Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella V
Questo testo è completo. |
Novella V
◄ | Quarta parte - Novella IV | Quarta parte - Novella VI | ► |
Lungo, fortunato e segreto amore di dui amanti, che in grande gioia
vissero congiunti insieme per nodo maritale. Scopertosi poi il caso loro,
per malignitá de la duchessa di Borgogna, amendui miseramente se ne morirono.
Per sodisfare a quanto io promisi al valoroso signore Pirro, madama eccellentissima, io dirò una pietosa istoria avenuta nel tempo de li nostri avoli in la nobilissima provincia de la Borgogna. Quindi potranno e uomini e donne imparare a non sottoporre cosí sfrenatamente il collo al giogo periglioso d’amore, che di modo restino incatenati che, volendo poi essere liberi, non possano l’intricato laccio a lor voglia disciogliere e anco romperlo. Dico adunque che in Borgogna, quando che tutta intieramente era da uno prencipe amministrata, fu uno generoso duca che aveva una assai bella donna per moglie, che, essendo la prima moglie morta, ne le seconde nozze sposò, la quale fu da lui sommamente amata, non conoscendo a pieno le condizioni di quella, che, essendo poco vertuosa, scaltritamente celava la sua perversa natura. Aveva il duca in corte per suo molto favorito uno gentiluomo, vertuoso e dotato di tutte quelle buone parti che a fare uno perfetto corteggiano si ricercano, di modo che per li suoi castigati costumi e cortese e gentilissima natura era da’ piccioli e grandi amato e riverito. Il duca, che da picciolo fanciullo l’avea allevato e nodrito, per le sue ottime qualitá molto l’amava, e conoscendolo di sangue nobilissimo, ma de li beni de la fortuna poco ricco, gli aveva fatto del bene assai e donatogli alcune castella, fidandosi di lui in ogni affare come di se stesso proprio, in ogni facenda sua seco consigliandosi e sempre ritrovando il suo consiglio savio e buono. Or la nova duchessa, non si contentando degli abbracciamenti del duca, desiosa ritrovare uno che meglio le scotesse talora il pelliccione, e non avendo rispetto al grado ove era e a l’amore e ottime demostrazioni che il marito le faceva tutto il dí, avendo piú e piú volte posti gli occhi addosso al vertuoso giovane, che Carlo si chiamava, e quello essendole fora di misura piacciuto, sí per la beltá che in lui fioriva e altresí per le buone e lodevoli parti che in lui vedeva, oltra il dovere e ogni convenevolezza, non considerando l’onore suo né del marito, che era sí alto prencipe, fieramente di Carlo si accese. Né si poteva saziare di rimirarlo ogni volta che in destro le veniva, che era cento volte il giorno, perciò che egli mai non si levava dal lato del prencipe, che di perfetto core serviva e come uno dio terreno onorava. Non ardiva ella parlarli di amore, ma si sforzava con gli occhi e amorosi sospiri farlo capace de l’ardente fiamma che miseramente la tormentava. Ma il tutto era indarno, perché Carlo altrove aveva i suoi pensieri e a cosa che ella si facesse non metteva mente. Per il che l’affocata donna, vinta dal suo libidinoso appetito, non si potendo piú contenere né aspettare di essere pregata, deliberò essere quella che le sue amorose e mordaci passioni a Carlo discoprisse. E, non le parendo poter con lettere sí bene esprimere l’amoroso suo fuoco come a bocca fatto averebbe, accompagnando le parole con venticinque lagrimette e altri tanti ardenti sospiri, uno dí che il duca era retirato a parlamento segreto, serrato in camera con l’ambasciatore del re di Francia e alcuni de li suoi consiglieri, ella, pigliata la opportunitá, chiamò a sé Carlo; e, mostrando avere cose d’importanza da conferir con lui, intrò su una loggia e seco passeggiando li cominciò a dire: – Io sono forte meravigliata de li casi tuoi, che essendo tu nel fiorire de la tua giovanezza e riputato il piú bello e vertuoso cortegiano di questa nostra corte, come esser possa che ancora tu non mostri amar qualcuna di tante belle dame e leggiadre damiselle che qui pratticano. Tu puoi pur vedere che in corte non ci è gentiluomo che con alcuna di queste donne non si intertenga e non faccia, come si costuma dire tra noi, «allianza», chiamando quella per cugina, quell’altra per sorella, quella per cognata o per consorte o sua grande amica; e tutti per l’ordinario fanno il servitore de le dame. Ma tu con nessuna ti dimestichi. Io saperei volentieri onde nasce questa tua salvatichezza. – Carlo allora molto riverentemente in questa guisa le rispose: – Madama, se io credessi essere degno che alcuna di queste dame si potesse abbassare a mettere i suoi pensieri in me, forse che io ardirei talora presentare il mio servigio a una di loro. Ma dubitando, come di leggiero potrebbe accadere, essere disprezzato e che di me si gabbassero, mi fa che io non oso mettermi a quale si sia impresa amorosa. – Non dispiacque la saggia risposta del giovane a la duchessa, anzi le parve che in lei l’amore piú fervente verso lui crescesse; onde con voce quasi tremante li disse: – Io ti assicuro, Carlo, che non ci è cosí alta dama in questa corte né in tutti questi paesi che non si tenesse bene aventurosa se tu degnassi esserle amante e, come si usa, farle la corte. – Mentre che la duchessa parlava, che era faconda parlatrice, Carlo teneva gli occhi chinati a terra, non osando mirarla in viso; e preso da quella congedo, se ne andò altrove. Il che forte dispiacque a la duchessa, che desiderava con lui tener piú lungo proposito. E ben che diverse fantasie passassero per mente a Carlo, nondimeno egli non mostrò giá mai sembiante alcuno, né in gesti né in parole, che paresse che avesse penetrato la intenzione e volere de la duchessa, governandosi né piú né meno come da prima era solito; cosa che in vero a quella, che altro voleva che parole, infinitamente era molestissima e cagione di amarissima vita. E ancor che ella, per essere forte bella e per lo grado che teneva, desiderasse essere pregata e ripregata; tuttavia, veggendo uno tale contegno quale Carlo teneva, facendo vista di non accorgersi in modo veruno de le fiamme di lei che miseramente la distruggevano, non possendo piú sofferire tanta pena, deposto ogni timore e vergogna, tra sé conchiuse essere quella che il suo amore a Carlo discoprisse e umilmente lo supplicasse che volesse avere di lei compassione. Onde, trovatolo uno dí tutto solo, con bassa voce li disse: – Carlo, io ho da conferir teco di affari di grandissima importanza. – Egli con debita riverenza le rispose: – Madama, eccomi presto a ubedirvi in tutto quello che per me fare si può. – Se ne andò la duchessa allora a una finestra, assai lunge da tutti coloro, uomini e donne, che colá entro erano, e volle che egli appo lei a quella si appoggiasse, e intrò a parlarli del primo proposito, riprendendolo che ancora non si avesse eletta alcuna dama per sua suprema donna, offerendosegli in ogni evento di essergli aiutrice e favorevole. A questo rispose Carlo: – Giá, madama, vi ho detto, e ora anco vi dico che la grandissima paura che io ho di essere sprezzato non mi lascia intrare in questo periglioso labirinto di amore, perché io conosco il temperamento del mio core, che se una volta io mi vedessi del presentare il mio servigio essere recusato e non esaudito, io mai piú in questo mondo non viverei gioioso, e il viver mio saria peggio che morte. – La duchessa allora, venendo nel viso colorita come rosa matutina a l’apparir del sole, sperando vincerlo e acquistarlo, tutta tremante li disse: – Carlo, tu grandemente sei errato e for di modo ti inganni, perché io conosco, se tu vuoi essere vero e leale amante, che la piú bella dama di questa compagnia si riputerá beatissima se tu ti disponi ad amarla, e, donandoti l’amore suo, ti fará di se stessa signore. – A questo soggiunse egli che non si poteva persuadere che in quella onesta compagnia si trovasse dama sí cieca e male aventurosa che lo credesse buono per lei. La duchessa, veggendo che egli non la sapeva o piú tosto non la voleva intendere, conoscendolo aveduto e scaltrito, si deliberò, come dire si suole, cavarsi la maschera e cominciare a parlare piú chiaro e discoprirgli in quanto tormento per amore di lui se ne viveva, anzi piú tosto di dolore moriva. Indi in cotale modo lo interrogò, dicendo: – Carlo, se la tua buona fortuna e propicio cielo ti avessero tanto preso a favorire e levarti in alto che io fussi quella che di perfetto e leale core ti amassi, che faresti tu? – Carlo allora, udendo simili parole, si inginocchiò e quasi fora di sé cosí le rispose: – Madama, quando nostro signore Iddio degnasse di farmi tanta segnalata grazia che io avessi quella del signore duca mio signore e la vostra, io mi terrei il piú fortunato uomo di questo mondo, perciò che questo sarebbe la intiera ricompensa che io cerco e dimando de la mia assidua, leale e fedele servitute, come colui che vie piú di ogni altro sono ubligato a porre ogni ora questa mia vita ad ogni manifesto rischio per servigio di voi dui, portando ferma openione che l’amor che voi portate al detto mio signore sia accompagnato da tale grandezza e castitá, che non solamente io, che sono uno picciolo vermicello de la terra, ma né anco il piú grande prence e segnalato uomo che si trovi deveria in menomissima parte pensare di poterlo macchiare né fargli uno minimo nocumento. E per quanto appertiene a me, esso mio duca, signore e padrone mi ha sempre da picciolo fanciullo nodrito e fatto tale, quale io sono e sarò fin che io viverò. Il perché egli non saperia avere moglie, figliuola, sorella o madre, che io ardissi guardar con altro occhio, pensiero o intenzione, se non come a leale e fedelissimo servitore si conviene. – Udendo questo, la duchessa non lo lasciò parlar piú oltre, veggendosi manifestamente da Carlo disprezzare. E perché non può a donna, di quale condizione si sia, avenire cosa di maggiore sdegno che il vedersi non essere amata quando ama, in uno repente cangiato il fervente amore in fiero e crudelissimo odio, tutta piena di rabbia e còlera, con menacciosa voce e turbato viso soperbamente li disse: – Io credo, uomo da poco che tu sei, che tu ti persuada che io sia innamorata del fatto tuo; ma tu vai assai lunge da mercato, tristo, ribaldo e glorioso, se forse a simile follia tu pensi. E chi è che di simile cosa ti parli? Tu ti pensi forse per la tua bellezza essere da tutto il mondo amato, e che le mosche, le quali per l’aria volano, siano di te innamorate? Ma se tu fossi cotanto presontuoso e trascurato che tu mai osassi di tentarmi di amore, io con tuo grandissimo danno ti mostrerei che te non amo, né sono per amare giá mai altra persona che il signore duca, mio marito e signore. E il proposito, che teco favoleggiando ho tenuto, non è stato per altro che per passare el tempo e sapere che fosse l’intendimento tuo e beffarmi di te, come io soglio fare degli altri matti innamorati. – Io, – le rispose Carlo, – cosí ho creduto e credo, perché so come voi, alte dame, vi dilettate di dare la baia agli uomini. – In questo la duchessa, nol volendo piú ascoltare, se ne andò a la sua camera e sola si chiuse in uno suo camerino segreto, dove piena di fellone animo e con grandissimo dolore, pensava di vendicarsi contra Carlo. Da uno canto l’amore che a lui aveva portato le era una amarissima e dolente pena, e da l’altra parte non si poteva dar pace che si fosse piegata a parlar con lui di tale maniera come fatto avea, e che egli di quello modo risposto le avesse. Per questo si metteva in tanta furia che, come forsennata, non sapeva ove si fosse. Le veniva voglia di ancidersi e uscire di tanto fastidio. Da l’altro canto pensava di vivere, non per altro se non per altamente vendicarsi contra Carlo, ché per crudelissimo nemico lo riputava. Piagneva dirottamente la misera duchessa, e a’ suoi fieri pensieri non mettendo sosta, d’uno in altro travalicando, poi che lungamente, acciecata da disordinato appetito, ebbe farneticato e fatte due fontane di amarissime lagrime, rasciugati gli occhi, finse di essere inferma per non avere cagione di andar a cena col signore duca, al quale per l’ordinario Carlo serviva di darli bere. Il duca, che in vero amava la moglie molto teneramente, come sentí che ella era de la persona cagionevole, la andò a visitare e le dimandò come si sentiva. Ella disse: – Signor mio, io credo essere gravida e penso che la gravidezza mi abbia fatto distillare uno poco di catarro dal cervello, che mi fa qualche fastidio; ma passerá via. E il mio male non vuole medico, perché noi donne si medicamo in queste discese meglio che non fanno li medici con le medicine loro. – E cosí, non volendo altrimenti medico, dimorò tre giorni menenconica fuor di modo. Intrò in capo al duca uno pensiero: che altro che la gravidezza fosse quella che teneva la duchessa in letto; onde, per ispiare meglio l’animo di quella, andò la notte giacersi con lei e le fece piú vezzi e la carezzò piú che mai fatto avesse. E veggendo che ella di continovo mandava fuori de l’appassionato petto focosi sospiri, via piú si confermò ne l’openione che avea. Però, recatasela in braccio e piú volte dolcissimamente baciandola, le disse: – Moglie mia cara, voi sapete molto bene quanto io vi amo, e che sopra pari bilancia pende la vita vostra con la mia, e che, morendo la vostra, la mia parimente morirebbe. Il perché, se la vita mia vi è punto cara, che pure cara essere vi deve, egli conviene che voi mi discopriate per ogni modo la cagione di questi tanti vostri ardenti sospiri, perciò che non mi può intrar ne la mente che il tanto sospirar provenga da pregnezza alcuna che in voi sia. Sí che, anima e cor mio, ditemi che cosa è quella che vi affligge. – La duchessa allora, veggendo il suo marito sí ben disposto verso lei, pensò esser venuto il tempo di poter spargere il suo veleno contra l’innocente Carlo che tanto odiava; e baciando amorosamente il duca e in uno tratto dirottamente allargando il freno a le lagrime, con infiniti singhiozzi, snodando la lingua, cosí con languida voce a parlar cominciò, dicendo: – Ahi, monsignor, il mio male, che sí m’affligge, è che io vi veggio troppo indegnamente ingannato da chi vi è tanto obligato e chi la vita propria deveria a ogni periglio in servigio vostro isporre, e nondimeno cerca levarvi l’onore e porre vituperosa macchia dentro la limpidezza de la vostra chiarissima fama. – A queste parole, acceso il duca di infinito desiderio di intendere chiaramente la cosa, pregò con affettuosi preghi la moglie che liberamente senza rispetto veruno volesse farli palese la veritá del fatto. Ella, dopo l’aversi fatto pregare e ripregare, a la fine in questa guisa li rispose: – Io, marito e signor mio caro, non mi meraviglierò piú se uno straniero nuoce a uno suo signore, quando io veggio che li nostri medesimi soggetti e vassalli osano farvi nocumento, di sorte che importa molto piú che non fa il perdere tutti li beni de la fortuna, con ciò sia cosí che l’onore assai piú vale e devesi piú istimare che quanta ricchezza si trovi né quanti regni siano. Il vostro favorito, cotanto da voi amato, Carlo, di vostra mano nodrito e trattato da voi non da servitore ma da parente ben propinquo e stretto, ha avuto ardire richiedermi l’onore mio e affettuosissimamente supplicarmi che io volessi divenire sua amica. In questo ha mostrato che egli voleva come ladrone rubarmi e vituperare l’onore mio, nel quale senza dubbio consiste il vostro e di tutta la casa vostra. A la sua temeraria e presontuosa richiesta gli ho fatta la conveniente risposta: che, non pensando il cor mio in altro che in voi a servar la fede maritale intiera e monda, che non fosse piú oso giá mai di tale materia parlarmi. Ma tanta noia di questo suo malvagio ardimento mi ho preso, che poco meno che non sono morta, e non ho occhio in capo che lo possa vedere; il che è stato cagione di farmi porre a letto. Per questo io vi supplico con tutto il core umilemente, signore mio, che voi non vogliate a modo veruno tenere in casa vostra cosí scelerato e pestifero uomo, il quale forse, dubitando che io non vi riveli il suo misfatto, potrebbe talora machinare qualche grande e mortale sceleraggine contra la persona vostra. Ché, se egli non ha temuto di volervi porre in capo sí vituperosa infamia e farvi il sire di Cornovaglia, pensate pure che egli non temerá di machinare contra la vita vostra. Voi sète savio e sapete meglio di me se il caso importa. Fateli quella debita previsione che la enormitá del fatto ricerca. – Qui si tacque la sceleratissima femina, e ne le braccia del marito, amarissimamente piagnendo, si abbandonò. Egli, che da uno canto teneramente la moglie amava e si sentiva da Carlo, se cosí era, gravissimamente offeso, che sempre tenuto aveva per buono e leale servitore, per averlo in molti affari isperimentato fedelissimo, non si sapeva risolvere, trovandosi tra l’incude e il martello; e diversi pensieri fieramente il combattevano. Difficillimo gli era credere che Carlo tanta sceleratezza mai avesse perpetrata. E pure la moglie costantemente l’accusava, né sapeva imaginarsi a che fine ella devesse questa favola avere ordita, di modo che egli sentiva dolore estremo. E ancora che la ira e lo sdegno lo stimolassero a prendere acerba vendetta contra Carlo, nondimeno, come prudente che era, non volle correre a furia. Deliberò vedere come Carlo si governeria e prendere, secondo che dire si suole, la lepre col carro. Andato adunque a la camera sua, mandò uno suo cameriere a Carlo a fargli dire che piú non avesse ardire di venirgli innanzi, ma si ritirasse al suo alloggiamento fin che altro li facesse intendere. Credeva il duca, se Carlo era colpevole, che a tale commandamento conosceria la duchessa averlo accusato e che subito sarebbe uscito dal paese e retiratosi in luoco sicuro. Per lo contrario portava ferma openione che, essendo innocente, non arebbe atteso a altro che cercare la cagione de lo sdegno del signore e giustificarsi. Carlo a sí insperato e dannoso commandamento si trovò fora di misura afflitto e stordito e molto piú dolente che io non so isprimere, sapendo non avere in conto alcuno contra il suo signore di tal maniera fallo alcuno commesso che cotanto scorno meritasse. Nondimeno, conoscendosi innocente, né imaginare in parte alcuna sapendo la cagione che mosso avesse il duca a dargli congedo fora di corte, trovò un suo amico cortegiano cui narrò il suo infortunio, e lo pregò che al duca, presa l’occasione, volesse dare una lettera; il tenore de la quale era che supplicava il duca non voler, per malvagio rapporto che fatto li fosse da persona, credere che egli l’avesse, né in fatto né in detto, offeso giá mai; ma degnasse sospendere il suo determinato giudicio fin che avesse chiaramente intesa la veritá del fatto, perciò che mai non aveva contra lui, in qualunque modo si sia, pensato fallire, non che fallito. Andò l’amico di Carlo e fece fidelmente l’officio che doveva, e la lettera diede al duca. Lesse il duca quanto Carlo gli scriveva e tenne per fermo che Carlo non fosse colpevole, veggendo che si voleva giustificare; onde credette che la duchessa di alcuno sdegno feminile devesse essere contra Carlo in còlera, ma al vero non se seppe punto apporre. Ordinò poi che Carlo devesse venirgli secretamente a parlare. Non mancò l’innocente Carlo subito al suo signore appresentarsi. Come il duca lo vide, per meglio spiare l’animo di quello, con turbato viso e menaccievole voce, di indignazione colma, iratamente li disse: – Carlo, Carlo, la nodritura che in te sino da fanciullo ho fatto, e li beni che ti ho donati non meritavano giá mai che tu ti mettessi in prova di volermi disonorare, cercando di voler violare mia moglie, rendendo meco tutta la progenie mia infame. E se io avessi fatto quello che tu meritavi, tu ora non saresti vivo, ma averesti ricevuto il guiderdone che la tua sceleratezza meritava. Egli è ben vero che io resto molto dubbioso se il fatto è come mi è stato riferito. – Non si smarrí punto a queste parole Carlo, ma con animo fermo ringraziò il duca che a furia corso non era, offerendosi a ogni cimento di prova, e fosse chi si volesse che lo accusasse, che egli li sosterrebbe con l’arme in mano che mentiva, perché, ove non ci erano degni di fede testimoni, era necessario venire a la prova de le arme. Alora disse il duca: – L’accusatore altre arme non porta che la sua chiara onestá, perché mia moglie è quella che mi dimanda di te vendetta, che tu abbia avuto ardire di chiederle il suo amore. – Udendo Carlo tanta malignitá de la duchessa, non volle altrimenti di quella al duca querelarsi e manifestare il fatto come era seguíto; ma con voce ferma, punto non smarrito, in questo modo riverentemente al duca rispose: – Eccellentissimo signore mio, madama può dire ciò che piú le aggrada; ma io sono bene certissimo che ella si inganna grandissimamente, assicurandomi in questo la mia innocenzia. Considerate voi, signore mio, se giá mai atto alcuno veduto avete che possa condannarmi, e se vi è persona che veduto mi abbia privatamente parlare con lei né frequentare la sua camera, se voi mandato non me ci avete. Questo fuoco di amore non si può tenere coperto, perciò che è necessario che in alcuna parte si mostri; e cosí accieca coloro che da quello sono arsi, che assai sovente gli induce a fare i maggiori e strabocchevoli errori del mondo, di modo che i grandi e anco li piccioli si accorgono di loro. Pertanto, signore mio, umilmente vi supplico che degnate credere due cose di me, le quali sempre troverete essere verissime. Prima portate ferma openione che io vi sono cosí leale e fedele servitore e sí deliberato di sinceramente servirvi, che quando madama fosse la piú bella criatura del mondo, che mai Amore con tutte le forze sue non potria farmi mancare al debito de la mia servitú verso voi. Tenete poi per fermo che, quando ella non fosse vostra moglie, che agli occhi miei è tale che io non potrei in modo veruno piegarmi ad amarla, perciò che il sangue mio con il suo punto non conviene. Ben ne conosco de le altre assai con le quali di liggiero mi dimesticherei, parendomi che la natura loro con la mia piú si confaccia. – Il duca, cui difficillimo era credere male di Carlo in simile materia, li disse: – Carlo, io ti voglio prestare fede di quanto mi dici; perciò va e, secondo il tuo solito e che sei costumato, attendi a servirmi, assicurandoti che se io conoscerò, come mi affermi, che la cosa stia cosí, io di piú in piú ti amerò. Ma se io trovo il contrario, pensa che la tua vita è ne le mie mani. – Carlo allora quanto piú seppe umilmente ringraziò il duca, e li disse che sempre al suo giudicio si sommetterebbe ogni volta che provato fosse colpevole. La malvagia duchessa, veggendo Carlo come prima fare il suo officio e essere in grazia tornato del duca, arrabbiava di stizza e di còlera e nol poteva sofferire, parendole che il marito non tenesse conto di lei. Onde, vinta da l’estrema ira che la rodeva e non le lasciava avere una ora di quiete, essendo una notte con il duca in letto, li disse, essendo intrata su il ragionamento di Carlo: – Veramente, signore mio, egli vi saria bene impiegato che vi fosse dato il veleno, poi che piú vi fidate di uno vostro mortalissimo nemico che di chi vi ama. Sapete quello che vi ho detto di questo ribaldo di Carlo. – Il duca allora le rispose in questo modo: – Moglie mia cara, non vi pigliate pensiero di tale cosa, perché io vi assicuro che, trovando che Carlo mai abbia fallito, egli ne sará acerbissimamente gastigato, avendomi, con li maggiori scongiuri che fare si possano, affermato che è innocente. E non vi essendo maggior prova, non testimoniando nessuno contra lui, che potrei io fare? Potria bene essere che egli talora, burlando, avesse detto qualche motto, che voi, come gelosa de l’onore e fama de la vostra onestá, averete interpretato al contrario di quello che egli intendeva dire. Ma non dubitate che, avendo fallito, io nol colga. Egli non potrá uscire di questa nostra cittá che io nol sappia, perché ci ho posto tante spie a la coda, che non fará passo che io non ne sia avertito. – La duchessa sceleratissima, che in altro non pensava che in la roina di Carlo, e tanto era di stizza e rancore colma che, per cacciar del capo a Carlo dui occhi, a sé volentieri averia permesso che uno le fosse stato cavato, al duca in questa forma rispose: – In buona fede, signore mio, la bontá vostra troppo grande rende vie piú malvagia la sceleratezza di questo ribaldone, poi che in lui solo tanta fede avete. E qual maggiore prova, per Dio, volete vedere in uno uomo tale quale egli è, che considerare la vita che egli di continovo, come scaltrito e scelerato che è, ha tenuto e tiene, senza mai essersi potuto vedere uno atto in lui che mostrato si sia amoroso in questa corte di dama né damisella nessuna? Io mi fo a credere, e credetelo anco voi, signore mio, che senza l’alta impresa di essere mio servitore, che scioccamente si aveva fitta in la testa, egli non si saria potuto tanto contenere che qui o altrove non avesse amato e che l’amore suo non si fosse saputo. E quando si vide mai piú in cosí buona compagnia uomo che amasse, che tanto solitariamente, quanto fa egli, vivesse? Questo faceva egli perché, parendogli altamente avere collocato il core, si andava pascendo di questa folle e vana speranza; e pensava darmi ad intendere che era fedele e leale amante e che altra che me non amava. Ma egli, se ha intelletto, si trova assai lungi da mercato. Ora, poi che voi, signor mio, avete tanta fede in lui e tenete per fermo che egli non vi debbia celare il segreto del suo core, astringetelo con istretto sagramento che vi dica, se è amoroso, quale è la donna che ama. Ché se egli ama alcuna donna, io mi contento che voi li crediate; e se non ama, pensate che io vi ho detta la veritá. – Trovò il duca assai apparenti queste ragioni de la moglie; onde, trovandosi un giorno a la caccia e chiamato a sé Carlo, si dilungò dagli altri alquanto in luoco che non erano da nessuno veduti. Il duca a Carlo disse: – Carlo, mia moglie persevera pure ne la sua openione, e mi ha addutte certe apparenti assai buone ragioni, che non poco mi muoveno a credere ciò che detto questi dí mi ha. Per questo io ora ti prego come mio amico, e come mio suddito e vassallo che mi sei, strettissimamente ti commando, che tu mi debbia dire se tu ami, o qui o in altro luogo, alcuna donna, e chi è la donna che tu ami. – Carlo, ancora che deliberato fosse non manifestar giá mai quella che amava, nondimeno, astretto dal suo signore, e per liberarlo da la falsa gielosia e levarsi da le spalle la seccaggine de la malvagia duchessa, li rispose: – Signore mio, voi mi fate far cosa che sará la morte mia. – E gli giurò come egli veramente amava donna tale, cui pareglia di leggiadria, di buona creanza e di castigatissimi costumi, fosse quale si volesse, non se le troverebbe. – Di bellezza poi e di buona grazia, io fermamente credo che in tutta Francia nessuna ce ne sia che agguagliare se le possa. Di piú vi dico che la duchessa non è bella a par di lei a gran pezzo. Bene umilissimamente vi supplico e di singolar grazia vi dimando che non mi voliate sforzare a nominarla giá mai, perciò che l’accordio tra noi, con santissimi sagramenti giurato dinanzi a le imagini de la gloriosa imagine rappresentante il nostro signore Giesú Cristo e la reina del cielo Vergine Maria sua madre, fu che mai non fosse lecito manifestare a nessuno questo nostro inseparabile nodo, se non di consenso di tutte due le parti. – Restò il duca, quanto in sé era, assai sodisfatto, e li promise non astringerlo a dire chi fosse; e per l’avenire fece migliore viso a Carlo che per innanzi fatto non aveva. La diavolessa de la duchessa, veggendo le sue bugie e gherminelle non valere, tanto fece e tanto disse e cosí notte e dí tanto tempestò le orecchie al duca, che lo astrinse a devere intendere il nome de la donna, dicendo che tutte queste fizzioni faceva Carlo per celare la sua sceleraggine e che, non la nominando, ella non dava fede a le ciancie di Carlo. Astretto il duca dal continovo e fastidioso stimolo de la serpentina lingua de la sua scelerata consorte, passeggiando indi a poco in uno giardino, chiamò a sé Carlo e gli disse: – Io sono di modo molestato da la mia consorte che non mi lascia vivere, con dirmi che tu mi inganni non mi volendo manifestare il nome di quella dama che tu ami. Però, se tu vuoi che io in tutto esca fore di travaglio e mi acqueti, egli ti conviene dirmi il nome di costei. – Carlo, a queste parole quasi stordito, amaramente lagrimando disse: – Signore mio, se noi fossemo in luoco che nessuno ci potesse vedere, io mi gitterei a li vostri piedi e umilissimamente vi supplicherei, come adesso con tutto il core faccio, che non vogliate sforzarmi a palesare la mia signora e commettere tanta follia contro quella che giá piú di sette anni amo e adoro, avendola sempre, secondo le nostre giurate convenzioni, tenuta a ciascuno celata. Onde io meglio amerei morire che farle questa ingiuria giá mai, conoscendo senza dubbio veruno che io in una ora perderei tutto il bene che in tanti anni avea acquistato. – Veggendo cotanta resistenza, il duca entrò in una estrema gelosia. Dubitando esser vero ciò che la moglie affermato gli avea; onde con turbato viso, tutto pieno di còlera, disse: – Eleggi, Carlo, una de le due cose che ora di propongo: o tu mi noma chi è colei che ami, o tu te ne andrai via bandito perpetuamente da le terre mie. E se, passati otto dí che ti dono di termine per conciare i fatti tuoi, tu sarai ne li confini miei trovato, io di crudelissima morte ti farò smembrare. – Se mai fierissimo cordoglio o acerbissima pena trafisse il core di uno leale, fedele e vero amante, questo fu l’acuto coltello che passò l’anima del povero infelice Carlo, con ciò sia che conosceva, rivelando il nome de la sua cara amata, se mai si fosse risaputo, che era certissimo di perderla. Vedeva poi, nol dicendo, che restava bandito dal paese e luoghi ove ella se ne dimorava, senza speranza di mai piú vederla. Astretto dunque da questi due estremi, fu quasi per isvenire, e lo preso uno fiero sudore, freddo come ghiaccio. Il che veggendo il duca e che in viso tutto era cambiato, rassembrando piú a una statua di marmo che a uomo vivo, intrò in openione che Carlo non amasse altra donna che la duchessa; onde assai disdegnosamente e con còlera disse: – Carlo, Carlo, se tu avessi altra amica che mia moglie, tu non istaresti tanto a nominarla. Ma io penso che la tua ribalderia ti tormenta. – Punro Carlo da queste parole, anzi sino al vivo trafitto, amando egli vie piú il duca che se stesso, determinò di dirgli quella che amava, confidandosi nella vertú e buona natura di esso duca, e tenendo per fermo che egli mai non lo ridirebbe. Fatta questa deliberazione, disse: – Signore mio, l’obligo infinito che io conosco avervi per li grandi da voi ricevuti beneficii, e l’amore che io vi porto, piú che la téma di mille morti, poi che vi veggio cascato con falsa openione nel pestifero morbo de la gielosia, per levarvi ogni sospetto e chiarirvi dell’innocenzia mia, mi fanno fare cosa che, per quanti tormenti me potessero essere dati, io mai fatto non averei, supplicandovi, signor mio, che per l’amore di Dio vogliate promettermi e giurarmi, in fede di vero prencipe e fedele cristiano, che il segreto che ora vi dicelerò voi non lo riverelete a persona del mondo in qual si sia modo giá mai, ma sempre celato in petto lo terrete. – Giurò allora il duca con tutti quei sagramenti che a la mente gli occorsero, chiamando Dio e la corte celestiale per testimoni che quanto Carlo li direbbe, mai a persona, né in parole né per iscritto né per cenni o per quale modo si sia, egli manifesteria; e cosí sulla croce degli elsi della spada li giurò. Carlo, avuta questa promessa, assicurandosi sovra la fede data di cosí vertuoso prence come egli conosceva il duca, cominciò narrarli la storia del suo sino a quell’ora segretissimo e felicissimo amore, in questo modo dicendo: – Sono, eccellentissimo signore mio, sette anni passati che io, veggendo l’incredibile, natia e leggiadra bellezza di madama del Verziero, vostra carnale nipote, allora che rimase vedova, mi posi in pena di provare se acquistare poteva la sua buona grazia. E conoscendo la mia bassezza al par de l’altezza sua esser niente, mi affaticai esserle umile servitore, contentandomi che ella degnasse accettarmi per servitore e si contentasse che io l’amassi. Il che per cortesia sua non solamente mi successe, ma ella degnò tormi per marito. Cosí, la Dio mercé, gli affari nostri fin qui con tanta nostra contentezza quanta imaginar si possa, e con tanta segretezza sono proceduti, che, da Dio nostro signore in fuori, nessuno uomo né donna giá mai se n’è aveduto, se non che ora a voi, signor mio, lo manifesto, ne le cui mani io ho posta la vita e la morte mia, per le giurate convenzioni tra lei e me che giá vi dissi. E ora vi resupplico quanto piú umilemente posso a tenerlo segreto e non avere in menore istima essa vostra nipote, perché si sia ne le seconde nozze del grado suo abbassata, ché sapete bene la costuma di questi paesi essere che una dama, ancor che sia stata ne le prime nozze reina, se si vuole la seconda volta maritare, ella si mariterá senza biasimo in qualunque gentiluomo si voglia. Pertanto vi supplico, signor mio che degniate tener lei in quel grado di nipote che sempre tenuto avete, e me per quello fedele servitore che vi sono e sarò eternamente. – Piacque il matrimonio al duca per l’amore che a Carlo portava, e conoscendo la meravigliosa bellezza de la sua nipote, giudicò molto bene essere vero che quella de la duchessa non si poteva porre in parangone. Ma troppo strano li pareva che cosí grande affare si fosse condutto a sí desiderato fine senza aita o mezzo d’alcuna persona; perciò pregò Carlo che li volesse manifestare come sí magnifica impresa per se solo fatta avesse. Al che cosí Carlo sodisfacendo disse: – Poiché tra madama e me senza saputa di nessuno fu conchiuso di congiungersi con nodo maritale insieme, ella mi ordinò come la seguente notte, a tante ore, io tutto solo me ne andassi al suo bellissimo giardino, che, secondo sapete, è assai vicino, e per la tale porta in quello me ne intrassi. La camera sua con uno picciolo uscio nel giardino risponde. Ella, come le sue donne sono retirate, pian piano apre quello uscio e manda fuori uno suo piccioletto cagnolino; il quale, come intrava nel giardino, cominciava ad abbaiare. Io, che tra certi arboscelli era appiattato, come l’abbaiare sentiva, pian piano a la camera me ne andava, ove la prima volta, sí come ella volle, per moglie la sposai, con quelle giurate convenzioni giá dette di non palesar questo matrimonio se ella nol consentiva. Si corcassemo dapoi in letto, ove con gran piacere consumassemo il santo matrimonio e dessemo ordine come per l’avenire devea governarmi. E cosí mai fallito non ho di ubbidirla, se non ben poche volte che per servigi da voi comandatimi mi era forza restare. Sempre poi di una ora innanzi l’aurora me ne partiva. – Il duca, che era uno de li curiosi uomini del mondo, e che in la sua giovinezza aveva fatte di molte amorose imprese, e li pareva questa la piú strana istoria che mai udita avesse, e pensava simile caso non essere avenuto giá mai, assai affettuosamente pregò Carlo che la primera volta che andasse al giardino volesse menarlo seco, non come suo signore o duca, ma per compagno. Il che Carlo li promise, aggiungendo come quella sera istessa devea andarvi; di che il duca mostrò maravigliosa festa. Fece il duca segretamente apprestare dui cavalli ne l’albergo di Carlo, e, come fu l’ora, tutti dui montarono a cavallo e da Argilli, ove il duca allora dimorava, al giardino si inviarono: ove in poco di ora giunti, lasciarono fora de la chiusura del giardino, in luoco sicuro legati, li dui palafreni; poi al designato luoco intrarono dentro il giardino. Intrati dentro, fece Carlo che il duca si fermò dietro a una antiqua e grossissima quercia, per ispiare e meglio vedere il tutto e chiaramente conoscere che il vero detto gli aveva. Né guari quivi dimorarono che il picciolo e fedele cagnolino cominciò ad abbaiare. Carlo allora, lasciato il duca solo, se ne andò verso la torre, cui dentro era la camera de la sua donna, la quale venne ad incontrarlo e abbracciarlo, e salutandolo li disse che le parevano essere passati cento anni che veduto non l’avesse. Andarono poi con le braccia al collo a la torre, e, fermata la porta, intrarono in camera e attesero a sfogare i loro amori. Era la notte alquanto chiara, perché la argentata luna, ancor che ci fossero nuvoletti assai, li suoi raggi spandeva, che in molti luoghi per le nubi penetravano. Il che fu cagione che il duca molto bene conobbe la nipote, e vide il tutto e anco intese le parole che ella disse; del che rimase a pieno sodisfatto, e riputò Carlo essere uno degli aventurosi gentiluomini di Borgogna. Carlo, essendo dimorato assai buona pezza con la sua donna, per non lasciar il duca tanto solo, deliberò partirsi; e prendendo congiedo, disse a la dama che bisognava che si trovasse innanzi giorno a buona ora in camera del duca, ché cosí gli aveva imposto. Voleva ella secondo il solito accompagnarlo sino a l’uscita del giardino, ma egli nol sofferse e la fece restare. Poi, venuto ove il duca era, se ne uscirono e andarono a montar a cavallo e se ne tornarono al castello di Argilli. Cavalcando, il duca di novo assicurò Carlo di tenere li felici di lui amori sempre segreti; e se prima l’amava, dipoi, per esserli propinquo parente, lo ebbe infinitamente piú caro; di modo che in corte non gli era appo il duca il piú favorito di Carlo. Questo veggendo, la sceleratissima e indiavolata duchessa si disperava e arrabbiava d’ira e di furore, né le pareva poter vivere se non vedeva Carlo di vita fore; e di lui sovente col duca mormorava. Egli, conoscendo chiaramente la malvagitá di lei, a quella espressamente commandò che piú non osasse di tal soggetto parlare in conto veruno, perché egli certificato si era de l’innocenzia di quello, e che chiaramente aveva toccato con mano che l’amica di Carlo era senza fine piú bella e amabile di lei. Questa conchiusione fu la scure, fu la manare che una profondissima piaga nel core de la malvagia duchessa e sí mortale fece, che ella infermò di peggiore infermitá che di febre continova. Il duca andò a visitarla per intendere che male era il suo. Ma li medici affermavano non ritrovare segno alcuno di male in lei, se non certa mala contentezza che le causava qualche appetito che aveva, nol potendo mandare ad effetto. Il duca, che sapeva la cagione, la confortò assai. Ma ogni rimedio era indarno, se ella non sapeva il nome de l’amica di Carlo. E per questo importunamente ella astringeva il duca a manifestare chi fosse quella dama sí eccellente. Si partí il duca, fieramente corrucciato, dicendole: – Mogliere mia, lasciate andare questo proposito e non me ne parlate piú, perché io vi assicuro che, se voi piú me ne movete motto, noi si separeremo, e io piú non verrò in camera vostra né voi metterete piede ne la mia. – E cosí partendosi, lasciò la moglie molto di mala voglia, perché si vedeva denegare una cosa che estremamente di sapere bramava. Indi a pochi dí con molti e varii accidenti, angoscie, sudori freddissimi e isvenimenti, il male de la duchessa crescendo e di piú in piú aumentandosi la voglia di saper ciò che desiderava, credendo il duca che ella fosse gravida, per téma che non si sconciasse e disperdesse, come quello che sovra modo desiderava aver figliuoli, andò la notte a giacersi seco e per consolarla la accarezzò molto teneramente. E nonostante la inibizione che di giá il duca fatta le aveva, ella ritornò di novo a tentare il duca per saper chi fosse l’innamorata di Carlo. Egli è pure gran cosa, – perdonatemi, madama e voi altre signore, – che per l’ordinario, quando una donna si ficca ne la testa di voler una cosa dal marito, che a la fine ella sappia trovar tanti mezzi e tante persuasioni, che ella al dispetto del marito ottiene ciò che vuole; di modo che per viva forza egli è costretto compiacerle, ben che mal volentieri. Onde, dopo diversi ragionamenti tra lor dui fatti, e non le volendo il duca dire la donna di Carlo, ella piagnendo, dopo mille ardentissimi sospiri, disse: – Aimè, signor mio, quale speranza posso io avere in voi che per me devessi fare in cosa alcuna di gran difficultá, quando una leggierissima e facile fare non volete! Voi piú conto tenete di uno vostro tristo servitore che di me. Io mi persuadeva, come la ragione vuole, che voi e io fussemo una medesima cosa; ma io mi trovo di gran lunga ingannata, poi che non mi volete compiacere di una menoma grazia che cosí affettuosamente vi ho chiesta. Voi mi avete pure molte fiate detto di molti segreti di grandissimo peso, e mai però nessuno ne ho dicelato. E se bene avete giurato di mai questo non dire, vi assicuro che, dicendolo a me, voi non rompete in modo alcuno esso giuramento, perché lo dite a voi istesso, essendo voi e io una medesima cosa e dui in una carne. Io credo che, essendo grossa di voi, – e mentiva ella, perché gravida non era, – non vogliate che io e il frutto che in ventre porto moriamo; perché, misera me! io sensibilemente mi veggio di maninconia mancare per lo poco amore che mi mostrate. – Il duca, che veramente credeva che ella gravida fosse, per téma di non perderla insieme con la creatura che portare diceva, deliberò contentarla e dirle quanto ricercava d’intendere. Ma egli prima con rigido viso e ferma voce in questa guisa le parlò: – Voi la piú ostinata donna sète che trovar si possa, ché, avendo visto la resistenza che vi ho fin qui fatta di non dirvi uno segreto, voi in dispregio mio e contra ogni mia voglia lo volete a ogni modo intendere. Ma io faccio adesso voto a Dio e in nome suo vi giuro, per lo battesimo che ho in capo e in fede di vero prencipe, che se mai di quanto vi dirò al presente voi né in parole né in iscritto né in cenni a persona che se sia ne farete motto, che io senza pietá vi segherò di mia mano le canne de la gola. E tenetevi questa cosa bene a mente, ché per Dio! altra morte non farete giá mai che di mano mia. – La duchessa, acciecata dal disordinato appetito di sapere el segreto, senza pensarvi piú sopra, vi si accordò; onde allora il duca tutta l’istoria di Carlo Valdrio e de la dama del Verziero le narrò. La famiglia Valdria è in Borgogna molto antica e di gran nobiltá e possede molte castella; ma Adriano Valdreo padre di Carlo, dissipò quasi tutti li beni, eccetto uno castelletto che rimase a Carlo. Ora la scelerata duchessa, udendo sí alta novella, mostrò avere la cosa molto cara; ma di gelosia e sdegno nel suo core ardendo, celava la sua fiera passione per téma del duca. Avenne indi a pochi giorni che il duca fece bandire una solennissima festa, a la quale fece invitare tutte le dame e gentildonne de la contrada, volendo per otto dí tener corte bandita. Cosí molte dame e damiselle vi vennero, e tra l’altre la dama del Verziero. Danzandosi uno dí, e essendo molte dame attorno a la duchessa a sedere, ella, piena di pessimo animo e di mal talento contra Carlo, veggendo la incomparabile e meravigliosa bellezza de la dama del Verziero, cominciò parlare con quelle dame di amore, de le quali ciascuna diceva il suo parere. Ma veggendo che la dama del Verziero, ascoltando l’altre, nulla diceva, a quella rivolta, in uno core pieno di estrema gielosia la interrogò dicendo: – E voi, bella nipote, è egli possibile che questa vostra grandissima beltá sia senza amico o servitore? – Allora la dama del Verziero con bellissima grazia riverentemente le rispose: – Signora duchessa, questa mia bellezza, quale ella si sia, non mi ha ancora saputo acquistare cotale acquisto di amico né servitore. – A questo la duchessa, colma di rabbiosa gielosia e invidia, crollando la testa, dispettosamente rispose: – Bella nipote, bella nipote, io vo’ che voi sappiate che al mondo non è amore sí segreto che a la fine non venga in luce e si discopra, né picciolo cagnoletto sí maestrevolemente instrutto e fatto a la mano, il cui ordinato abbaiare a lungo andare non s’intenda. – Io vi lascio pensare, eccellentissima madama, e voi, amabilissime signore e cortesi signori quale fosse il dolore e l’estrema angoscia che il core trafisse a la sfortunata dama del Verziero, veggendo una tale cosa, tanto lungamente tenuta segreta, essere discoperta. Credette ella che Carlo, per qualche proposito che altre volte detto de la duchessa le avea, fosse veramente innamorato di quella, e che per questo a lei avesse scoperto il caso del cagnoletto. Il che molto piú di ogni altra cosa la tormentava, rodendole il core il freddissimo e mordacissimo verme de la pestifera gielosia. E ben che di doglia ella si sentisse venire meno, tuttavia la sua vertú fu sí grande e costante e cosí bene seppe reprimere l’interna passione, che, celando il suo acerbo dolore, quasi sorridendo, a la duchessa rispose che ella non si intendeva di linguaggio di bestie. Non fu nessuna di quelle dame, che di brigata con la duchessa erano, che intendesse a che fine ella di abbaiare di cane avesse parlato. Stette un poco la dama del Verziero, e poi, levatasi da sedere, e sovra modo dolente e di immenso cordoglio ripiena, passò in la camera del duca e da quella intrò ne la sua ove era alloggiata. Passeggiava il duca e vide la nipote intrare in camera, e pensò che vi andasse per alcuno suo bisogno. Quando la sfortunata dama fu in camera, senza serrar la porta e credendo essere sola, si lasciò, come da la nativa forza abbandonata, cadere sovra il letto. Una damisella, che colá entro si era per dormire posta tra la cortina del letto e il muro, sentendo il romore che la misera dama cadendo su il letto fece, alzata un poco la cortina, conobbe la dama e non osò dire nulla, ma cheta se ne stette. Essa dama, allargato il freno a le amarissime lagrime, con una fioca voce in cotale maniera dicendo, si sforzava di sfogare l’acerbissimo suo dolore: – Ahi, misera me! che parole ho io udito dire? Elle sono pure la diffinitiva sentenza de la morte mia. Io pure ho chiaramente inteso il fine de la vita giá felice, ora infelicissima. Oh il piú amato che fosse da donna giá mai, è questa la ricompensa, è questo il guiderdone del mio onesto, casto e vertuoso amore? Ahi, cor mio! come facesti mai cosí dannosa e male considerata elezione di prendere per lo piú leale il piú sleale e infedele, per lo piú verace e aperto il piú bugiardo e doppio, per lo piú segreto il piú divolgatore e vantatore? Aimè! è egli possibile che una cosa nascosta agli occhi di tutto il mondo si sia rivelata a la duchessa? Aimè! mio fedele cagnolino, tanto bene ammaestrato e solo conscio de li miei pudicissimi amori, tu non sei giá stato quello che gli abbia publicati. Chi dunque fu che li manifestò? chi fu che per gloriarse li discoperse? Egli è stato uno che ha la voce molto piú grande di te, o mio fidatissimo cane, e ha il piú ingrato core di quale si sia bestia al mondo. Egli è stato quello che contra il suo sagramento, contra la giurata promissione e contra la data fede e contra la nobiltá del suo sangue ha fatto manifesta la giá fortunata vita, che senza offendere persona noi lungamente e felicemente insieme avemo vivuto. O amico mio, di cui l’amore solo era abbarbicato nel mio core e col quale si è conservata la vita mia, adesso bisogna che io, publicandovi mio crudelissimo e mortale nemico, l’onore vostro come polve al vento con eterna infamia vostra si disperda; e mancando la vita mia, che piú durar non può, il mio corpo a la terra si renda e l’anima vada dove piacerá a nostro signore Iddio, che eternalmente o felice goda i beni eterni, o dannata dimori ne le penaci fiamme del fuoco infernale. Ma dimmi, sleale, dimmi, o di tutti gl’ingratissimi il piú ingrato e infedele, la beltá e grazia de la duchessa è ella cosí eccellente che ti abbia trasformato, come Cerce trasformava gli uomini con suoi incantesimi in varie bestie, arbori e sassi? Ti ha ella fatto di vertuoso divenir arca di ogni vizio? di buono, malvagio? di uomo, una fera crudelissima? O falso amico mio, ben che tu mancato mi sia de la promessa e giurata fede, io nondimeno ti vuo’ attenere ciò che ti promisi, di non voler mai piú vivere come tu divolgavi li nostri amori. Ma perché senza la tua vista io non saprei né potrei vivere, volontieri, se non fosse la téma de lo eterno danno, mi darei con le mie mani la morte, per compire di contentarti. Ma con l’estremo dolore, che a poco a poco mi va accorando, mi accordo, il quale sento che in breve romperá lo stame de la mia travagliata vita. A questo salutifero dolore non voglio procurare rimedio veruno, né per via di ragione né per aita di medici. La morte sará quella sola che al tutto dará fine, e vie piú grata mi sará, uccidendomi, che restare viva senza amico e senza contentezza. Ahi, fallace Fortuna, invidiosa de l’altrui bene, come hai tu reso malvagio guiderdone a li meriti miei! Ahi, duchessa, che piacere è stato il vostro, quando, gabbandovi di me, senza che io vi nocesse giá mai, in luoco cosí publico mi avete detto ciò che vi è paruto! Or godetevi di quello bene che solamente a me apperteneva e non ad altri. Ora beffatevi di quella che si persuadeva, per celare li suoi affari e vertuosamente amare, essere libera da ogni burla. E pur il motto de l’abbaiare, aimè! mi ha impiagato il core, fatto arrossire in viso e impallidire di gielosia. Ahi! misero cor mio, chiaramente sento che piú stare in vita non puoi! L’amore male conosciuto ti abbruscia, la gielosia e il torto ricevuto ti agghiaccia e ancide, e l’ingiuria, con la doglia infinita che soffro, non permette in modo [nessuno] che io consolazione alcuna porgere ti possa, essendo, come sono, la piú sconsolata donna che nascesse giá mai. Ahi! povera anima mia e sciagurata, che, per troppo avere amata anzi pur adorata la creatura, ho posto in oblio il mio creatore! Egli ti bisogna, anima mia, con vera contrizione de li peccati tuoi tornare a la immensa misericordia del tuo Salvatore, il quale per vano amore quasi hai rinegato. Confidati fermamente, o anima mia, che se tu con la penitenza de li tuoi passati errori a lui ricorrerai, che senza dubbio veruno lo troverai migliore e piú amorevole padre, che io non ho saputo trovare buono e leale amico e marito colui per lo quale assai sovente l’aveva offeso. Ahi, Dio mio e creatore mio, che sei il vero e perfetto amore, per la cui grazia lo amore che ho portato al mio consorte punto non ho macchiato di alcuno vizio, se non di troppo amare chi non devea e tenere contra le canoniche leggi il matrimonio celato, io umilmente supplico la pietosa misericordia tua e quello sviscerato tuo amore, che ti fece mandare l’unico tuo figliuolo a prendere carne umana e soffrire morte acerbissima e ignominiosa per salvare la generazione umana, ti prego e riprego, Signore mio, che degni per sola grazia tua ricevere l’anima di colei che, dolente e pentuta di averti offeso e non servati i commandamenti tuoi, si chiama in colpa. Ti resupplico, Signor, per li meriti del tuo figliuolo, che tu inspiri il mio poco amorevole e a me infedele e ingrato marito a riconoscere l’errore suo che contra me egli ha fatto. – E volendo piú oltra dire, la sfortunata dama isvenne, di tal maniera in viso cangiata che rassembrava a una imagine di candidissimo marmo. Mentre essa faceva cosí dolenti e pietosi rammarichi, e, quasi di sé fora, di Carlo si lamentava, esso Carlo, intrando in sala e quivi non veggendo la sua donna, intrò in camera ove il duca passeggiava; il quale, come vide Carlo, pensò molto bene che la sua donna cercava, e, accostatosi a lui, pian piano li disse: – Ella è in la sua camera, e mi pare mezza inferma. – Carlo, con licenzia del duca, ne la camera intrò in quello che ella, finito il suo lamento, era per la mortale angoscia isvenuta e tramortita. Trovatala di quel modo, Carlo, piú morta che viva, for di misura dolente, quella si recò, piú soave che puoté, ne le braccia; e amaramente piagnendo disse: – Ahi, signora mia! che accidente strano è cotesto? Volete voi sí repentinamente abbandonarci? – L’infelice dama, sentendo la voce del marito che troppo bene conosceva, prese alquanto di vigore, e aperti i languidi occhi, quelli nel viso al marito pietosamente affissando, quasi volendosi lamentare di lui, che il loro amore avesse manifestato, non potendo formare parola, gittato uno gran sospiro, in braccio al suo amante e marito rese l’anima al suo Creatore. Era allora uscita fora de la cortina la damisella, a la quale Carlo dimandò che infermitá fosse stata quella de la dama. Ella non seppe altro dire, se non che li raccontò il grande e lamentevole rammarico che ella fatto pietosamente avea. Lo sventurato Carlo allora manifestamente conobbe che il duca aveva rivelato a la duchessa il secreto del suo amore. Tanto in quello punto dolore lo prese e sí tormentosa angoscia gli ingombrò il core, che io non so come egli restasse vivo. Riabbracciando dunque strettissimamente il morto corpo de la sua carissima dama, con le cadenti e abondanti sue amarissime lagrime il pallido volto di lei piú volte lavò, dicendo tuttavia: – Aimè, traditore che io sono stato, ribaldo, scelerato, spergiuro e degno di ogni supplizio, e il piú disgraziato uomo che mai si fosse! Perché la punizione del mio peccato non è caduta sovra me e non sovra questa innocentissima dama, degna di vivere piú lungamente? Ahimè, signor Dio! perché hai permesso che costei porti la pena de l’altrui peccato? Ché cessò il cielo che egli non mi folgorò con quelle sue ardenti saette quella infausta e abominevole ora che io snodai la lingua a discoprire li nostri vertuosi amori, degni nel vero di piú aventuroso fine? Perché allora non si aperse la terra, per inghiottirmi prima che la giurata fede rompessi? Io, io devea allor allora essere sommerso e abissato nel centro de la terra! Ahi, lingua mia malvagia e serpentina! tu meriti bene essere condennata nel profondo baratro de l’inferno con quella del ricco Epulone, e mai non avere refrigerio alcuno. Ahi, cor mio scelerato e troppo timoroso di morte o di perpetuo esilio! perché non diventi cibo immortale di una famelica aquila, come quello di Prometeo? o come il fegato di Tizio, sia tu corroso da uno mordace e famelico avoltoio! Ahi, signora mia, il maggiore infortunio che mai fosse sotto le stelle mi è pure avenuto e mi ha da una indicibile felicitá fatto tombare in una estrema e perpetua miseria, ché, credendomi io guadagnarvi, miseramente vi ho perduta, e sperandovi lungamente vedere viva e godere insieme questa nostra vita con onesto piacere e perfetta contentezza, io ora vi tengo ne le mie braccia morta, e disperato di piú vivere e mal sodisfatto del mio core e de la mia loquace lingua. Ahi, lingua, che tanto tempo hai taciuto e sei stata segreta, fedele e leale! come a l’ultimo sei diventata ciarlatrice, varia, incostante, disleale e perfida? Ma io non debbio dolermi di altri che di me. Io quello sono che debbio essere appellato perfido, ingrato, disleale, traditore, malvagio e il piú infedele che trovare si possa. Io volentieri vorrei querelarmi del duca su la promessa di cui mi confidai, sperando di vivere con piú sicurezza e godere piú pacificamente gli amori miei. Ma io, sfortunatissimo, deveva bene pensare che uno tanto importante segreto quanto era il mio, nessuno meglio di me devea guardarlo. Il duca ha molto piú ragione dire i segreti suoi a sua moglie, che non avea io di rivelare quelli de la mia consorte. Adunque non mi conviene lamentare di nessuno se non di me stesso, che ho perpetrata la maggior e piú nefanda sceleraggine che imaginar si possa. Io devea piú tosto soffrire ogni tormento e mille morti non che l’esilio, che mai aprire la bocca a dire quello che vietato mi era di far palese. Almeno la mia amabilissima signora sarebbe restata in vita e io gloriosamente morto, avendo costantemente servati li patti che erano tra noi. Ella pure averebbe chiaramente conosciuto quanto io l’avessi perfettamente amata. Ma avendo contrafatto al suo volere io mi trovo vivo, ed ella per amare perfettamente, da insopportabile dolore accorata, è morta. Aimè, unica signora mia! questo è avenuto perché il core vostro netto e puro non ha saputo come soffrire il vizio del vostro mal leale amico, onde avete eletta piú tosto la morte che la vita. Aimè, perché sono stato cosí leggero di cervello e tanto ignorante? Ahi cor mio ingrato! perché non ti schiantasti, quando io apersi la bocca a rivelare il segreto che celato essere devea? Il picciolo cagnuolo merita essermi preferito, perché piú di me fedelmente egli ha la sua padrona amato. Ahi, mio caro cane, la indicibile gioia, che il tuo abbaiare sí dolcemente mi apportava, mi si è convertita, lasso me! in mortale e amarissima tristezza, dapoi che per la lingua mia altri che noi dui ha inteso ciò che la tua voce significava. Sappia pure la mia incomparabile consorte, ovunque ella ora si trovi, che amore di duchessa, ancor che molte fiate ella si sia messa a la prova di tentarmi, né di altra donna, non mi ha fatto mancarle de la giurata promessa; ma uno certo non so che mi ha abbagliato l’intelletto, pensando io che, rivelando il nostro segreto al duca, io perpetuamente assicurassi la segretezza de li nostri amori. Tuttavia per essere io stato ignorante non è perciò che io non resti colpevole, non mi escusando in conto alcuno cosí grossa ignoranza, ché io devea sempre avere in mente non essere un simile segreto da rivelarsi giá mai. E questa è la sola cagione che io la veggio qui morta dinanzi agli occhi miei. A me, signora mia, sará meno crudele la morte che a voi, che per troppo lealemente amare avete posto fine a la vostra innocentissima vita. Ma a me che morte toccherá? Io stato vi sono, signora mia, infedele e traditore. E quali vizii ponno in corpo umano essere piú orribili e piú abominabili di questi dui? Potrò io sofferire la luce e il cospetto degli uomini con questa mia disonorata vita? Non sarò io mostro a dito da tutti? Non diranno grandi e piccioli: – Ecco Carlo Valdrio, vituperio de la sua prosapia, che tanti onorati baroni e famosi cavalieri per lo passato diede a la Borgogna? – Ma io non mi curerei le ciancie del volgo, pure che non fosse stato io cagione, signora mia, de la immatura vostra morte. Io, che devea ancidere chiunque nemico vostro, aimè! vi ho uccisa! Lasso me! signora mia soverana, se alcuno per qual si sia cagione fosse stato oso a la presenzia mia mettere mano a la spada per offendervi, non sarei io prontissimamente con l’arme in mano corso a defendervi e porre a mille rischi di morte la vita mia per salvezza de la vostra? Vi sarei io certissimamente corso senza téma alcuna. E se io invero fatto l’averei, perché non è egli giusto, e ragione e ogni giusticia il vuole, di cosí ribaldo omicida e perfidissimo piú d’ogni altro assassino, che è stato ministro de la morte vostra, che da me la condecente vendetta sia fatta? Egli vi ha, consorte mia amabilissima, di altro colpo che di spada o spiedo miseramente svenata. Per questo conviene che per ogni modo questo publico e scelerato omicida mora per mano di uno ribaldo manigoldo. E quale al mondo piú infame manigoldo di me può trovarsi? O cieco Amore, io grandemente ti ho offeso, essendo stato cosí trascurato ne l’ampio tuo amoroso regno, onde tu, non vuole equitá alcuna che tu mi porgi soccorso, come a quella fatto hai che la tua legge fedelmente ha servata, non essendo onesto che io con sí bella morte finisca i giorni miei. Degno adunque è che io con le proprie mani cacci questa scelerata anima fora di questo corpo. – Con queste parole egli depose il corpo de la donna su il letto, e, preso il suo pugnale che a lato avea, si diede una mortale ferita nel petto, e subito riprese in braccio il morto corpo de la sua donna. La damisella, veduto questo, cominciò come forsennata gridare: – Aita, aita! – Il duca, udito il grido, corse in camera, e trovata quella coppia di amanti in tal maniera, si sforzò levar Carlo; ma indarno vi si affaticava. E sentendosi Carlo scuotere e conosciuto il duca a la voce, voltata alquanto verso lui la testa, con interrotte parole languidamente disse: – Eccovi, signore mio, a che termine, la mia lingua e la vostra, la mia cara consorte e me hanno condotto. Dio ve lo perdoni, e perdoni anco a me li peccati miei, ché io dolente senza fine me ne chiamo in colpa. – Il duca, volendo pure rilevare Carlo, in quello istante lo vide cadere boccone sovra la sua donna e quivi restare morto. Inteso poi da la damisella il successo del tutto, dinanzi a li corpi degli infelici amanti postosi con amarissime lagrime in genocchioni, e baciando loro il viso, piú volte chiese loro perdono. Indi cavato il pugnale sanguinoso fora del petto di Carlo, se ne intrò in sala tutto furioso ove la duchessa gioiosamente danzava, pensando essersi contro Carlo e la dama del Verziero vendicata. Egli, col pugnale a lei accostatosi, furiosamente: – Malvagia e rea donna, – le disse, – non vi ricorda egli che prendeste il segreto che vi dissi su la fede vostra? – E cosí dicendo con alcune pugnalate la ammazzò. Tutta la compagnia, che in sala a la festa era, restò smarrita, e quasi credevano il duca essere divenuto pazzo. Ma egli, accennando che si tacesse, narrò loro la pietosa istoria de li dui amanti. Fu poi fatta in una chiesa interrare la duchessa, che si trovò non essere gravida. A li dui sfortunatissimi amanti fece il duca fare di marmo una soperba e ricca sepoltura con maestrevoli e bellissimi intagli, e quella fece mettere in una abbadia che egli fondata avea di qualche tempo innanzi, cui dentro furono collocati i dui amanti, con uno epitaffio che l’istoria de li loro amori conteneva col pietoso fine de la morte. Avea uno fratello Carlo, chiamato Rodolfo, al quale il duca donò due castella, cioè Bersalino e Corlaonio, per lui e per gli eredi. Interprese, dopo non molto, il duca uno viaggio oltra mare in difensione de la Terra santa, del quale gliene seguí onore e utile. Tornato che fu in Borgogna, rinonziò a uno suo fratello carnale il governo del ducato, ed egli si ridusse a fare penitenza dentro l’abbadia, dove erano stati sepolti li dui sfortunati amanti; e quivi, austeramente vivendo, passò la sua vecchiezza nel servigio di Dio santamente. Eccovi, madama, e voi, belle signore e cortesi gentiluomini, la fine de la mia pietosa istoria, nel discorso de la quale si può conoscere che uno errore che si faccia ne fa, doppo, molti nascere.
Il Bandello al magnifico messer
Gian Domenico Aieroldo salute
Si trovarono qui a Bassens di compagnia alcuni gentiluomini a disinare con madama nostra Fregosa, li quali avendo di varie cose ragionato, ci fu uno buono compagno, nemico mortale de la malinconia, che disse: – Signori miei, voi sète intrati nel pecoreccio de le fole, a beccarvi il cervello a voler indivinare ciò che faranno questo anno il turco e il soffí; e nessuno di voi sa li consigli loro. Lasciateli fare ciò che piú loro aggrada, ché se bene si roinassero tutti dui, a noi che importa? Ci potria forse essere questo bene, che si accorderiano li nostri signori cristiani a ricuperare Terra santa. Parliamo di cose allegre, e se soggetto altro non ci è, intriamo a ragionare di questi generosi vini e bianchi e vermigli, che madama Fregosa ci ha dati, che in vero sono eccellenti e preziosi. – E cosí si inizió a ragionare del soavissimo liquore di Bacco, e quasi da tutti si conchiuse che queste contrade qui d’intorno producono ottimi vini di gusto saporoso e sano e, per bere ordinariamente a pasto, perfetti. Mi rincrebbe che il signor Geronimo vostro fratello, mastro di stalla del re di Navarra, non ci fosse, perché subito averebbe messo in campo quei potenti e fumosi vini navarresi, vini in effetto per berne il verno nel principio del desinare due dita; ché, per mio giudicio, chi li continovasse bere a tutto pasto, cocerebbero in poco tempo il fegato e coratella a chi troppo li continovasse. Sarebbe poi saltato a dire de li vini del suo castello de la Balla, li quali egli tiene non pure buoni ma eccellenti, e non vuole che in conto veruno cotesti nostri agguaglino. Se io gli avesse gustati come ho fatto li navarresi, saprei in qualche parte che dirne. Ma, per quello che io intendo del sito di quello luogo, credo che sia generoso e molto buono. Si disse poi la vite essere arbuscello di molta stima, e che il nostro padre Noè ottimamente conobbe il suo valore quando piantò la vigna. Ma il povero vecchio, che era da fanciullo sempre stato avvezzo a bere acqua, sentendo la dolcezza de lo spremuto liquore de l’uva, bevendone alquanto intemperatamente, come da insolita dolcitudine preso e invaghito, a poco a poco, non se ne accorgendo, egli divenne ebro. Eraci di compagnia uno svegliato e accorto giovane, che agli studi de la filosofia a Parigi assai tempo ha dato opera, il quale poi che ebbe detto molti buoni effetti che fa il vino moderatamente bevuto, discorse poi li danni e le perniziose infermitá che a li disordinati bevitori, che senza discrezione lo tracannano, suole causare; e a questo proposito ci narrò una picciola istoria. Questa, avendola descritta, la ho al nome vostro intitolata, e voglio che in memoria de la nostra mutua benevolenzia sia veduta. State sano.