Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XXVII

Quarta parte
Novella XXVII

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Simone Turchi ha nemistá con Gieronimo Deodati lucchese: seco si reconcilia,


e poi con inaudita maniera lo ammazza, ed egli vivo è arso in Anversa.


Voi m’invitate, madama illustrissima e voi signori, che, essendo io venuto ora da la grande, popolosa e abondante di ogni cosa al vivere nostro non solamente necessaria, ma che ci possa recare giovamento, delicatura e piacere, la cittá, dico, di Parigi, che io voglia narrarvi alcuna cosa di novo. Ché in vero vi pare quasi impossibile di partirsi fora di Parigi, a chi ogni pochetto di tempo ci dimora, che egli non ne esca pieno di novelle. E lasciando per ora le nove di quella gioiosa corte che, come si scrive de l’Africa, sempre alcuna cosa ha di novo, né volendo dire de li maneggi, che adesso vanno attorno tra li nostri prencipi cristiani, e tanto variamente se ne parla da chi forse meno ne sa, io vi vuo’ dire uno pietoso e degno di compassione accidente, perpetrato con tanta sceleragine quanta possiate imaginarvi. Questo caso è seguíto tra dui mercanti de la gentile cittá di Lucca, colá ne la Fiandra, ne la nominatissima, molto ricca, mercantile e festevole terra d’Anversa. In quello luoco è quasi come uno mercato generale a tutti li cristiani de l’Europa e d’altrove, e vi è una maniera di vivere molto libera e vie piú dimestica assai che in molti altri luochi. Ora, tra l’altre dimestichezze che in Anversa sono, una ce ne è che ora vi narrerò. Costumano le figliuole da marito, come diventano grandicelle, per l’ordinario avere tutte alcuni giovani loro innamorati, li quali da esse si chiamano «servitori»: quella dopoi è piú istimata che piú ne ha. Quelli che le corteggiano e si dichiarano loro servitori, vi vanno ne le case liberamente tutto il dí, e ancora che ci siano il padre e la madre, non cessano visitarle e corteggiarle e ancora starsi a parlar seco mattina e sera. Le invitano anco bene spesso a disinari e cene e, come qui si dice, a banchettare a diversi giardini, ove le fanciulle e giovanette, senza guardia di chi si sia, liberamente con gli amanti loro vanno; e colá se ne stanno tutto il dí in canti, suoni, balli, mangiare e bere e in giuochi, con quella compagnia che l’amante averá invitata. La sera l’amante prende la sua signora, e a casa di lei l’accompagna e la rende a la madre, la quale amorevolemente ringrazia il giovane del favore e onore che ha fatto a la figliuola. Egli, riverentemente baciata la fanciulla e la madre appresso, se ne va per li fatti suoi. Il baciarsi colá in ogni luoco e tempo è lecito a ciascuno. Questa vita fanno le fanciulle da marito. Ma come sono maritate, non è piú lecito loro a fare amore con persona, almeno apertamente. Che ciò che poi le maritate facciano, io non ne sono stato molto curioso a investigarlo, essendo cose che in segreto si fanno. Ponno ora essere cerca quattordeci anni o quindeci, che in Anversa era per nobiltá, oneste ricchezze e dimestica e gentilissima prattica in grandissimo prezzo, e ancora è, ben che sia di etá matura e non maritata giá mai, la signora Maria Veruè, che è de le prime di Anversa. Ella per le sue bellezze e per la grata e piacevole sua conversazione e altre buone qualitati, aveva piú servitori e innamorati che qualunque altra fosse in Anversa, perciò che fiammenghi, tedeschi, francesi, inglesi, italiani, spagnuoli e giovani di ogni altra nazione, che in Anversa praticavano, tutti le facevano il servitore e ogni dí la corteggiavano, onoravano e servivano; di modo che la sua casa pareva di uno governatore del luoco, cosí da ogni tempo era dagli amanti frequentata. Filiberto prencipe di Orange, che fu generale de l’imperadore in Italia e morí ne la ossidione de la cittá di Firenze, fu uno de li suoi amatori, di modo che per qualche tempo era generale openione che egli la devesse prender per moglie. Era in que’ tempi in Anversa Simone Turchi lucchese, agente de li Buonvisi, mercanti famosi di Lucca. Prese egli la pratica de la signora Maria Veruè cerca quattordeci anni sono, e cominciò con tanta assiduitá a corteggiarla e servirla, che mai non si partiva da lei, lasciando ogni altra facenda da canto, di maniera che la signora Veruè mostrava averlo molto caro. Soleva ella in una sua sala, ove dimorava quando era corteggiata, tenere li ritratti dal naturale di tutti quelli che le facevano servitú. Onde ciascuno, come si metteva a fare seco l’amore, le mandava il proprio retratto, fatto per mano di nobile pittore, ed ella con gli altri in sala il faceva attaccare, e ve ne aveva piú di quaranta. Doppo quattro anni che Simone Turchi era giunto in Anversa, Gieromino Deodati lucchese ci andò anco egli con buona somma di danari, e colá a trafficare si fermò, e intrò in pochi dí nel numero de li servitori de la signora Veruè. Quivi pigliò egli stretta conversazione con il Turchi, il quale, come detto vi ho, non era molto diligente a li negozii pertinenti a li Buonvisi. E avendo Simone bisogno di danari, ne richiese al Deodati, il quale in piú volte li prestò cerca tre millia scuti. Intendendo li Buonvisi il mal governo che il Turchi aveva de le faccende loro, li levarono di mano la ragione e il maneggio del tutto, e piú di lui non si volsero servire. Esso Turchi, da sé non avendo il modo di negoziare, se ne tornò a Lucca, per appoggiarsi ad alcuno mercatante che praticasse in Anversa. Avvenne in quello medesimo tempo che il Deodati anco egli a Lucca se ne ritornò, acciò che raguagliasse li suoi fratelli di quanto negoziato avea. E mostrando loro li suoi conti, si trovò che Simone Turchi era debitore di cerca tre millia scuti. Il perché fu Gieronimo astretto da li fratelli che se facesse pagare e non perdesse piú tempo. Andò il Deodati e, trovato Simone, li disse come non poteva saldare la ragione con li fratelli, se egli non pagava il debito de li danari a lui in Anversa prestati, come appariva per le cedule di mano sua. Il Turchi si scusò a la meglio che puoté, e iva fuggendo il pagamento e prolungandolo d’oggi in dimane. Ora, stimolando li fratelli esso Gieronimo che non badasse a le ciancie del Turchi, la cosa andò di modo che, avendo Gieronimo prodotte le cedole in giudicio, fu Simone da’ sergenti di corte su la piazza di Lucca sostenuto e posto in prigione. Fu adunque necessario, se egli volle uscire di prigione, che sodisfacesse al debito che col Deodati avea. E reputandosi essere fore di misura ingiuriato, cominciò ne l’animo suo generarsi uno fiero e inestinguibile odio contra Gieronimo, ben che di fora via non si dimostrasse. Tuttavia non cessava di continovo investigare e imaginare alcuno modo e via per vendicarsi con danno infinito del Deodati. Fra questo tutti dui, ma non giá di compagnia, tornarono in Anversa. E per essere tra loro giá cominciata la nemistá, non si dimesticavano piú insieme, come prima solevano; nondimeno erano assidui a lo corteggiare la signora Veruè. E parlandosi uno dí tra molti di Simone e de le cose sue, Gieronimo, come in dispregio di quello, disse che non sapeva ciò che il Turchi si potesse fare in Anversa, se non diventava «curatieri», che noi italiani communemente dimandamo «sensali», perché da lui stesso non aveva modo di negoziare, non avendo né danari né credito. Questa cosa accrebbe grandemente l’odio che il Turchi al Deodati portava, e fece come fanno li carboni da li mantici affocati, che, se l’acqua sopra gli è spruzzata, piú si infuocano e prendeno maggior forza e vigore. E cosí, di novo risvegliatosi l’odio del Turchi contra Gieronimo, divenne vie piú grande e piú acerbo, ben che celato si tenesse. Diceva uno de li sapienti de la Grecia, che se si potesse vedere dentro il core de l’uomo e ciò che ne l’animo suo va farneticando e chimerizzando quando è irato e tutto intento al vendicarsi e pieno di mal talento, che proprio si vederia uno ardente vaso, come una olla piena quando gran fuoco le è acceso sotto, e, raggirandosi sossopra, l’acqua ardentemente bolle. Cosí andava sossopra l’animo del Turchi, e ora una cosa pensava e ora una altra, travagliando tuttavia; e tutti i pensieri suoi erano pure a morte e roina del Deodati. Dissimulava però, come uno altro Simone, il suo pessimo [animo] e fora di ogni misura arrabiata volontá di fare del male, e diceva che Gieronimo si ingannava, perché egli era ben buono a negoziare da sé. E perseverando tutti dui con molti altri a corteggiare la signora Veruè, a poco a poco cominciarono a repacificarsi, e pareva che fossero divenuti buoni amici. Essa signora Veruè, a ciò che apertamente dimostrava, faceva piú favore al Turchi che agli altri, o fosse che piú le piacesse, o perché largamente quanto aveva le donava; ché in effetto egli vi spendeva assai e piú che il grado suo non comportava. Credevano alcuni che Simone godesse del suo amore, secondo che gli uomini sono piú facili a credere il male che il bene. E per dire ciò che io ne udii essendo in Anversa, tutte erano sospezioni di invidiosi e maldicenti. Ora, che che se ne fosse cagione, il Turchi tanto seppe dire e fare e sí bene cicalare, che persuase essa signora e le fece vendere una parte de li suoi beni e mettere li danari in banco a guadagnare, mostrandole con efficaci ragioni il gran profitto che ne caverebbe. Si lasciò ella consigliare e pose in vendita del suo per quattro o cinque millia scuti, e tutto avuto contanto, diede in mano al Turchi. Simone, avuta questa buona somma di danari, fece compagnia con Vincenzo Castrucci lucchese e cominciò fare qualche traffico. Ma per potere meglio corteggiare la signora Veruè, lasciò la cura del banco a Gioseffo Turchi suo nipote. Durò la detta compagnia cerca tre anni, e per la morte del Castrucci si disfece. In que’ tempi, essendo Simone reintegrato assai, per quanto appareva, ne l’amicizia col Deodati, non doppo molto esso Turchi il richiese che fosse contento prestarli tre millia scuti per Ispagna. Il che Gieronimo, che andava buonamente e, come si dice, a la carlona, fece molto volentieri, e al tempo statuito ne ebbe il debito pagamento. In questo mezzo il Turchi fece compagnia con i Gigli lucchesi, che in Anversa avevano banco, e di giorno in giorno Gieronimo aspettava la moglie che presa avea, che era figliuola di Gian Bernardini nobile lucchese; e tuttavia andava a visitare la signora Veruè, che li faceva assai buona accoglienza, trattandolo da amico e non da servitore, poi che intese lui avere presa moglie. Venne essa signora Veruè, non so come, in non picciola sospezione che le cose del Turchi non andassero troppo bene, veggiendolo attendere negligentemente a li maneggi de la mercatanzia, e temeva assai de li danari che ne le mani dati gli aveva a trafficare. E essendo stata avertita da alcuni de la nazione lucchese e anco da altri, stette molti dí sospesa tra due di fargliene motto. A la fine ella si deliberò parlare col Deodati e seco consigliarsi, e pregarlo caramente che in questo le dicesse il parer suo e ciò che egli, trovandosi a tale termine, ne farebbe. Onde uno dí con molte parole, in segreto seco ragionando, gli aperse l’animo suo; a la quale Gieronimo in questa guisa rispose: – Signora mia, perché voi la vostra mercé ricercate in questo vostro urgentissimo caso il parere mio, a me parebbe commettere uno grandissimo errore se io liberamente, essendovi quello leale e fedelissimo servitore che vi sono stato e sono, non vi dicesse quanto a me sinceramente ne pare che ricerchi l’utile vostro, e quanto io, se mio interesse fosse, ne farei. Voi mi affermate che molti de la nazione mia e altri ancora vi hanno avertita che voi debbiate assicurarvi de li danari vostri che al Turchi commessi avete. Io sono certamente de lo istesso parere, e quanto piú tosto, tanto meglio. Onde una de le due cose vi consiglio che debbiate fare, cioè che vi facciate dare essi danari, o vero che li Gigli, mercatanti reali e da bene, tutta la somma di essi, col guadagno seguitone questi anni, riconoscano da voi. – Piacque sommamente il savio consiglio a la signora Veruè e si deliberò metterlo in esecuzione. Onde, presa la opportunitá, scoperse a Simone il desiderio suo, dicendoli che a questo era stata consigliata da molti, e massimamente da’ lucchesi. E per quanto affermano alcuni, ella nominò il Deodati. Errore invero grandissimo è nessuna cosa, che essere debbia segreta, dirla a donne, perché in effetto il piú di loro male sanno tacere, ove elle veggiano nulla di profitto. Onde Catone Censorino soleva dire di nessuna cosa aversi piú da dolere che se cosa alcuna, che devesse essere tenuta segreta, l’aveva a una donna detta. Si sa che ordinariamente quasi tutte le donne sono ambiziose e si persuadeno tutte di saper vie piú di ciò che sanno, e tutte bramano essere credute che siano di grandissimo governo; e spesse volte alcune di loro si lasciano uscire di bocca che, se avessero la bacchetta in mano, che saperiano assai meglio reggere uno stato che gli uomini. E io voglio credere che tale volta dicano il vero, a la barba di molti uomini di cosí poco ingegno e poca capacitá ne le cose vertuose, che non vagliono l’acqua che essi logorano a lavarsi le mani. Ma io non vuo’ ora entrare a sindicare né gli uomini né le donne, con ciò sia che mia madre fu donna e io sono nato uomo. Bastivi per adesso dire che Gieronimo non fece troppo bene a dir male del Turchi a la signora Veruè, perché non poteva esortarla a levare i denari de le mani a quello, se non perché male li governava, e non era sicuro, e cosí il vituperava come uomo che non sapeva governarsi. Ma da l’altra banda fece male e peggio la donna a dicelare a lo Turchi chi fosse stato colui che consigliata l’avea. Era bene assai averli detto che alcuni mercatanti, uomini da bene, l’avevano avertita ad assicurarsi del suo, e non venire a particolare nessuno. Questo tanto ve ne ho voluto dire per ciò che, reputandosi il Turchi essere offeso per la pregionia di Lucca e in Anversa poi, allora che Gieronimo disse che non sapeva ciò che quello potesse fare se non diventava sensale, ancora che reconciliato si fosse, avendo nondimeno deliberato tra sé farne la vendetta, l’essere poi stato servito de li tre millia ducati per Ispagna, aveva di modo addolcita l’acerbitá de l’odio antico che quasi era in tutto estinto, secondo che esso Simone, devendo essere arso, confessò. Ma questa ultima ingiuria, che egli grandissima e acerbissima istimava, fu cagione, di svegliare e riaccendere in modo le sopite fiamme de la vecchia nemistá, che al tutto Simone si propose levarsi Gieronimo dinanzi dagli occhi, avenissene poi ciò che si volesse. Arrogi a questo che egli in questa mala openione si confermava tanto piú, quanto che alcuni dí innanzi, andando di notte attorno, gli era stato fatto in viso da uno suo nemico uno brutto sfregio; onde credeva che Gieronimo fosse stato colui che l’avesse ferito. Ma di gran lunga si ingannava, come dapoi si discoperse e si venne in cognizione di colui che sfregiato l’aveva. Voi devete sapere, per dirvi ciò che da molti degni di fede intesi, che Simone era uomo di pessima natura e di malissimi costumi, e tra l’altre sue taccherelle aveva la piú mordace e velenosa lingua che si sentisse giá mai. Onde, per mettere discordia tra dui amici era artefice meraviglioso, e ordiva sí maestrevolemente gli ingannevoli lacci suoi, che li faceva parere verisimili. E insomma egli era una sentina di ogni vizio e malignitá, e secondo che del male del prossimo ciascuno condolere si deve e del bene di quello rallegrarsi, egli faceva tutto il contrario. Lodava molto le crudelitati fatte da diversi tiranni, e cercava d’imparare il modo di fare alcuna crudeltá. Aveva poi sempre in bocca non essere al mondo cosa di maggior dolcezza che de le ricevute ingiurie prendere crudelissima vendetta. Essendogli adunque questo strano ghiribizzo di vendicarsi entrato in capo, [deliberò] di ancidere Gieronimo e farne sí memorabile strazio, che in memoria d’uomini se ne parlasse; e sovvra il tutto vendicarsi di modo che da la giustizia non potesse essere offeso, e nondimeno restasse negli animi di tutti che egli fosse stato l’autore de l’omicidio. Fatta questa iniqua e ferma deliberazione, gli occorse in mente di usare il veleno; ma, non sapendo come ne potesse avere che non si fosse saputo, si levò da cotale pensiero, come difficile e periglioso, e conchiuse tra sé col ferro fare l’effetto. Ma perché era podagroso, e debole de le braccia e de le mani, conosceva le sue forze non essere gagliarde a perpetrare l’omicidio, e che era necessario avere compagno in simile effetto. Lasciava egli la cura del banco, come detto vi ho, a Gioseffo suo nipote, del quale non si volle confidare. Onde si rivoltò a uno servitore che teneva, che era romagnuolo, chiamato Giulio, al quale disse di voler ancidere il Deodati. Il perfido e scelerato romagnuolo, che era simile di natura al Turchi, si offerse di far tutto. Li Gigli per onorare Simone, non conoscendo la sua malvagia natura, avevano in quei giorni datogli il compimento del banco e mandatogli sovvra ciò la carta di procura. Il perché Simone, come procuratore de li Gigli, fece fare a nome di quelli, per mano di notaro publico, una scrittura, come li Gigli riconoscevano da la signora Veruè quella somma di danari che ella al Turchi data aveva del che ella rimase sodisfatta. Ora, crescendo il desiderio nel Turchi ogni dí piú di ammazzare Gieronimo, avenne uno dí che, essendo egli in casa di una cugina de la signora Veruè, vide una strana foggia di una sedia, la quale, come l’uomo su vi sedeva, subito il fondo di quella si calava in giú, e tantosto da le parti dinanzi, ove l’uomo suole appoggiar le braccia, uscivano dal legno fora duo ferri grossi e forti, li quali discendevano tra le coscie del sedente per sí fatto modo, che l’uomo vi rimaneva talmente inchiavato, che non si poteva movere, né a patto veruno uscirne fora, se non ci era la sua propria chiave. Cotesta sedia si fece prestare il Turchi e la fece portare a uno giardino che teneva, ove spesso banchettava la signora Veruè e altri. Avendo dunque deliberato prevalersi de la detta sedia, uno dí parlando col Deodati, li disse che al suo giardino egli aveva li piú belli cavoli fiori che mai in Anversa si fossero veduti. Gieronimo li domandò se ne poteva avere per mettere anco egli nel suo giardino, cui il Turchi rispose che venisse quando voleva, e che ne sceglierebbe quelli che piú li piaceriano. Ora non si curò il Deodati altrimenti andarvi, impedito forse da altri negozii. Il che veggendo Simone, uno giorno disse di assai buono mattino al Deodati: – Gieronimo, egli è venuto da Lione uno mercatante, che non vuole per ora essere conosciuto in Anversa, e si è retirato al mio giardino. Egli per me ti prega che tu venga fino lá, ché ti ha da parlare di cose di grandissima importanza. – Credette Gieronimo al Turchi e disse di andarvi. E cosí, subito che ebbe disinato, solo vi andò. E non trovandovi il mercatante, dimandò ove fosse. Il Turchi rispose che era ito in uno suo servigio, ma che tantosto ritornerebbe. Si misero tutti dui a passeggiare per la sala terrena, ove la ingannevole sedia era posta. In quello intrò il ribaldo romagnuolo e disse loro che il mercatante veniva. E veggendo che il Deodati era vicino a la artificiosa sedia, non vi mettendo mente egli, il prese di peso e lo mise dentro quella a sedere. Credeva Gieronimo che il romagnuolo scherzasse; ma non fu sí tosto assiso che si sentí d’ogni intorno essere inchiavato e prigione; e quasi fora di sé, non sapeva che dirsi. Uscí lo scelerato romagnuolo fora de la sala e serrò l’uscio de la stanza. Stava il Deodati come trasognato, quando il traditore Turchi, preso uno pugnale pistolese che colá aveva messo, disse: – Gieronimo, tu ti devi ricordare de le gravissime ingiurie che a Lucca e qui mi hai fatte. Ora non siamo a Lucca, ove tu possa farmi incarcerare. Tu sei in mio potere. O tu ti delibera farmi uno scritto di tua mano del tenore che è questo da me scritto, o io con questo pugnale ti levo la vita. – Lesse il misero Deodati lo scritto, per lo quale si confessava debitore di alcune migliaia di scudi al Turchi, e disse che ne faria uno simile, e di propria mano ne fece uno e lo sottoscrisse, facendo la data di alcuni mesi innanzi. Ci sono molti che affermano lo scritto essere stato di altro tenore, cioè che Gieronimo confessava avere proceduto malignamente contra il Turchi a Lucca ed essere stato egli che sfregiato lo avea su il viso, acciò che paressi che esso Turchi avesse giusta cagione di ammazzarlo. Ma sia come si voglia: può essere l’uno e l’altro. Avuto che ebbe il Turchi lo scritto e ripostolo in seno, cacciò mano al pistolese e diede su il capo al Deodati una ferita. Ma perché era debole, lo ferí alquanto su la testa e in una guancia. Il misero Gieronimo demandava con pietosa voce: – Mercé, per Dio! mercé! non mi ancidere! – Il Turchi, o si movesse a pietá o non si sentisse forte, che piú si crede, o che che se ne fosse cagione, gettato il pugnale in terra, se ne uscí fora; e trovato Giulio che l’attendeva, li disse: – Io gli ho data una ferita, e non mi dá il core di occiderlo. Che faremo noi? – Che faremo? – rispose il ribaldo romagnuolo. – Poi che, padrone, siamo entrati in ballo, egli ci conviene ballare e ammazzarlo, altrimenti, se il fatto resta cosí, egli ci fará morire noi. – Va dunque tu e levali la vita, – soggiunse il Turchi. Giulio allora, che deveva in Romagna, per quelle loro maladette parzialitá, ove ammazzan sino i fanciulli ne la culla e per le chiese, devea, dico, essere stato a cento omicidii, intrò in la sala e preso il pistolese, andò a la volta del sfortunato Deodati. Il quale, come vide venirselo a dosso, pietosamente li disse: – Deh, Giulio, per l’amore di Dio, non mi ancidere! Io giá mai non ti offesi. Se tu quindi cavare mi vuoi, io ti farò or ora uno scritto di mia mano di due o tre millia ducati, e di molti piú, se piú ne vuoi; e ti prometto la fede mia di non mai offenderti né in detto né in fatto. – E volendo altre parole dire, il crudele romagnuolo gli diede su il capo una mortale ferita, e due e tre pugnalate nel petto, di maniera che lo sventurato Gieronimo miseramente se ne morio. Fatto cosí orribile omicidio, Simone entrò dentro e, da Giulio aiutato, dischiavò la sedia e cavò il cadavero fora. Tutti dui poi, nol potendo portare, lo strassinarono per terra fino dentro la cantina, e quivi in uno cantone il sepellirono. Andarono poi a fare i fatti loro cosí lieti e con buoni visi, come se avessero fatta una lodevole e santa impresa. La sera fu indarno da li suoi aspettato Gieronimo a cena e a letto. Il giorno seguente poi, non comparendo Gieronimo da nessuna banda, fu cagione che per Anversa molte cose si dicessero. Erano li due luoghitenenti giudici, il civile, dico, e il criminale, cugini de la signora Veruè, e di tutti e due il Turchi era forte dimestico, e spesso erano soliti familiarmente di mangiare insieme. Il perché esso Turchi, il secondo giorno doppo il perpetrato omicidio, andò a cena col luogotenente civile, per spiare ciò che del Deodati si diceva. Onde, venendo a parlare de l’occorrenza del caso e che gran cosa era che non si trovava indicio veruno di Gieronimo ove fosse andato, disse il Turchi: – Egli si vuole, signore mio, usare ogni diligenza per vedere, se possibile è, di spiare alcuna cosa di lui. – Noi avemo, – soggiunse il giudice, – oggi conchiuso in consiglio di ricercare dimane tutti gli orti e le case che sono a la tale banda, ove anco io ho il mio giardino, e non mancare di investigare per ogni luoco ove egli era uso di bazzicare. – Simone disse che era benissimo fatto, e li pareva una ora mille anni di partirsi. Cosí, cenato che si fu, trovate alcune sue scuse, si partí, e come fu a casa, a Giulio disse: – Egli Giulio, ci conviene avere gli occhi di Argo e provedere che questa notte facciamo di modo, che dimane non siamo còlti a l’improviso. – E li disse la deliberazione che in consiglio si era fatta. Poi li soggiunse: – Tu sai che la sedia ancora è piena di sangue. Egli bisogna che adesso adesso tu te ne vada al giardino e che tu lavi molto bene essa sedia, di modo che non ci rimanga una minima gocciola di sangue. Medesimamente la parete del muro, ove essa sedia era appoggiata, secondo che il sangue su vi è spruzzato, ne è tutta schiccherata. Il perché ancora il muro bisogna nettare, e guardare bene e minutamente per lo mattonato se, quando noi strascinavamo il corpo a la cantina, le piaghe insanguinarono il luoco, acciò non vi si veggia uno minimo segnaluzzo di sangue. Ché questo avermi detto di voler ricercare tutti quelli luoghi, mi fa dubitare che non ci sia qualche indicio o sospetto del fatto, o vero che la mente del giudice non sia presaga del caso. Fatto tutto ciò che ti ho detto, e’ ti conviene poi dissotterrare il corpo e prenderlo in spalla e gettarlo dentro il pozzo, che è su la crociata de le tre vie. La notte sará buia, e nessuno a quella ora va per la strada. E cosí verremo ad assicurare i casi nostri. – Giulio rispose che farebbe il tutto con ogni diligenza, eccetto che non li bastava l’animo di poter portare quello corpo, perciò che era di troppo gran peso, e che si ricordasse che allora che lo sepellirono, che a pena tutti dui di brigata il potevano per terra strascinare. – Orsú, – soggiunse Simone, – va e fa il resto in questo mezzo, e io ti manderò poi il Piemontese, e gli imporrò che egli faccia quanto tu li dirai. Ma avertissi, come averete buttato il corpo nel pozzo, se tu puoi con inganno fare che il Piemontese caschi dietro al corpo. Il pozzo è molto profondo, ove egli, cascandovi dentro, resterá in uno tratto suffocato. E se per sorte la cosa non ti reuscisse, tu sai che egli non porta arme ed è piú vile assai che uno coniglio. Cingeti a lato il pistolese e con quello ammazzalo, e lascialo colá su la strada. E chi sará che possa presumere che egli da noi sia stato morto? – Ora vedete se questo Turchi era scelerato in cremesino, che, non li bastando avere crudelissimamente assassinato e morto il povero Deodati, adesso voleva che si occidesse il Piemontese, che era un altro suo servitore e da lui non era offeso. Fatto adunque accordio cotale con Giulio, esso Giulio andò di lungo a nettare e purgare la casa, sí come gli era stato imposto. Simone poi, quando il tempo li parve opportuno, chiamato a sé il Piemontese, li comandò che allora andasse al giardino e tutto quello facesse che Giulio gli ordineria. Andò il Piemontese, e, picchiato a l’uscio e fattosi, parlando, conoscere chi era, fu da Giulio introdutto. Aveva Giulio uno lume in mano, e andando innanzi, disse al Piemontese che lo seguitasse. E di giá si era ispedito di purgare la sedia e lavare per tutto il sangue, e quasi dissotterrato il cadavero. Come furono nel vòlto del vino, Giulio, messo su una panca il lume, disse: – Piemontese, aiutami a cavare questo corpo di questa fossa. – Oimè, – rispose egli, – che morto è cotesto? – Non ricercare piú innanzi, – li gridò Giulio – ma senza far piú motto aiutami, ché io vuo’ che portiamo al tale pozzo e dentro ne lo gettiamo. – Il Piemontese, che era buono uomo e timido, e conosceva il romagnuolo essere di pessima natura e bravo e manesco, fece quanto quello voleva. E cosí cavarono fora il corpo, il quale subito al volto e ai panni fu dal Piemontese per lo corpo del povero Deodati riconosciuto. Del che forte si meravigliò, ma nulla fu oso dire. Preso adunque il cadavero, uno per li piedi e l’altro per lo capo, uscirono del giardino. Come furono fora de la porta, lasciò il Piemontese cascare in terra il corpo e si diede, quanto le gambe il portavano, a pagare di calcagni e via fuggire; di modo che Giulio, còlto a l’improviso, non fu sí presto a seguirlo, come l’altro era stato a prendere l’avantaggio. Vi corse dietro buona pezza Giulio, ma per l’oscuritá de la notte perdutane l’orma e piú non sentendo la pesta di quello, se ne tornò al giardino e fece ogni prova per portar il morto al pozzo, ma non fu possibile. Onde strassinatolo in casa, che non era quattro braccia fora de la porta, e serrato l’uscio, tutto sbigottito e di malissima voglia, andò a trovare Simone e li narrò quanto era seguíto. Restò il Turchi quasi disperato e non sapeva che farsi, veggendo la manifesta sua roina. Giulio allora in questa forma a parlar cominciò: – Io non so ove questo poltrone Piemontese sia ito. Ma poi che egli sa che io ho dissotterrato il corpo di Gieronimo, che senza dubbio averá riconosciuto, io resto in pericolo de la vita. A me pare essere necessario che io me ne vada con Dio, perché se il Piemontese mi accusa, essendo io fuggito e voi restando qui, sará aperto indicio che non voi de la morte di Gieronimo, ma io sono il colpevole. – Parve al Turchi che il consiglio del romagnuolo fosse buono. Il perché li diede tutti quelli danari che in borsa avea, e di piú due catene d’oro che ne la tasca si trovò, che potevano essere di peso di trenta in trentatré scudi l’una; e li promise che ovunque andasse, sempre lo soccorreria di danari. Giulio, ne l’aprire de le porte, de la terra se ne uscí e andò a la volta di Acquisgrani. Il Piemontese andò tutta la notte errando ora qua e ora lá, tra sé chimerizzando ciò che dovesse fare. Simone, pieno di varii pensieri, né poteva dormire né sapeva che farsi. Deliberò piú volte, come veniva il giorno, fuggirsene; ma li pareva poi che si faceva sospettissimo e colpevole del perpetrato omicidio, e che, essendo andato via Giulio, che era piú sicuro a restare. Il Piemontese, come fu dí, andò a trovare quelli del Deodati e narrò loro ciò che gli era accaduto. Il che, non so come, subito fu raportato a Simone. Egli, inteso questo, andò a casa il luogotenente criminale e li denonziò come inteso aveva che Giulio suo servitore aveva anciso il Deodati e fuggito via. Il luogotenente, avuta questa informazione, se ne andò a trovare uno suo zio, uomo vecchio e ne gli giudicii molto pratico, che gli aveva rinonziato l’ufficio del luogotenente, e li disse ciò che de la morte del Deodati gli era stato denonziato. Li dimandò il vecchio se avea ritenuto il Turchi. Egli disse di no. Di che il zio agramente il ripigliò e gl’impose che subito il facesse sostenere. In questo mezzo quelli di Gieronimo, inteso il gravissimo e nefando caso, andarono a trovare alcuni de la nazione loro, amici di Gieronimo, per consultare ciò che fare deveano in questo caso; di modo che per Anversa l’atrocitá del nefario assassinamento cominciò divolgarsi. Il luogotenente criminale mandò subito per Simone, al quale, come fu giunto, commandò che di quella casa piú non si partisse. Egli rispose che saria ubediente. Notò il giudice che il Turchi, avuto il commandamento, tutto si cangiò in viso, e sospettò non mezzanamente di lui che fosse colpevole. Avea Simone ne la tasca lo scritto di mano di Gieronimo. Presolo adunque, si accostò al fuoco che in la caminata ardeva, e ve lo gittò dentro. Il luogotenente, veduto questo atto, il dimandò che cosa egli avesse arsa, ed ebbe per risposta che era uno poco di carta che non montava nulla. Mentre che questo si faceva, vennero gli amici del Deodati e con loro condussero il Piemontese, il quale, segretamente dal luogotenente esaminato, li narrò di punto in punto quanto gli era occorso. Egli disse agli amici del Deodati che stessero di buono animo e che si faria tutta quella giustizia che cosí enorme caso ricercava. Tenne appo sé il Piemontese, il quale, poi che gli altri andarono via, fece venire viso a viso col Turchi. Non seppe Simone negare che non avesse commandato al Piemontese che andasse al giardino e ubedisse a Giulio; ma che ciò fece, perché Giulio gli avea detto che bisognava movere alcune lettiere e accomodare, che solo fare non poteva. Nondimeno egli cosí freddamente il diceva, che diede grandissimo sospetto di sé. Il perché fu ristretto in carcere. Rimase il Piemontese in casa del giudice. Si mandò a pigliare il cadavero del Deodati e fu messo innanzi al Turchi piú per sodisfare a molti che dicevano che, se Simone l’avesse anciso, che le piaghe stillariano sangue. Ma questa openione è poco vera, e tanto piú nel proposito nostro, quanto che giá in quello corpo non ci era rimaso piú sangue. Fu interrogato il Turchi se conosceva di chi fosse stato quello corpo: rispose che li pareva quello del Deodati. Congregato il lor consiglio, li giudici disputarono ciò che era da fare cerca il Turchi, se potevano darli tormenti o no. Ed essendo varii di openioni, procedevano lentamente, parendo a molti che non ci fosse indicio a la tortura. E andando il fatto alquanto in lungo, Giulio, che era in Acquisgrani, si deliberò mandare uno messo in Anversa, sí per avisare il Turchi dove era, e sí ancora per farsi portare alcuni panni che teneva in Anversa in casa di una meretrice sua dimestica. Onde scrisse a Simone come era in Acquisgrani e che, se era interrogato de la morte di Gieronimo, che rispondesse che nulla ne sapeva, e che essendo il corpo trovato nel suo giardino, che fermamente credeva che Giulio fosse stato il malfattore; del che il fuggire di lui ne dava indicio apertissimo. Fatta questa lettera, informò uno contadino come si devea governare a trovare il Turchi, e lo mandò in Anversa. Andò il contadino, e scordatosi il nome del Turchi, né sapendo leggere, e investigando di quello, non so come, nominò Giulio romagnuolo. E perché si diceva per tutto che il romagnuolo avea assassinato il Deodati, vi fu uno borghese, dimestico del giudice criminale, il quale condusse il contadino a casa il giudice. Quivi il povero uomo, esaminato, diede la lettera al giudice che portava al Turchi. Letta il giudice la lettera e tornato di nuovo ad esaminare Simone, lo fece porre al tormento. Ma lo scelerato Turchi, secondo che era stato animoso a far morire Gieronimo, piagnendo come uno sferzato fanciullo, il suo assassinamento, senza aspettar tortura, timidissimamente confessò. Fatto il giuridico processo e dal reo ratificato, fu data la deffinitiva sentenzia e fu il Turchi condannato a essere arso publicamente su la piazza d’Anversa a fuoco picciolo e lento. Intesa che ebbe lo sciagurato Turchi la crudelissima morte che deveva sofferire, stette buona pezza come di sé fora, e quasi come disperato, non si sapeva disporre a morire, e pur sapeva essere necessario che in brevi morisse. Li fu mandato per disporlo a confessarsi e pazientemente sofferire la meritata morte in parte di sodisfazione de li suoi peccati, per la vertú de la passione del nostro Redentore; li fu, dico, mandato uno frate di santo Francesco, italiano, uomo di buonissimi costumi e molto eloquente. Egli, con l’aita del nostro signore Iddio, li predicò di modo e sí ferventemente l’esortò che il povero Turchi si confessò generalmente con grandissima contrizione, e si dispose patire la morte con tutta quella pazienza che fosse possibile. Lo pregò il santo frate che quando saria arso e che egli dicesse: – Simone, ora è il tempo de la penitenzia, – che volesse rispondere: – Sí, padre. – Promise il Turchi di farlo. Fu al determinato giorno inchiavato Simone su l’istessa sedia ne la quale era Gieronimo stato anciso, e, posto su uno carro, fu per tutte le strade di Anversa condutto, e sempre era seco il buono frate, che l’andava confortando. Ma come si giunse a la piazza, fu deposta la sedia con Simone dentro inchiavato, e da li ministri de la giusticia attorno li fu acceso il fuoco non molto grande. E cosí andavano aggiungendo de le legna secondo che bisognava, tuttavia perciò di modo che il fuoco non divenisse troppo veemente, ma tale che a poco a poco, per maggior sua pena, il misero Turchi si arrostisse. Gli stava messer lo frate tanto vicino quanto da l’ardore del fuoco gli era concesso, e assai sovente dicea: – Simone, ecco il tempo fruttuoso la penitenzia. – Il povero uomo, fin che ebbe lena di parlare, sempre rispose: – Sí, padre. – E per quanto egli si può per gli atti esteriori giudicare e comprendere, si dimostrò il povero Turchi una grandissima contrizione a pazienza, e prese in grado sí acerba e vituperosa morte, come era quella che lo sfortunato sofferiva. Come poi lo conobbero morto, prima che si finisse di essere dal fuoco in tutto disfatto, presero il mezzo arso corpo e lo portarono fora de la terra, e il misero sovra una alta trave incatenato con catene di ferro, e li cinsero a lato il pugnale pistolese col quale il Deodati era stato morto. Piantarono poi la trave in terra ben fondata su una corrente e maestra strada, acciò fosse da tutti veduto di che vituperosa morte fosse stato punito colui che il tale omicidio avea crudelemente commesso. Ora a me giova di credere che, trovandosi il misero Simone pentito de li peccati suoi e, come si dimostrò, ben disposto a morire, poi che necessario gli era essere morto, che poco si curasse di qualunque morte finisse la vita, pur che senza vergogna e vituperio fosse stato morto; con ciò sia cosa che non la qualitá del supplicio, ma la cagione è quella che rende la morte abominevole e ignominiosa. Può bene la vertú onorare qualunque sorte di morire; ma la morte, in quale modo si sia, non può ne la vertú porre macchia alcuna giá mai. Quando il contadino, che Giulio mandò con la lettera, fu dal giudice sostenuto, mandarono li magistrati d’Anversa uno ambasciatore in Acquisgrani al magistrato de la giusticia, per avere il perfido romagnuolo e acerbamente punirlo. Ma quelli signori nol volsero dare; e acciò che non restasse la sua sceleraggine impunita, fecero prendere esso Giulio, il quale confessò l’omicidio come era seguíto. Onde, avendoli fatto scavezzare le braccia, le coscie, le gambe e rotto il petto, lo tesserono in una ruota, ove fra dui dí meritamente se ne mori. Ma per ultimare, si può dire che chi ben pensa la fine de le azione sue, di rado opera male; e chi non ci pensa, vive e more come una bestia. Onde si può affermare questa nostra vita essere uno fluttuante oceano pieno di ogni miseria. Mi piace anco di dirvi che messer Gioanni il Biondo, che tradusse di latino in francese le croniche del Carione, ne le addizioni sue fa brevemente menzione di questo orrendo caso, nominando Simone Turchi e Gieronimo Deodati; acciò non si creda che io solo narri questo esecrabile assassinamento.


Il Bandello al magnifico ed eccellente


dottore de le cesaree leggi e pontificie


messer Gian Pietro Usperto salute


Sono mille anni che né voi mi scrivete cosa veruna, né di voi ho avuto novelle, se non quando ultimamente fuste, giá giorni e mesi molti passano, a Parigi, ove mi scriveste una vostra umanissima e amorevolissima epistola, a la quale io subito feci risposta. Dapoi, avendo inteso voi essere ritornato a Fano, a la cura di quello vescovato, per commissione del riverendissimo vostro cardinale, non vi ho piú scritto, non mi essendo occorso occasione alcuna. Ma non è giá che molte volte e bene spesso non abbia ragionato di noi, di quello modo che a la nostra vera amicizia si richiede e come conviene a le vostre singolari e rare doti. Voi non solamente iureconsulto consumato sète, ma avete a le umane leggi aggiunte le buone e recondite latine e greche lettere, di modo che, o scriviate in prosa o vero con le muse cantiate, in l’una e l’altra facultá mostrate chiaramente quanto sia il candore del vostro felicissimo ingegno, come ne le prose e versi vostri leggiadramente appare. Ora, per dirvi la cagione che mi move a scrivervi, vi dico che questi giorni venne qui uno mercatante genovese, messer Gioanni Rovereto, che dimora in Lione; il quale a madama nostra e a tutti noi altri narrò una mal pensata malizia de uno mercatante drappieri di Lione, che, volendo ingannare altrui, restò egli parimente il beffato e ingannato, come ne la novella che vi mando vederete, perciò che al vertuoso vostro nome la ho intitolata. Essa novella ci empí tutti di stupore e meraviglia, veggendo pure essere vero ciò che communemente si suole dire da molti: che questo mondo è una piacevole gabbia piena di diversi pazzi, che quando il capriccio entra loro in capo e si lasciano dagli sfrenati appetiti vincere, fanno le maggiori e sgarbate sciocchezze che si possano imaginare. E questo per l’ordinario aviene, perché sono di modo acciecati da le male regolate loro appetizioni, che non sanno pensare ciò che da le operazioni loro si possa di bene o di male causare. Ché quando pensassero al fine che ragionevolemente ne può seguire, io mi fo a credere che andebbero piú ritenutamente, e tanti errori non si farebbero tutto il giorno quanti veggiamo farsi. Ma tanto pare che di piacere ci doni lo adempire li nostri appetiti, che si benda gli occhi e ci fa strabocchevolemente senza ragione impaniarsi, come augelli presi con il vischio, che quanto piú cercano di vendicarsi in libertá, piú si trovano legati, e ogni fatica per svilupparsi è indarno da loro usata. E se di questi disordini non se ne vedessero molti tutto il dí, io vi addurrei mille esempli de l’etá vecchia e anco de la nova. Ma perché la cosa è chiara, come nel sereno cielo il sole da merigge, non accade citare testimoni innanzi a voi, cui questi disordini sono notissimi, ché certamente egli sarebbe, come si dice proverbialemente, portare le civette a la cittá di Atene. Ma perché novamente in Lione è accaduto uno caso di questi sgarbati, e molto disonesto, avendolo io scritto e parendomi degno del publico, per esempio di chi vorrá leggerlo, l’ho voluto a voi donare e col vertuoso vostro nome in fronte publicare. E ben che il Rovereto fosse il primo che ce lo narrò, nondimeno poi da uno mio singolarissimo amico, che in Lione dimora, ho avuti li nomi e cognomi di coloro che in la istoria intravengono. Accettate adunque questo mio picciolo dono, e, come fate, amatemi. E state sano.