giovine divenuta amica e seco amorosamente si trastullasse, ben che nessuno ardisse di dirle parola e meno erano osi d’avvisar il marito, il quale de la moglie troppo fidandosi non averebbe a persona creduto che ella avesse mai fatto tanto fallo. Ora avvenne che essendo il marito venuto di Savoia a casa nel principio del mese di luglio, che egli un giorno si mise ad una finestra de la sua camera che guardava sovra un bellissimo giardino che era fuor de la ròcca. La donna col suo amante di poco avanti cena se n’andò nel giardino per lo sportello del soccorso, e quivi sotto un pergolato seco passeggiando, non credendo esser da persona visti, piú volte amorosamente lo basciò, e il giovine due e tre fiate le pose le mani in seno toccandole amorosamente le poppe e seco lascivamente senza rispetto veruno scherzando. Vide il marito da la finestra tutti quegli atti disonesti e fieramente se ne turbò, entrando in còlera grandissima; ma come quello che era prudentissimo, dissimulò lo sdegno che aveva, deliberando tra se stesso, come proverbialmente si dice, di pigliar la lepre col carro. Onde essendo le tavole messe e la cena ad ordine, cenò di compagnia, mostrandosi piú de l’usato allegro e di molte carezze al giovine facendo; e il tutto egli faceva per meglio chiarirsi del disonesto amore de la sua donna. Cominciò adunque diligentemente gli atti loro, i cenni, le parole ed ogni movimento ad osservare, e a tutto ciò che facevano por gli occhi e spiar ogni lor azione, onde senza troppa difficultá s’avvide che la moglie ad altro papero che al suo dava da beccare. Nondimeno egli fu cosí costante e sí saggiamente si governò che nulla mai di questo a la moglie disse né al giovine mostrò tristo viso giá mai; anzi come soleva far per innanzi perseverava, a ciò che piú gli assicurasse e gli potesse cogliere sul fatto. Il perché gli amanti non pensando essere spiati, andavano dietro a buon giuoco ai lor amori, ma per esser in casa il padrone, con grandissima difficultá potevano sfogar amorosamente i lor disiri. Ora avvenne, del mese di settembre, che il duca di Savoia si ritrovò in Turino e per alcuni affari mandò a chiamar il marito di cotesta donna. Egli alora si pensò esser venuta l’occasione di coglier a l’improviso il gallo e la gallina su l’ova. Ordinò adunque che tutta la famiglia il dí seguente montasse a cavallo e andasse a la volta di Turino, ed egli solamente seco ritenne un suo cancegliero di cui molto si fidava. Domandato da la donna a che fine egli facesse questo, cosí le disse: – Moglie mia, io vo’ che domatina a buon’ora tutti si partano e vadano verso la corte. Io starò qui per tutto dimane, e dopo cena col cancegliero me n’anderò in posta che giá ho fatto proveder di cavalli, ché ancora che siamo di settembre a me pare che il giorno faccia grandissimo caldo. Noi correremo la notte che luce la luna e non sentiremo caldo nessuno. – La povera moglie che altro inganno né malizia non pensava, gli lodò molto questo suo pensiero e da l’altra banda diede ordine al suo amante che quella notte l’attenderebbe; il che a l’amante sommamente fu caro, essendo giá molti dí che con la sua donna non era giaciuto. Cenarono tutti di brigata sul tardi. Egli dopo cena chiamata la moglie l’ordinò molte cose che ella facesse fare, mostrando che starebbe qualche giorno che non tornarebbe, e per meglio assicurar il tutto, diede anco alquante commissioni al giovine amante de la moglie. Cominciando poi ad imbrunirsi la notte, montò a cavallo col cancegliero, e non cavalcò un miglio che si fermò ad un suo luogo ove aveva una bellissima possessione, e quivi stette circa due ore. Dapoi rimontato a cavallo se ne ritornò al suo castello, che potevano essere circa le quattr’ore di notte, e fu dal castellano a cui egli la commissione segretissimamente lasciata aveva, dentro senza romore intromesso. Fatto questo, fe’ chetamente, avendo giá al tutto fatta la conveniente provigione, armar il castellano e il cancegliero, e con la spada in mano se n’andò verso la camera ov’era la moglie. Aveva ne la mano sinistra il cancegliero un torchietto acceso. Giunti a la camera, fece che il castellano picchiò a l’uscio e disse che erano venute lettere del padrone. Fece la donna levar de la lettiera da basso una vecchia che era consapevole del tutto, e le disse che non lasciasse entrar il castellano, ma che si facesse dar le lettere. Venne la donna ed aperse l’uscio, a la quale fingendo sporger le lettere, il castellano diede con le mani nel petto e quella riversone fece cadere. In questo tutti tre con le spade nude entrarono in camera e trovarono gli infelici amanti nudi nel letto, che avevano giocato a le braccia, e a la donna per esser debole di calcagna era toccato lo star di sotto. Furono tutti dui subito presi e la cameriera anco ella fu pigliata. Pensi ciascuno di che animo devevano esser i tre prigionieri trovati in simil fallo: essi non ardirono mai dir parola. Comandò il signor del luogo che si recasse una fune e volle che la misera moglie ad un chiodo che in una trave era lungo e grosso, impiccasse il suo amante. Fatto portar una scala, prese la donna la fune e quella, piangendo amarissimamente, al collo de l’amante annodò e salita su la scala ed al grosso chiodo quella attaccata, il povero e sfortunato amante strangolò. Fece poi levar di camera tutte quelle cose che dentro v’erano, e solamente in un cantone fe’ lasciar tanta paglia quanta a pena sarebbe bastata a dui cani per corcarsi. Poi disse a la moglie: – Donna, da che a l’onor mio e tuo non hai avuto riguardo ed hai un mio soggetto piú di me amato, io vo’ che di continovo con lui dimori e che teco questa rea vecchia ruffiana se ne stia. Il perché fuor di questo luogo mai piú non uscirai. – Né furono le parole vane. Egli fece di modo con crate di ferro conciar la finestra che impossibile era uscirne; poi fece murar l’uscio e vi lasciò solo un picciolo buco per il quale a le povere donne faceva dar pane ed acqua e non altro, lasciando la cura al castellano del tutto. Le sciagurate donne amaramente il lor fallo piangendo, chiuse restarono, ove guari non stettero che cominciando l’impiccato a putire, si sentiva cosí gran puzzo che tutto il mondo si sarebbe ammorbato. Or qual fusse la vita de la gentildonna pensilo ciascuno. Ella era del suo amante stata manigolda e quel fiero spettacolo dinanzi agli occhi mai sempre si vedeva, e giorno e notte l’intolerabil puzzo che da le marcite membra del giovine usciva, era astretta a soffrire. In questa cosí misera vita stette ella forse sei anni insieme con la sua vecchia. Infermandosi poi gravemente, il marito tutte due le fece cavar fuori e in una camera porre ove in breve la gentildonna morí. Ed il signore andar lasciò la vecchia ove piú le piacque.


Il Bandello al molto illustre e valoroso signore


il signor conte Guido Rangone


del re cristianissimo luogotenente generale in italia


e cavaliero de l’ordine di san Michele


La crudeltá piú che barbara e ferina che questi giorni ne la presa di Carraglio usò Francesco Monsignore dei marchesi di Saluzzo, fu tale e tanta, quale e quanta non fu forse tra soldati cristiani usata giá mai. Che se nel combattere in compagnia od in espugnar una terra o fortezza che si sia, in quel furore de l’entrar dentro, ciascuno che incontrato viene si svena ed è senza rispetto veruno morto, questo par che sia usanza generale de la milizia. Ma cessato quel furore del menar le mani, chi è sí fiero nemico che incrudelisca nei corpi morti o che quelli seppellire divieti? Per l’ordinario anco a chi per prigione si rende, suole la vita esser donata ed al reso è lecito con danari ricuperar la sua prigionia. E questo fin qui in queste guerre s’è di continovo osservato cosí dai nostri regii come dai cesarei. Ora, che che ne sia stato cagione, Francesco Monsignore il tutto ha pervertito, e guerreggiato di maniera che se a la futura posteritá sará narrata, non troverá fede d’essere creduta, tanto parrá lor strana e crudele. Era in Carraglio il capitano Zagaglia ariminese, il quale prima a le mura si diportò molto valorosamente ed uccise molti dei nemici di sua mano. Veggendo lo sforzo e numero grande degli imperiali, di cui era capo Francesco Monsignore, si ritirò a la piazza sempre combattendo; e non solamente aveva da combattere con i nemici, ma con gli uomini ancora de la terra, perciò che i carragliesi, oltra l’aver introdutti i nemici dentro, tutti con mano armata s’unirono a morte e distruzione dei nostri. Il Zagaglia adunque, dopo l’essersi lungamente diffeso e morti di sua mano degli avversarii piú di sessanta, a la fine avendo molte ferite di picca e di saette, mancandogli il sangue, nel mezzo dei morti nemici, non potendo piú sostenersi, si lasciò valorosamente con la sua spada in mano e con la rotella al braccio andar in terra, e quivi fu da la moltitudine dei combattenti oppresso. Tutti gli altri soldati combattendo furono morti, perché Francesco Monsignore sotto pena de la vita comandò che nessuno si pigliasse prigione. Alcuni, ben che pochi, si salvarono per beneficio de la notte. Il giorno seguente parlandosi del combattere che s’era fatto e lodando molto il valore e fortezza del Zagaglia, Francesco Monsignore fece ricercar il corpo morto, ed avutolo dinanzi a sé, in luogo di fargli dar sepoltura, come onoratamente fece Annibale a Marcello, non so da che maligno spirito preso, crudelissimamente gli fece cavar il core e darlo ai cani, né volle che fosse sepellito. Né altro sapeva dire se non che il Zagaglia gli aveva ammazzato, senza il numero degli altri, otto o nove dei migliori soldati che avesse. Fu appresso il cartaginese, perpetuo e crudelissimo nemico dei romani, la vertú del romano Marcello in prezzo: non guardò Annibale che Marcello piú volte l’avesse superato e fattogli morire migliaia e migliaia di soldati, del quale giá aveva detto che né vittore né vitto sapeva riposare, ché trovato il corpo suo, con debito onore gli fe’ dar convenevol sepoltura. E ai giorni nostri in Italia s’è trovato un prencipe italiano che ad un fortissimo soldato italiano, che onoratamente aveva mostrato il suo valore e con l’arme in mano da par suo era morto, non solamente non ha voluto lasciarlo seppellire, ma gli ha, cosí morto com’era, fatto cavar il core? Ma dove egli si credeva il Zagaglia disonorare, se stesso ha meravigliosamente disonorato, perciò che ovunque la morte del Zagaglia sará narrata, tutto ’l mondo come merita lo loderá, ed insiememente sará astretto la crudeltá di Francesco Monsignor biasimare, e crudelissimo e barbaro nominarlo. E di giá nel campo cesareo tutti i grandi e i piccioli abborriscono questo fatto, ed in privato e publico dicono che è stata cosa indegna d’un signore e che non starebbe mai bene ad alcuno a farla. Il medesimo diceste voi questi dí, signor mio, essendo a la presenza vostra molti capitani e soldati, e di piú aggiungeste che se nessuno dei vostri usasse una sí fatta crudeltá, che voi accerbissimamente ne lo castigareste. Era quivi Ferrando da Otranto, il quale aveva praticato lungo tempo a Constantinopoli e sapeva cose assai de le pratiche dei turchi. Egli veggendo che si parlava di crudeltá e da quella di Carraglio si passava a dir de l’altre usate in altri luoghi da diverse persone, narrò di Maometto imperador de’ turchi molti atti crudelissimamente da lui usati contra i fratelli, nipoti ed altri, i quali fecero senza fine meravigliare chiunque gli udí. Voi alora, signor mio, mi diceste che io quanto Ferrando narrato aveva devessi scrivere; il che avendo fatto, a voi lo dono. Ed ancor che il dono sia picciolo, voi risguardarete non a quello, ma a l’animo mio, sapendo quanto io vi son servidore e quanto desidero rendermi grato di tanti beni da voi ricevuti. State sano.