Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella IV
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Novella IV
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Arnolfo duca di Gheldria dal proprio figliuolo è privato del dominio
e posto in prigione. Dapoi, essendo restituito nel ducato, priva il figliuolo
de la ereditá, e da’ gantesi esso ribaldo figliuolo è vituperosamente morto.
L’aviso de la morte di quello povero vecchio m’induce a pensare che la madre di quello bestiale figliuolo debbia avere ingannato il marito, e che egli del seme de l’ucciso vecchio non nascesse giá mai, tanto, eccellentissimo signor marchese, mi pare strano e fore di ogni naturale instinto che il figliuolo debbia incrudelire contra il proprio padre. Tuttavia, non essendo costui da Sermedo il primo che si abbia bruttate le mani ne lo sangue paterno, e avendo Selimo del mille cinquecento dodici fatto avelenare Baiazete suo padre per farsi imperadore di Costantinopoli, non potendo aspettare la morte naturale di quello, che pur era vecchio; e molto innanzi a lui, avendo Fresco da Este, per farsi signore di Ferrara, con le proprie mani strangolato Azzone suo padre, marchese di Ferrara, mi fa stare sospeso. Né so imaginarmi come simile ferina e barbara crudeltá da uno figliuolo si possa nel proprio padre perpetrare. E ancora che paia senza dubbio tra tutte le nazioni barbare e infideli, che non vogliono conoscere Cristo, atto nefandissimo questo enorme vizio di battere non che ammazzare li suoi parenti, molto piú mi fo io a credere che sia degno di vie maggiore biasimo e eterna infamia quando tra persone cristiane si vede essere usato. Ora, riduttomi a memoria uno orribile e fierissimo misfatto, che non è gran tempo che in Gheldria seguí, – che anticamente fu Sicambria chiamata e ha li suoi campi con le castella tra la Mosa e il Reno, – penso che al signor marchese e a voi altri, signori, non dispiacerá che io lo vi racconti. Devete dunque sapere che, correndo gli anni de la nostra salute millequattrocentosettanta, poco piú o poco meno, si ritrovò in Gheldria duca di quella provincia il signor Arnolfo, di etá molto vecchio, che ai giorni suoi, stato cavaliere de la persona valente e ne l’armi esercitato, si aveva acquistata in diverse imprese grandissima fama. Egli ebbe per moglie una sorella del duca di Clèves, de la quale generò uno figliuolo nominato Adolfo, cui diede una sorella del duca di Borbone per moglie, e fece le nozze con grandissima pompa. Esso Adolfo pratticava molto intrinsecamente col duca Carlo di Borgogna, grandissimo nemico del duca di Lorrena e di svizzeri. Era Adolfo di pessimi costumi e fora di misura crudele e desideroso di dominare. Parendoli pure che il padre suo troppo tardasse a morire, ancora che lo vedesse quasi decrepito, ebro del disordinato appetito di farsi signore, non volendo a patto veruno aspettare il morire naturale di quello, corruppe molti servitori di detto suo padre; e apprestate le insidie, una sera, essendosi il povero vecchio ridutto a la sua camera per andare a letto, non temendo del figliuolo, – e chi teme il figliuolo?, – intrò in camera del padre l’empio e scelerato Adolfo con gli armati suoi, non meno di lui ribaldi e crudeli. E, violentemente prese lo sfortunato vecchio, e giá disvestito e discalciato, come lo trovò, nefariamente lo mandò via quasi ignudo, ben che fosse di genaio, e lo fece condurre scalzo e a piedi cerca cinque miglia de le nostre, che sono piú di venti italiane, a uno suo castello, ove in uno fondo di una fortissima torre, che lume alcuno non aveva, senza pietá lo imprigionò, quivi tenendolo per ispazio di sei mesi in gravissimi disagi. Il duca di Clèves in favore di Arnolfo suo cognato prese l’armi contra il nipote, e con danni del paese si sforzò di farlo liberare; ma nulla puoté ottenere. Vi si affaticò anco Carlo duca di Borgogna, per accordare il figliuolo col padre, e niente ottenne. Udita papa Sisto quarto cosí nefanda sceleratezza, mandò uno nonzio a Federico imperadore, padre di Massimigliano, e lo esortò a porre mano a sí enorme caso. Onde Federico e Carlo di Borgogna, intervenendo l’autoritá del papa, fecero tanto che Arnolfo fu cavato di carcere. Ma, non volendo Adolfo dare al padre né terre né intrata per vivere, il povero vecchio ne la corte cesarea mosse lite contra il perfido figliuolo. Oltra poi la lite civile, ancora che fosse dagli anni de la vecchiaia rotto e stanco, e da la teterrima prigionia fore di modo afflitto, nondimeno, essendo di buona abitudine e di vecchiezza vivace e forte, aiutato da la generositá de l’animo suo, si offerse dentro uno steccato combattere col figliuolo. Il duca Carlo voleva che il titolo del ducato fosse del vecchio, con Grave, castello vicino a Brabante, che valea tre milia fiorini di Reno di intrata, e che altri tre milia Adolfo li desse di provisione; e a esso Adolfo rimanesse il resto del ducato. Il traditor figliuolo, udito questo, ebro di sdegno e forse anco di vino, disse: – Io, prima che fare questo accordio con Arnolfo, – né degnò nominarlo padre, – vorrei piú tosto, quando egli era in mio potere, averli fatto tagliar la testa e gettatolo in uno pozzo, e poi io istesso trattomi dietro a duello. – A questa vituperosa risposta il duca Carlo, di giusta ira commosso, fece imprigionare Adolfo in Namur, e restituí, come era condecente, il vecchio Arnolfo nel ducato di Gheldria. Dimorando in prigione lo scelerato Adolfo, il duca Arnolfo suo padre, veggendosi essere vicino a la morte, fece testamento; e per mostrarsi grato del beneficio ricevuto, instituí il duca Carlo suo legittimo erede, avendo prima giuridicamente privato de la successione il figliuolo. E cosí il duca di Borgogna aggiunse a’ tanti suoi stati e provincie, che possedeva, il ducato de la Gheldria, e quello pacificamente tenne sino che fu da Renato duca di Lorrena e da’ svizzeri in battaglia campale morto. Allora quelli di Gantes cavarono di prigione Adolfo e lo condussero innanzi a Tornai, metropoli de li Nervii, e quivi vituperosamente, come meritava, lo uccisero, cosí permettendo nostro signore Iddio in vendetta del tristo trattamento e ingiurie che al padre fatte avea.
Il Bandello a l’illustrissima ed eccellentissima eroina
madama la signora Antonia Bauzia marchesa di Gonzaga salute
A le onorate e sontuose nozze, che a Casalemaggiore, diocesi di Cremona e vostro castello, cosí magnificamente celebraste, quando che a la vertuosa signora Camilla vostra figliuola deste per marito il valoroso barone il signore marchese de la Tripalda; a quelle nozze, dico, degnò con una umanissima lettera essa signora Camilla, essendo io in Milano, invitarmi e menacciarmi fieramente se io non veniva. E per dare maggior autoritá a essa lettera, ci erano scritte cinque linee di mano vostra, commandandomi che io non mancassi di venire, perciò che nessuna mia iscusazione si sarebbe ascoltata. Era bene assai questa lettera a farmi volare per le poste, se io fosse allora stato gravissimamente infermo. Ma ecco che Gabriele staffieri una altra lettera mi diede, che anco scrissero li dui veramente veri eroi magnanimi vostri figliuoli, il signore Federico e il signor Pirro, li quali mi denonziavano la privazione de la grazia loro, a me a par de le pupille degli occhi miei e vie piú cara assai, se io subito non veniva. Da tanti sí cari e sí dolci commandamenti astretto, lasciato da canto ogni altra cura, di lungo a Casalemaggiore me ne venni. Che dirò io de le umane accoglienze e amorevoli carezze, che fatte da tutti voi mi furono, che certamente maggiori essere non potevano? Ma non è pur ora che io comincio conoscere e isperimentare la magnanimitá, cortesia, liberalitá, amorevolezza e indicibile umanitá e le carezze di questa eccellentissima e eroica casa di Gonzaga, avendone tante volte veduto e per isperienza toccato con mano tanti effetti. Quivi giunto, trovai che giá di Lombardia, del Regno e di altri luoghi d’Italia erano venuti molti segnalati gentiluomini, baroni e gran personaggi a onorare le dette nozze, e tutti con somma tranquillitá secondo li gradi loro agiatamente alloggiati. Erano di giá cominciate le feste, dove chi ebbe voglia di danzare puoté di liggiero sodisfare al suo appetito, perché sempre ci furono eccellentissimi sonatori di varii stormenti musicali. Si fecero anco di molti giuochi, che a la brigata diedero diletto grandissimo. Vi intervennero giocolatori e buffoni, li quali assai fecero gli spettatori ridere, di modo che il tempo si passava molto lietamente. Ora, essendo li caldi fora di modo eccessivi, per la stagione che cosí richiedeva, voi uno giorno ne l’ora del meriggie, trovandomi io assiso appo voi, vi levaste e mi prendeste per mano, accennando al signor Pirro e a la signora sposa e a molti altri che vi seguitassero; onde ci guidaste in una sala terrena meravigliosamente fresca. Vennero vosco molti signori e signore, e essendosi ciascuno, come in destro gli veniva, assiso, poi che si fece silenzio, voi cosí, cominciando a parlare, diceste: – Io vi ho, signori miei, levati fora di quella sala, perciò che oltra il caldo, che fa grandissimo, la turba di tanto popolo, che ci è concorso, con l’alito il reacnde vie piú maggiore; onde penso che questa stanza, che è freschissima, sará assai piú salutifera per noi. E per essermi caduto ne la mente uno non forse cattivo pensiero, ho tra me deliberato, se a voi cosí parerá, che lasciamo li suoni in quella altra sala, e che noi qui ragioniamo di quello che piú ci piacerá, per passare questa ora, per lo caldo da meriggie, molto fastidiosa. Se poi ci fosse alcuno di voi che avesse qualche bella istoria per le mani, che non fosse molto divolgata, e la volesse narrare, io mi fo a credere che tutta questa onorata compagnia piú che volontieri se ne starebbe ad ascoltarla. – Rispuosero tutti che questo era stato uno ottimo pensiero e che si devea mettere ad execuuzione. Il signor Pirro allora disse – Veramente, madama ci consiglia prudentemente. – E rivolto verso uno gentiluomo borgognone chiamato Edimondo Orflec, che lungo tempo in Italia avea militato e del signor Pirro era dimestico, lo pregò che quella istoria volesse racontare de la quale a Bozolo gli avea parlato. Il borgognone, senza altre preghiere aspettare, la istoria narrò, la quale tutti ci riempí di stupore e di pietá, il che molti uomini, e de le donne assai, apertamente dimostrarono, non potendo a modo alcuno contenere le pietose e compassionevoli lagrime. E perché l’istoria è alquanto lunghetta e ci intravengono di varii effetti, io col mezzo del signor Pirro dal gentiluomo borgognone ottenni che, per poterla intieramente, secondo che la narrò, descrivere, a la mia camera me la replicò. Onde io, acciò che di memoria non mi uscisse, tutte le parti principali annotai, per distenderla poi diffusamente come ne avessi la opportunitá. Ritornato adunque a Milano, essa istoria a pieno annotai, e con le altre mie novelle mettendo, al generoso vostro nome volli che restasse dedicata. Giovami credere che debbia esservi non mezzanamente cara, con ciò sia cosa che, quando narrare l’udiste, sommamente la lodaste e per pietá degli sfortunati amanti quelli con calde lagrime accompagnaste, biasimando chi de la morte loro fu cagione. E veramente il caso meritevolemente è degno di pietá e di compassione. Sará sempre essa istoria per essempio agli incauti giovani, che imparino temperatamente ad amare, e ciò che non vogliono che si sappia, che nol ridicano a persona. Resterá anco al mondo testimonio de la mia servitú e osservanza verso voi e tutta la illustrissima casa vostra. E a la buona grazia vostra inchinevolmente mi raccomando, e prego nostro signore Dio che vi doni il compimento di ogni vostro disio. State sana.