Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella LII

Seconda parte
Novella LII

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Maomet affricano signore di Dubdú vuol rubare a Saich re di Fez una cittá,


e il re l’assedia in Dubdú e gli usa una grandissima liberalitá.


M’hanno mosso, signori miei, i vostri ragionamenti a raccontarvi, al proposito de le cortesie del duca e del re, una istoria avvenuta in Affrica nel tempo che io in quelle bande trafficava. Io per tutte quelle provincie affricane e regni ho praticato venti anni almeno, e credo che ci siano poche cittá che vedute non abbia, ed annotati molti lor costumi. E tra l’altre cose che ci ho trovate, con isperienza ho conosciuta una grandissima cortesia e lealtá in quei mercadanti affricani. Medesimamente è sicurissimo il praticare con i gentiluomini del paese, con ciò sia cosa che per l’ordinario sono buone persone, costumate, e vivono molto civilmente e vestono, a la foggia loro, politamente. Io confessar vi posso d’aver trovato in luoghi assai de l’Affrica vie piú d’amorevolezza e caritá che – e mi vergogno a dirlo – non ho trovato tra’ cristiani. Essi servano la legge loro maomettana molto meglio che non facciamo noi cristiani la nostra, e sono per lo piú grandissimi elemosinieri e reali osservatori di tutti i contratti che con loro si fanno. E quello che parlo, lo dico per la piú parte, perché anco tra loro se ne trovano di giuntatori e tristi, e massimamente chi s’avviene con gli arabi, che per tutto sono dispersi. Ora, venendo a quello che narrarvi ho deliberato, vi dico che non molto lunge dal gran regno di Fez è una cittá che gli affricani chiamano Dubdú, cittá antica e posta sopra un alto monte che molto è abondevole di freschissimi fonti, che per la cittá a commodo e utile degli abitanti discorrono. Di questa cittá è lungo tempo che ne furono signori alcuni gentiluomini de la casa dei Beni Guertaggien, che fin adesso la possedono. Quando la casa di Marino, che perdette il regno di Fez, fu quasi distrutta, gli arabi fecero ogni sforzo per occupar Dubdú; ma Musè Ibnú Camnú, che ne era signore, valorosamente si diffese, di modo che costrinse gli arabi a far alcune convenzioni e piú non offender quella cittá né altri suoi luoghi. Lasciò Musè dopo la morte signore di Dubdú un suo figliuolo chiamato Acmed, di costumi e di valore al padre assai simile, che in grandissima pace conservò il suo stato insino a la morte. A Acmed successe nel dominio, per non aver figliuoli, un suo cugino nomato Maomet, giovine invero d’alto core, il quale ne la milizia fu molto eccellente e prode de la sua persona. Acquistò costui molte cittá e castella ai piè del monte Atlante, verso mezzogiorno, nei confini di Numidia. Egli adornò pur assai Dubdú di bellissimi edificii e la ridusse a piú civilitá di quello che era. Dimostrò tanta liberalitá e cortesia agli stranieri e a quelli che passavano per la sua cittá, onorando tutti secondo quello che valevano e facendo le spese ad infiniti, che la fama de le sue cortesie volava per tutti quei contorni. Io in compagnia d’alcuni gentiluomini di Fez una volta ci capitai e fui alloggiato nel suo palazzo con i compagni, dove fummo tanto onoratamente trattati quanto dir si possa. E perché intese che io era cristiano e genovese, parlò buona pezza meco de le cose d’Italia e del modo nostro di vivere, usando sempre tanta umanitá verso tutti che era cosa mirabile. A me in particolare fece molte offerte. Ora perché l’uomo assai spesso non sa vedere né conoscer il suo bene e ne la prospera fortuna da sé s’acceca, e nessuna maggior peste è ne le corti dei signori come è l’adulazione, venne voglia a Maomet d’occupare Tezá, cittá vicina al monte Atlante circa cinque miglia, che era del re di Fez. Communicò questo suo pensiero con alcuni dei suoi, i quali, non considerata la potenzia e grandissimo dominio del re di Fez, al quale in modo veruno Maomet non era da esser agguagliato, con sue vane adulazioni il persuasero a far l’impresa. E perché ogni settimana a Tezá si costuma di far un solenne mercato di frumento, ove concorrono assai popoli e massimamente montanari, indussero Maomet che si disponesse in abito da montanaro d’andar al mercato e che essi, con gente che meneriano seco, assalirebbero il capitano di Tezá, e che senza dubio prenderiano la cittá, perché di dentro egli aveva una gran parte del popolo che in suo favore, udito il nome di Maomet e vedutolo presente, si levaria. Ma che che si fosse, questo trattato pervenne a le orecchie a Saich, de la famiglia di Quattas, re di Fez e padre del re che oggidí regna. Saich, inteso il pericolo, di subito fece metter soldati a la guardia di Tezá e, congregato un grosso essercito, andò ai danni di Maomet. Ed ancora che egli fosse còlto a l’improviso, sostenne nondimeno animosamente l’assedio ed assalto dei soldati del re. Come v’ho giá detto, Dubdú è posta sul monte e molto forte per il sito; onde fu una e due volte la gente del re da quelli de la cittá, con la morte molti di quei di fuori, ributtata. Ma il re rinforzò il suo campo di molti balestrieri ed archibugeri, e molto danno dava a la cittá, deliberato di non partirsi da quell’assedio se prima non se ne impadroniva e pigliava Maomet prigioniero. Si facevano assai sovente de le scaramuccie, e per l’ordinario quelli di dentro avevano il peggio. Il che veggendo Maomet e meglio considerando i casi suoi, s’avvide d’aver commesso un grandissimo errore a voler mover guerra a Saich re di Fez, al quale in conto veruno non si poteva parangonare. E pensando e ripensando mille e mille modi per mezzo dei quali si potesse da la presente guerra disbrigarsi ed in buona amicizia restar col detto re, a la fine non gli parendo trovarne nessuno che profitto a’ casi suoi potesse recare, restava molto discontento. A la fine, dopo infiniti discorsi, gli cadde in animo un mezzo, sperando con quello aver ritrovata la via de la sua salute; e questo era che egli si mettesse in mano di Saich ed isperimentasse la cortesia e misericordia di quello. Fatta cotale tra sé deliberazione, scrisse una lettera al re Saich di propria mano e, vestitosi in abito di messaggiero, andò egli medesimo come messo del signor Dubdú, sapendo che il re non lo conosceva. E passando per l’oste del nemico, s’appresentò al padiglione reale, e a la presenza del re fu introdutto. Quivi, fatta la debita riverenza al re, gli appresentò la sua lettera, la quale era credenziale. Il re, presa la lettera, quella ad un suo segretario porse, commettendogli che la leggesse. Letta che quella fu a la presenza di quelli che presenti erano, il re rivolto a Maomet, pensando che fosse messaggiero, gli disse: – Dimmi, che ti pare del tuo signore, che tanto s’è insuperbito che ha preso ardire di volermi far guerra? – A questo rispose Maomet: – Invero, o re, che il mio signore m’è paruto un gran pazzo a cercar d’offenderti, devendo sempre tenerti per amico. Ma il diavolo ha potere d’ingannare cosí i grandi come i piccioli, ed ha levato il cervello al mio signore, e sforzato a far questa sí gran pazzia. – Per Dio, – soggiunse il re, – se io lo posso aver ne le mani, come senza dubio l’averò, perché non mi può scappare, io gli darò sí fatto castigo che a tutto sará in essempio di non prender l’armi contra il vicino senza giustizia. Io ti prometto che a brano a brano gli farò spiccare le carni di dosso e lo terrò piú vivo che potrò, per maggior suo tormento. – Oh! – replicò Maomet, – se egli umilmente venisse ai tuoi piedi, e prostrato in terra ti chiedesse perdono de le sue pazzie, e ti supplicasse che gli avessi pietá, come lo trattaresti tu? – A questo disse il re: – Io giuro per questa mia testa che, se egli in total maniera dimostrasse riconoscimento del suo folle errore, non solamente gli perdonerei l’ingiurie a me fatte, ma oltra il perdono farei seco parentado, dando due mie figliuole per mogli ai dui suoi figliuoli che intendo che ha, e lo confermarei nel suo stato, dandogli anco quella dote che al grado mio convenisse. Ma non mi posso persuadere che egli mai sofferisca d’umiliarsi, cosí è superbo ed impazzito. – Non tardò Maomet a rispondere, e disse: – Egli fará il tutto, se tu l’assicuri di mantenergli la tua parola in presenza dei maggiori de la tua corte. – Io penso, – seguitò il re, – che gli possano bastare questi quattro che tra gli altri sono qui, cioè il mio maggior segretario, l’altro il mio general capitano de la cavalleria, il terzo che è mio suocero ed il quarto il gran giudice e sacerdote di Fez. – Udito questo, Maomet si gettò ai piedi del re e con lagrimante voce disse: – Re, ecco che io sono il peccatore che a la tua clemenza ricorro. – Il re alora lo sollevò ed amorevolmente, con accomodate parole, abbracciò e basciò. Poi, fatte venir le sue due figliuole e Maomet i figliuoli, si fecero le nozze con grandissima solennitá. Ebbe dapoi Saich sempre per parente ed amico Maomet, e oggidí fa il medesimo il figliuolo d’esso Saich, che è successo al padre suo nel reame di Fez.


Il Bandello al molto illustre ed eccellente signore


il signor Galeazzo Sforza di Pesaro


Se le trascuraggini e disordini che tutto il dí nascer si veggiono dal pestifero morbo de la gelosia, non fossero a tutto il mondo manifesti e massimamente a voi, che cosí copiosamente nei passati giorni ne parlaste, quel dí che desinaste con il signor Alessandro Bentivoglio e con la signora Ippolita Sforza sua consorte nel lor giardino di porta Comasca, io mi sforzarei con piú lungo dire di fargli aperti e chiari. Ma perché voi gli sapete e conoscete manifestamente di quanto male la gelosia sia cagione, e come assai sovente il marito indebitamente ingelosito fa che la moglie, piena di stizza e di dispetto, diviene in tanta disperazione che si delibera di far de le cose che prima non averia pensato giá mai, io per or non ne dirò troppe cose. Voglio bene che chi ha moglie a lato, tenga aperti gli occhi e consideri le azioni di quella, e misuri destramente i passi e gli atti che gli vede fare, e con giudizioso occhio misuri e consideri il tutto, da ogni passione alieno, e che sovra il tutto metta mente che per sua dapocaggine e tristi portamenti non le dia occasione di far male. Deve anco considerare, sí come voi saggiamente alora diceste, che essa moglie non gli è data per ischiava né per serva, ma per compagna e per consorte. E, veramente, tutti i mariti che questa considerazione averanno e la metteranno in opera, potranno notte e dí sicuramente attendere agli affari loro, senza temere che le moglieri gli mandino a Corneto. E ragionandosi variamente dei mali che pervengon da la sfrenata gelosia, messer Venturino da Pesaro vostro soggetto, che de la lingua volgare si diletta, poi che voi in camera vi ritiraste, narrò una ridicola novella ma piacevole, la quale avendo scritta, ora vi mando e al vostro nome consacro in memoria de la mia servitú verso di voi. State sano.