Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XXVI

Quarta parte
Novella XXVI

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Il Gonnella fa una burla a la marchesa di Ferrara


e insiememente a la propria moglie; e volendo essa


marchesa di lui vendicarsi, egli con subito argomento si libera.


Ancora che voi, signori miei, siate su l’armi e abbiate dato alto principio a la felice impresa, avendo da l’assedio degli spagnuoli liberato Turino, che era ridotto al verde, e ogni dí andiate acquistando terreno, avendo giá ricuperate molte castella, io non credo giá che ne si disdica, tra la cura de l’armi, talora prendere uno poco di ricreazione, per essere poi a le fazioni piú freschi e piú vigorosi. Perciò, come bene ha detto il signor Galeotto, lasciamo le disputazioni a le scole e dottori, e mettiamo in campo alcuna piacevole beffa fatta da qualche buffone. E perché io ne ho una per le mani, che altre volte a Pavia udii narrare, quella ho deliberato di narrarvi. Devete adunque sapere che il Gonnella, essendo di origine fiorentino, si partí a posta da Ferrara per andare a Firenze, con licenza del marchese Nicolò da Este, per prender moglie; ove prese una monna Checca Lappi, che era giovane assai bella e molto accostumata, e quella a Ferrara ne condusse in una sua casa vicina al palazzo, che era assai agiata e bene a ordine, e provista di tutto ciò che a una casa di uno cittadino fa mestieri. Quivi la tenne egli cerca diece giorni, e, trovando certe sue scuse, non volle, da andare a la messa in fuori, che pratticasse con persona. Fu rapportato a la signora marchesa come la moglie del Gonnella era venuta, e che era tutta galante e forte bella, mostrando negli atti suoi molta leggiadria. Venne voglia a la marchesa per ogni modo di vederla; onde disse al Gonnella: – Io vorrei pure che ormai tu ci lasciassi vedere questa tua sposa, e permetterle che pratticasse con le mie damiselle. – Il Gonnella, che altro non aspettava che di essere richiesto di questa cosa, volendo rispondere a la marchesa, si lasciò pietosamente uscire uno gran sospiro e disse, facendo quasi vista di lagrimare: – Deh, madama mia, non vi curate di vedere le mie penaci angoscie, perché, veggendo mia moglie, voi non potrete ricevere piacere veruno, anzi vi sará cagione di fastidio grandissimo. – Come! – soggiunse la marchesa. – Tu sei errato, perché a me recherá ella consolazione non picciola, e per amore tuo io la vederò volentieri e la accarezzerò. Falla, falla venire. – Il Gonnella allora rispose: – Madama, io farò ciò che vorrete. Ma per Dio! che gioia potrete voi ricevere da quella, non potendo seco ragionare, perché ella è di modo sorda che chi con lei parla, se non grida altissimamente, non può da quella essere udito? Ha poi ancora presa cotesta mala usanza: che se parla con chi si voglia, credendo, come ella è sorda, che ciascuno sia di tale sorte, ella quanto piú alto può grida, cosí che pare forsennata. – Non si resti per questo, – disse la marchesa, – ché io parlerò sí alto seco che mi intenderá. Va pure, e falla venire per ogni modo. – Sia con Dio! – rispose il Gonnella; – io vi ubedirò. Bastami che vi abbia avertita, ché non ripigliate poi, e sgridarmi col dirmi villania. Io vado, madama, di lungo a casa. – Andò dunque e, trovata la moglie, appo quella si assise e le disse: – Checca mia, io fin qui non ti ho voluto lasciare pratticar per questa cittá, aspettando l’occasione che prima tu potessi far riverenza a la signora nostra marchesana. Ella patisse una infermitá, che assai sovente la molesta; perché ora la terrá occupata otto dí, ora quindeci, ora uno mese, e ora piú e meno, secondo che la luna fa il suo crescimento e decrescimento. Questo suo male è sí maligno, che la fa di modo sorda che conviene, a chi parla seco, gridare a piú alta voce che sia possibile. Ella medesimamente, mentre questo suo umore le dura, non sa né può parlare che non gridi. Pensa pure che il signore marchese non ha lasciato cosa a fare, e fatto venire li piú solenni medici di lontani paesi, che si possano trovare, per darle alcuno compenso. Il signore da Carrara, prencipe di Padoa, padre di essa marchesa, anco egli vi si è affaticato assai e ha mandato medici eccellentissimi; ma il tutto è stato indarno, perché tutti li rimedi punto non giovano. Questa mattina ella mi ha rotta la testa parlando, e commandato che io ti faccia andare a corte, perché ad ogni modo ti vuole vedere e parlar teco. Sí che dimane doppo pranso ti metterai a ordine, ché io vuo’ che tu vada a farle riverenza. Come tu sarai intrata in camera, le farai tre belle riverenze e con altissima voce inchinevolemente le dirai: – Bene stia madama la marchesana, mia soverana signora e padrona. – Ella subito ti risponderá, con alta voce gridando, che tu sia la ben venuta. Tu te le accosterai e le bacierai le mani, ed ella faratti dare da sedere. Fa che tu saggiamente le risponda, come so che farai. – La buona mogliera credette troppo bene questa cosí mastramente ordita favola. Era allora essa marchesa a Belfiore, palazzo che in quelli tempi si trovava fora de la cittá vicino al convento degli Angeli, che ora si vede ne la cittá nova, perché il duca Ercole, di questo nome primo, ampliando la cittá, lo fece restar dentro le nòve mura. Venuto il seguente giorno, come disinato si fu, monna Checca a l’ordine si mise, e tutta polita, con due sue donne e uno servitore, se ne andò verso Belfiore. Il Gonnella, trovato il marchese insieme con molti cortegiani che dal castello andavano a Belfiore, disse loro la beffa che ordita avea, e tutti gli invitò a vedere la comedia. Andò il marchese con la compagnia su una loggia del palazzo, la quale avea uno gran fenestrone che rispondeva dentro la sala, dove la marchesa, per istare al fresco, si era ridutta con tutte le sue donne. Vi erano anco alcuni cortegiani e gentiluomini, e chi parlava e chi giocava. Arrivò allora il marchese su la loggia, cheto cheto, che monna Checca intrò in sala; la quale, fatte le sue tre belle riverenze, cominciò a piena e altissima voce salutare la marchesa, che medesimamente, per non causare dissonanzia, in quello altissimo tuono fece risposta. A cosí ridicolo spettacolo, perseverando madama e monna Checca a parlare piú alto che potevano, non potendo il marchese e gli altri che erano su la loggia contenere le risa, il Gonnella si affacciò al fenestrone e ridendo cominciò ad alta voce dire: – Olá, che romore è cotesto che io sento? – Disse il marchese: – Finite la vostra comedia, o signore, ma parlate piú basso. – Cosí intraviene, – soggiunse il Gonnella, – a chi è sordo. – Poi discesero a basso, e intrati in sala, il marchese disse il fatto come era, e che il Gonnella era quello che questa trama avea ordita. Mostrò ne l’apparenza la marchesa prendere da scherzo questa truffa, ma a dentro era tutta piena di veleno e in se stessa si rodeva, e pareale non istare mai bene se contra il Gonnella a doppio non si vendicava, dandogli ischiacciata per pane con centuplicata usura. Celando in petto poi il conceputo sdegno, aspettava alcuna occasione, tuttavia pensando a la vendetta. Fra questo mezzo ella scherzava col Gonnella come prima, di modo che pareva che de la beffa piú non si rammentasse. Onde quando le parve avere assicurato il Gonnella, communicò al marchese quanto ne la mente coceva, e caldamente lo pregò che degnasse in questo caso aiutarla. Il marchese largamente le promise fare quanto ella voleva, e amorevolemente la avertí che guardasse bene ciò che faceva, perché il Gonnella era tanto aveduto e scaltrito che saperebbe in uno tratto schifare tutti i suoi inganni. – Bene istá, – disse ella; – degnatevi pure fare ciò che io vi ricerco, e del remanente non vi caglia, e lasciate fare a me, e conoscerete che io saperò assai piú di lui. Se io non lo gastigo, mio sia il danno, pur che voi non lo avertiate di nulla. – Aveva la marchesa fattosi secretamente portare uno gran fascio di bacchette di cornio, grosse come uno buono deto, e poi ammaestrate le damiselle e altre sue donne de la casa di quanto volea che facessero; e tra loro aveva distribuite le bacchette. Sapendo il signore marchese ogni cosa essere a ordine, disinando, chiamò a sé il Gonnella, e pian piano li disse a l’orechia: – Va e dirai a mia moglie che di quello negozio, che ieri ella mi ragionò, io ne ho parlato col gentiluomo che sa, e che io lo trovo molto mal disposto a l’accordio, allegandomi certe sue ragioni, le quali mi paiono assai apparenti, per le quali ha deliberato che per ogni modo la lite si veggia e se giudichi nel mio consiglio, e che io non lo voglio né debbio sforzare. – Andò il Gonnella verso le stanze de la marchesa, e non essendo ancora fora de la sala ove il signore desinava, esso marchese il tornò a chiamare e li disse: – Tu le potrai far intendere che ella le faccia parlare dal guardiano de li frati di San Francesco, ché mi è detto che molto di lui può disponere, e che io altro rimedio non saprei trovarli, né miglior mezzo di questo guardiano. Faccia mò ella. – Il buono Gonnella, che nulla sapeva de l’ordine posto da la marchesa, né che questa ambasciata fosse vana e una cosa finta, andò allegramente ad eseguire quanto dal suo signore gli era stato imposto. Trovò adunque che la marchesana non si era ancora messa a tavola, essendosi quella mattina assai tardo levata di letto. Come ella vide il Gonnella, li fece uno bonissimo viso e li disse sorridendo che fosse il bene venuto, e che buone novelle reccava. Il Gonnella, fattale la convenevole riverenza, se le accostò, e con molte parole le ispose la finta favola de l’ambasciata del signor marchese. Mentre che egli parlava a la marchesa una de le damiselle serrò l’uscio de la camera che rispondeva in sala, e tutto a uno tratto uscirono da una salvaroba tutte le damiselle, massare e serventi de la marchesana, succinte e armate di quei bastoni verdi di cornio, di maniera che pareano proprio li farisei con la squadra de li soldati che volessero pigliare Cristo. E gridando dicevano: – Tu sei pure, Gonnella, Gonnella ribaldone, ne le mani nostre, e hai a la fine dato del capo ne la rete. A la croce di Dio! ora non ti valeranno le tue magre buffonerie. – Ridendo allora disdegnosamente, la marchesa, minacciandolo con la mano, cosí li disse: – Gonnella, asino che sei, tu ci hai fatte tante burle, che il debito vuole che noi sovvra la persona tua acerba vendetta di mano nostra prendiamo. Su su, damiselle! E voi, donne, che fate? – Il Gonnella, veggendosi còlto a l’improviso da quella turba di femine, armate tutte di bastoni e despositissime di fargli uno strano scherzo, aiutato da subito consiglio, rivoltato a la marchesana, disse: – Madama, io vi supplico che per amore del signore marchese, voi degniate farmi grazia di ascoltarmi solamente diece parole; e poi pigliate, voi e le damiselle vostre, tutto quello strazio di me che piú vi aggrada. – Che vuoi tu?/ – rispose ella. – Di’ pure ciò che tu vuoi, perché tu non saprai tanto dire che tu possa fuggire questo acerbo gastigo che ti voglio far dare, ladro e ribaldone truffatore che tu sei. Su, di’ di’! Non tardare piú. – Allora il Gonnella: – Madama, – disse, – io supplico voi e tutte queste vostre damiselle e donne, che quella di voi, che ha posto il cimiero de le corna in capo al suo consorte, compiacendo del corpo suo a chi si voglia, e prego ancora quelle che non sono maritate e che si sono sottoposte agli amanti loro, che siano le prime a battermi, e non mi abbiano in conto alcuno una minima compassione. – Udendo questa cosa, le donne restarono tutte confuse, non sapendo che farsi. Nessuna voleva essere la prima a percuoterlo, per non parere femina disonesta. E dicendo tra loro che non erano mica donne di mala vita, e contendendo con dire l’una a l’altra: – Va tu, va tu! – il buon Gonnella con il timore de le future battiture, che credea avere, aggiungendo ale a li piedi, in dui passi saltò a l’uscio, e aprendolo se ne corse ove il marchese disinava. Esso marchese, come il vide, li dimandò che risposta la marchesa gli avea fatta. – Risposta! – disse il Gonnella. – Il cancaro che vi venga, messer lo compare di Puglia! Voi sète uno galante uomo a mandare il vostro povero Gonnella al macello in mano di quelle arpie. Ma, mercé di Dio, io sono fuggito. – Indi narrò come fatto avea, e da tutti fu lodato il suo avedimento. La marchesa non si voleva dare pace che l’amico se ne fosse ito senza acqua calda. Tuttavia poi si pacificò, conoscendo che per una beffa, che di lei al Gonnella si facesse, egli era uomo per vendicarsene a doppio, non si potendo con lui guadagnare veruna cosa, tanto era scaltrito.


Il Bandello a monsignor monsignor Guglielmo Lurio signor di Lunga,


senatore regio a Bordeos, signor suo onorando salute


Io mi persuado, monsignor mio osservandissimo, che ne li giudicii, che tutto il dí nel vostro Senato si fanno, si debbiano ne li casi criminali trovare molti eccessi enormi meritevoli di gastigo straordinario, sia pure tanto grave quanto che ogni crudelissimo tiranno imaginare si sapesse. E de la gravissima pena che si dá a le sceleraggini de gli ribaldi, che tutto il dí fanno le sconcie e esecrabili cose, assai sovente in diversi luoghi di questo gran regno se ne veggiono chiarissimi esempi. E questo non ostante, tanta è la pessima malvagitá di molti, o venga da la loro per vizii corrotta natura, o vero da la viziosa educazione e nodritura che da fanciulli avuta hanno, o da che che si sia, che non si vogliono o non sanno, – io non dirò mai che non potessero,– ammendarsi. Con questi adunque non giovano le forche, non vagliono li ceppi e le manare, non lo squartargli a brano e spesso arrostirgli, a modo di perdici e di altri augelletti, a fuoco lento. Onde dico che non si può metter loro una dramma di terrore, che non perseverino ogni ora operando di male in peggio, mercé del guasto e corrotto mondo, non solamente per la cristianitá, ma anco per le regioni degli infedeli. Ora io non so giá se da molti anni in qua tanto inaudito e orrendo caso sia stato dedutto al vostro parlamento, come qui si nomina il senato, quanto questo anno passato è in Fiandra dentro la famosa terra d’Anversa avenuto. Il che non è molto che ci narrò qui a Bassens, a la presenza di madama Gostanza Rangona e Fregosa, Nicolò Nettoli, mercatante fiorentino. Veniva egli da Parigi per andare a Bordeos; e dimandato se nulla avea di novo, ci narrò l’istoria come era successa, ritrovandosi egli allora in Anversa. La cosa ci empí tutti di meraviglia e d’orrore. Io, per aggiungerla a le altre molte mie novelle, la descrissi, e subito mi deliberai al vostro generoso e dotto nome dedicarla. Non mi sono giá messo a mandarvela, perché io giudichi che la cosa sia degna del vostro valore, ché non sono cosí poco giudicioso che io non conosca voi essere per nobiltá di sangue riguardevole, per le cesaree, pontificie e municipali leggi de la Francia dottore consumatissimo, per la esercitazione de li giudici peritissimo e segnalatamente prattico e espertissimo e di ciascuna azione vertuosa ornatissimo. Che dirò poi io de la cognizione che de le buone lettere latine e del vostro facondo e castigatissimo stile, in cui pochi vostri pari e nessuno superiore avete? Meritavate adunque, monsignor mio, per le vostre native e acquisite rarissime doti e per l’amore che di continovo verso di me a mille segni dimostrate, cosa assai piú degna di cotesta. Ma chi altro non ha e dona ciò che è in potere suo, cotestui molto dona. Aveva io questa istoria ne la terza parte de le mie novelle mandata a Lucca a stampare. Ma alcuni parenti di Simone Turco, cittadino lucchese, non contenti che io avesse loro concesso che fosse stampato che esso Turco non fosse del vero legnaggio di quella famiglia, fecero inibire a lo stampatore da quella eccelsa Signoria di Lucca che detta istoria non imprimesse, istimando che a la famiglia loro molta infamia apportasse, quasi che il vizio di uno debbia infamare uno altro che nel vizio non partecipi: la scelerata vita e pessimi costumi di Domiziano a la bontá di Tito punto non nocquero. Essi nel vero di gran lunga si ingannavano, se credevano che cosí segnalata sceleraggine come Simone Turchi in Anversa commise, luoco in tutta Europa anzi ne l’universo nominatissimo, potesse occultarsi. Il dottissimo Cardano nel suo libro De la suttilitá de le cose con due righe ne fa menzione e meritevolemente il vitupera. Ora che io ho d’Italia alquante mie novelle ricuperate, oltra molte che appo me erano, mi sono resoluto mettere la quarta parte di esse novelle insieme e darle fore, e fare che questa del Turco per ogni modo vi sia. Accettate adunque, monsignore, il mio picciolo dono con quello animo che io ve lo mando, e degnatevi tenermi ne la vostra buona grazia. Feliciti nostro signore Iddio ogni vostra azione, dandovi il compimento di ogni vostro disio. State sano.