Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella L
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Novella L
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Arnaldo trombetta perde quanto ha a primiera,
e al correr de l’anello guadagna assai piú e si rimette in arnese.
Per esser il tempo del carnevale, che, come piú volte ho detto, suole per l’ordinario gioiosamente in feste e piaceri dispensarsi, e veggiamo tutte le sorti degli uomini piú del solito allegramente trastullarsi, non reputo che a noi altri sia disdicevole il ricrearsi con piacevoli ragionamenti. Io v’ho questi dí narrate alcune novelle, per la maggior parte a la presenza di madama e de le sue damigelle. Ora che ella non ci può essere, per trovarsi in affari di grandissima importanza occupata, noi che nel giardino siamo, diportandoci sotto questi pergolati, logoraremo questa breve ora passeggiando e ragionando. Ché se al gran filosofo Aristotele e ai sagaci suoi peripatetici non pareva disconvenevole, passeggiando, di filosofare e disputar questioni altissime e profonde de le cose de la natura, meno deve esser disdetto a noi, ragionando di cose festevoli e da far rider Saturno che mai non ride. Dicovi adunque che, le guerre di Lombardia guerreggiate sotto il governo del signor Prospero Colonna d’onorata memoria, si fece una tregua per molti mesi; onde Arnaldo francese, che era trombetta d’esso signor Prospero, domandò congedo per alcuni dí per andar in Francia a casa sua, e graziosamente gli fu concesso. Egli aveva sí ben fatti i casi suoi che si trovava piú di seicento ducati d’oro, i quali deliberava portar a casa e comperarsi un poderetto, con speranza di guadagnarne degli altri a la giornata, e cosí crescer i suoi beni, per poter poi riposare ne la vecchiezza. Avuta licenza e montato a cavallo, cominciò a buone giornate a seguir il camino verso Francia, e, passate l’Alpi e la Savoia, andar a la volta de la cittá di Parigi. Era costui d’un villaggio che è di lá da Parigi tre o quattro leghe verso Normandia. Pervenuto adunque presso a Parigi ad una buona osteria, dismontò a disinare. Erano poco innanzi quivi albergati alcuni gentiluomini e giá desinavano. Smontato il trombetta, e fatto metter il cavallo ne la stalla e ben curare, fu messo in una camera e datogli da desinare. Egli era un bel compagno, molto ben vestito, con gasacca di velluto e con la berretta ricca di puntali d’oro e d’una preziosa medaglia. Aveva anco al collo una catena d’oro di settanta in ottanta scudi, con ricchi anelli ne le mani. Come ebbe desinato, si mise andare per l’osteria e vide i gentiluomini sovradetti, che in camera ove desinato avevano giocavano una grossa primiera. Era Arnaldo assai piú vago del gioco che le gatte dei topi; il perché, salutati con riverenza i giocatori, s’accostò a vedergli giocare. Non stette guari a vedere che si fece un resto di forse cento scudi, nel quale uno aveva arrischiato tutti i danari che dinanzi aveva. Questi, perduta la posta, si levò dal gioco dicendo di non voler piú giocare. Il trombetta alora, messa la mano a la berretta, disse: – Signori, quando non vi dispiaccia, io giocherò volentieri venticinque scudi. – Siate il ben venuto, – risposero coloro. – Sedete. – Arnaldo, assiso, cacciò mano a la borsa e cavò fuor venticinque scudi e cominciò a giocare. Vinceva ora una posta, ora un’altra ne perdeva. Come poi cominciò a riscaldarsi su il gioco, tratto tratto faceva del resto, e per lo piú de le volte perdeva. E di modo tanto strabocchevolmente giocava, che in poco d’ora perdé la somma di piú di seicento scudi; né gli bastando questo, si giocò tutti i panni, la berretta, la catena, gli anelli ed il ronzino, e restò un bel fante a piede, in colletto, con la tromba a le spalle, la quale non vi saperei ben dire come gli rimanesse: se fu che egli per riverenza de l’insegna giocar non la volesse, o pure che i giocatori non le volessero dir sopra. Sia come si voglia, egli si trovò il piú disperato uomo del mondo e non sapeva ciò che farsi. A la fine pur si mise a caminar a piede, e a buon’ora, ché era di state, arrivò a Parigi. Era altre volte dimorato per molti dí esso Arnaldo in un albergo dentro Parigi, ove aveva avuta amorosa pratica con una giovane assai bella che lá entro era servente de l’oste. Colá adunque inviatosi, e inteso che la giovane piú non ci dimorava, ma che serviva la moglie d’un grosso mercadante, l’andò a cercare; e trovatala ed insieme riconosciutisi, la giovane lo vide molto volentieri ed amorevolmente lo raccolse. Arnaldo le diede ad intendere che era stato svaligiato da certi malandrini, che gli avevano levato il valore di circa mille scudi, e che buon mercato avuto n’aveva che non l’avessero anciso. Mossa la giovane a pietá, lo introdusse in casa e lo mise in una guardacamera, dove gli portò molto bene da cena e gli fece molte carezze; e piú di due volte amorosamente insieme si trastullarono. Era la padrona, come v’ho detto, moglie d’un gran mercadante, il quale in quel tempo era per suoi traffichi ito in Fiandra; e la buona donna per non perder la sua giovanezza, essendo molto bella, s’aveva eletto per innamorato un giovine mercadante fiorentino molto ricco e splendido, col quale ella, mentre il marito stava fuor di Parigi, si dava il meglior tempo del mondo, e trafficava forte a cacciar il diavolo ne l’inferno. Aveva commesso la donna a la servente che avesse cura di preparar in camera del confetto, de le frutte secondo la stagione e del buon vino, perché l’amante suo quella sera doveva venire a giacersi con esso lei. La servente, che de l’amore de la padrona era consapevole, fece l’apparecchio del tutto. E perché la donna era consueta a starsi con il fiorentino in camera e quivi corcarsi, non si curò altrimenti far cangiar luogo al trombetta, perché, dormendo ella ne la guardacamera, sperava quella notte godersi il suo trombetta. Ma, come dice il proverbio, chi fa il conto senza l’oste lo fa due volte. Pareva a la padrona che, per esser il caldo grande, la guardacamera fosse luogo molto piú fresco che la camera; il perché, venuto che fu il giovine fiorentino suo innamorato, commise a la servente che lo menasse ne la guardacamera. Ella non ebbe tempo di cavarne fuori il suo trombetta; ma, corsa innanzi, lo fece nasconder dentro il camino del fuoco, dinanzi al quale era tirato un gran tapeto. Il trombetta subito si ricoverò lá dietro e cheto se ne stava. Il fiorentino, come lá dentro fu, per il caldo grande che faceva cominciò a spogliarsi. Il trombetta, guardando per un pertugetto che nel tapeto era, vedeva tutto ciò che ne la guardacamera si faceva. Vide adunque il giovine levarsi dal collo una bellissima catena d’oro con un ricchissimo fermaglio a quella pendente, nel quale erano quattro perle con un orientale rubino in mezzo a quelle legato in oro, che in tutto valevano piú di mille ducati. Vi pose anco una borsa piena di scudi, e in fine restò tutto spogliato in camicia, avendolo la servente aiutato a cavarsi le calze. Venne poi la padrona, la quale anco ella con aita de la fante si spogliò in camicia. La fante se n’uscí de la guardacamera e lasciò i dui amanti, che credevano d’esser senza testimoni. Quivi abbracciando l’un l’altro, amorosamente si basciavano, dicendo la donna al giovine: – Ove tutto oggi sei tu stato, che dopo desinare sin ora non ti sei lasciato vedere? Tu devi esser dimorato con alcuna tua amica che piú di me t’è cara. – Il giovine basciandola le rispondeva: – Vita mia cara, io non amo altra donna al mondo che te. Ma da certi miei compagni sono stato condutto a le Tornelle a veder correre a anello. – E che cosa è questo correre? – disse la donna. Il giovine alora le narrò come si faceva; il perché soggiunse la donna: – Corri anco tu, e vedi se sai di prima botta dar ne l’anello. – E conciatasi a gambe aperte, stava aspettando che il giovine corresse. Il quale, ritiratosi alquanto indietro, corse per investir al luogo debito; ma, che che se ne fosse cagione, egli non seppe entrare col piuolo in casa. – O bel giostratore! tu non guadagnerai giá l’anello, – disse la donna. Soggiunse alora di burla il giovine: – Se ci fosse la tromba, io farei benissimo. – A questo motto il trombetta con voce orrenda disse: – Per tromba non si resti. – E tutto a un tratto sonò un tremendo suono con la tromba e saltò fuor del camino altamente sonando; il che di modo spaventò i due amanti, che non raffigurando chi fosse quello che sonava, ma credendolo un diavolo, si misero a fuggire su per una scala ne l’alto de la casa. Il trombetta che adocchiato aveva la borsa e la catena, come vide salire coloro in alto, sonando serrò loro l’uscio su le spalle; e presa la catena con la borsa ed il mantello del giovine, senza esser veduto se n’uscí di casa, essendo giá su l’imbrunir de la notte, e via se ne fuggí, divenuto in un punto vie piú ricco d’assai che prima non era.
Il Bandello al magnifico suo nipote
messer Gian Michele Bandello
Sogliono ordinariamente le donne, còlte a l’improviso, aver secondo i casi le risposte pronte, e in un subito proveder a quanto bisogna; e dando loro questo la natura, non deve esser dubio che piú provide e piú accorte saranno quelle che piú averanno praticato. Ma qual donne praticano piú diversitá di cervelli de le cortegiane de la corte di Roma? Quivi communemente concorrono tutti i belli e i piú elevati ingegni del mondo, essendo Roma commune patria di tutti; quivi d’ogni sorte le buone lettere fioriscono, cosí latine come greche e volgari; quivi sono iureconsulti eccellenti, filosofi e naturali e morali consumatissimi; quivi pittori si veggiono miracolosi. Ci sono scultori che nel marmo cavano i volti vivi, e i conflatori col metallo gittano ciò che vogliono. Ma per non raccontare d’una in una l’arti, elle in perfezione tutte ci sono, di maniera che in ogni specie di vertú chi vuole farsi eccellente vada ad imparar a Roma. E perciò che, come dice l’ingegnoso sulmonese, avviene assai spesso ch’un medesimo terreno produce la rosa e l’ortica, cosí anco a Roma ci sono uomini buoni e tristi. Ma lasciando il resto, parlerò de le cortegiane che, per dar qualche titolo d’onestá a l’essercizio loro, s’hanno usurpato questo nome di «cortegiane». Sono per l’ordinario tutte piú avide del danaro che non sono le mosche del mèle, e se casca loro ne le mani alcun giovine di prima piuma, che non sia piú che avveduto e scaltrito, vi so dire che senza oprar rasoio lo radono fin sul vivo e ne fanno anotomia. Ora ragionandosi in Milano in una onorata compagnia di molti gentiluomini d’alcune cortegiane e dei loro modi che assai sovente usano, il capitano Gian Battista Olivo, uomo molto faceto e gentile, narrò una novelletta a Roma accaduta, la quale avendo io scritta secondo la narrazione da lui fatta, ho voluto che sia vostra. E cosí ve la mando e dono, essendo tutte le cose mie vostre. State sano.