Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella III
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Novella III
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Crudeltá di Amida figliuolo di Muleasse re di Tunesi contra
esso suo padre in privarlo del regno e fargli acciecare gli occhi.
Di poi che Carlo, quinto di questo nome imperadore, per assicurare i liti de la Sicilia, Sardegna e Corsica e col paese litorale del Regno di genovesi e de le Spagne, fece l’impresa in Africa de la Goletta, e che cacciò, del regno di Tunesi occupato, Ariadeno, il quale Barbarossa è cognominato, ritenne l’imperadore per sé la acquistata Goletta e vi mise dentro il presidio de li soldati spagnuoli, con li quali io lungo tempo avea militato, e creduto da molti essere nato in Ispagna. Restituí poi con certi patti esso reame di Tunesi al re Muleasse, che da Barbarossa con fraude grandissima ne era stato messo fora. Era Muleasse de la famiglia antichissima de li Correi, la quale ebbe origine del Homare, cubino del perfido Maometo pseudoprofeta, che è durata piú di novecento cinquanta anni senza mai essersi interrotta. Adunque ritornato Muleasse al patrio e avito regno, poi che si avide che le forze del Barbarossa erano, col favore di Solimano monarca de’ turchi, molto potenti e giá in l’Africa ben fondate, avendo li seguaci di esso Barbarossa grandemente munita e fortificata Constantina, cittá mediterranea, che anticamente fu Cirta, patria di Massinissa, e altresí lungo la marina occupata e fatta inespugnabile la picciola Lepti, che oggidí li africani chiamano Mahemondia e noi altri appelliamo Africa, e tenendo ancora Adrumeto, che Maometa si dice dal volgo, si deliberò il detto re Muleasse navigare in Italia per trovar Carlo imperadore, che allora ci era, per impetrare da lui uno gagliardo soccorso contra turchi. Ma per lasciare il regno di Tunesi, provisto contra nemici per ogni cosa che potesse accadere, ordinò che uno chiamato Maumete, che allora governava il magistrato primario de la cittá, che si chiama «manifete», fosse governatore generale con autoritá grandissima. In ròcca poi per castellano mise uno còrso rinegato, che di schiavo avea fatto franco, il quale, perché di natura era molto allegro e festevole, tutti chiamavano «Fares», che in quella lingua significa «lieto». A l’esercito pose per capitano uno de li figliuoli, detto Amida, giovane audace, acciò che tenesse sicura la campagna e quella guardasse da le incursioni de li turchi e de li numidi. Portava egli per donare a l’imperadore ricchi e preziosi tapeti e varii fornimenti da adornare letti, che erano lavorati per eccellenza a la morisca. Portava ancora alcune gemme di grandissimo prezzo, e faceva condurre dui grandissimi cavalli numidici, che mostravano essere molto generosi. Arrivato in Sicilia e volendo di lungo navigare a Genova, fu sforzato da impetuosi e fortunevoli contrarii venti, lasciata Genova a la mano sinistra, tenere uno poco piú alto e ritirarsi a Caieta e poi a Napoli. Era allora a Napoli per viceré il signor Pietro de la casa di Toledo, dal quale il re africano fu cortesissimamente ricevuto e con grandissima pompa in Castello capuano, magnificamente apparato, messo. Quivi fu abondevole e sontuosamente di tutto quello che al vivere di uno soperbo re si conviene proveduto. Restarono tutti li napoletani pieni di grandissima meraviglia veggendo tanta eccessiva spesa che il re ne li suoi cibi faceva, e massimamente nel consumare sí gran copia di preziosi e cari unguenti odorati, essendo cosa certissima che per acconciare e farcire uno pavone e dui fagiani il suo cuoco vi consumava sempre per l’ordinario in odori il valore di cento ducati di oro, ché il re cosí voleva. E di questi unguenti odoratissimi seco ne faceva portare grandissima copia; onde non solamente la sala ove egli mangiava, ma tutto il castello di Capuana si sentiva da ogni banda olire e spirare soavissimo odore, e d’ogni intorno tutta l’aria pareva odorata. Era allora l’imperadore a parlamento a Busseto, castello de li marchesi Pallavicini, con Paolo terzo, sommo pontefice. Il perché, avendo Muleasse determinato piú non si commettere a la instabilitá del mare, e anco dubitando del suo nemico Barbarossa, che era con una potente armata fora, voleva per terra andare ove il parlamento si faceva. Ma l’imperadore, allora in affari di grandissima importanza col papa occupato, non volle che da Napoli partisse, deliberando muovere la guerra contra li sicambri, che sono popoli di Gheldria e di Cleves. Ora, per quanto si intese, non era Muleasse venuto d’Africa in Italia tanto per avere soccorso da Carlo, quanto per ischifare uno grandissimo e periglioso infortunio che sovrastare egli si vedeva. Era il re africano gran filosofo averroista e de la scienzia astrologica giudiciaria peritissimo, e per l’arte di quella calculava le stelle, fieramente contra lui adirate, menacciargli il fine de la vita e la perdita del regno; e sovra ogni cosa temeva Barbarossa, imaginandosi che quella potente armata, che a Costantinopoli udiva che si adornava, contra lui si mettesse a ordine. Ma non seppe il pessimo influsso, come si dirá, schifare. Dimorando egli in Napoli, ebbe da certi nonzii aviso come Amida suo figliuolo sceleratamente tradito l’aveva e fattosi re di Tunesi, ammazzati gli amici e prefetti di esso padre, presa la ròcca e violate le moglieri e concubine che a Tunesi aveva lasciate. Intesa questa impensata e crudele nuova, e ne l’animo fieramente perturbato, si deliberò non perder tempo, ma passare in Africa, sperando, prima che Amida potesse nel nuovo stato confermarsi, di poterlo opprimere e ricuperare il perduto regno. Indi, con quella maggior celeritá e diligenza che fu possibile, cominciò a fare gente e largamente dar danari, avendo il viceré publicata la immunitá a tutti i condennati per cose capitali, agli esuli e altri simili malfattori, mentre volessero militare e seguire Muleasse a ricuperare il suo regno in Africa. Per questo congregò egli quasi uno giusto esercito. Di questa gente Gioanni Battista Lofredio fu fatto capitano. Era il Lofredio gentiluomo neapoletano, di buono ed elevato ingegno e molto desideroso di acquistarsi fama in l’arte militare, oltra che sperava anco trarne gran profitto. Si accordò il Lofredio col re africano di servirlo tre mesi e condurre quelli fanti, che poteano essere poco piú di duo millia, tra li quali furono alcuni nobili de la cittá de Napoli, che di brigata in Africa navigarono e a la Goletta con prospera navigazione pervennero. Saranno forse alcuni di voi, signori, che volontieri intenderiano quali furono le cagioni e li consiglieri che mossero e indussero Amida a cacciar del regno il padre. Lasciando adunque l’appetito del regnare, vi dico che con lo scelerato Amida erano alcuni de li principali de la corte, li quali conoscevano che l’ingegno di quello era facile da essere governato e rivolto a ogni parte che si volesse. Tra questi era Maomete, figliuolo di quello Boamare, che sotto il regno di quello re che regnava innanzi Muleasse fu manifete. E perché avea presa per moglie Raamana, giovane di incomparabile bellezza e figliuola di Abderomene, castellano de la ròcca de la cittá, de la quale Muleasse si trovava fieramente innamorato, come esso Muleasse fu fatto re, lo fece prima castrare e poi miseramente morire. Per questa morte del padre, Maomete di odio piú che vatiniano odiava il re, e lungo tempo avea nodrito in petto l’immortale odio, aspettando l’occasione che con eterna roina di Muleasse il potesse mettere in esecuzione. Vi era uno altro Maomete, cognominato Adulze, moro nativo di Granata, che di fare schioppetti era artefice miracoloso. Questi altresí voleva uno grandissimo male a Muleasse, perciò che il re in luoco di grandissima ingiuria sempre il chiamava «schiavo nequissimo e piú di ogni altro nequissimo». Questi dui, pensando che fosse venuto il tempo di cacciare via il re cotanto da loro odiato, fecero una congiura con alcuni altri, e con false novelle sparsero tra loro che Muleasse a Napoli fosse morto, ma che prima che morisse avea rinegato la fede maometana e fattosi cristiano. Con questa fizzione fu Amida da li congiurati esortato a insignorirsi del regno e non perdere tempo, acciò che suo fratello, che era ostaggio a la Goletta in potere di Francesco Tovarre, luogotenente de l’imperadore e capitano de la Goletta, col favore degli spagnuoli non si facesse re. Chiamavasi questo Maomete, e poteva essere di diciotto in diecenove anni; e perché rassimigliava grandemente a l’avolo suo, non solamente a le fattezze del corpo ma anco quanto a l’ingegno e a li costumi, tutto il popolo tunetano meravigliosamente lo amava. Mosso Amida da le esortazioni degli amici, lasciato il luoco a lui per le stanze assignato, se ne venne di lungo a Tunesi. Il popolo, che de le sparse novelle nulla avea intesa, veggendo questi movimenti, stava molto dubbioso, e molti assai si meravigliavano che cosí di liggiero egli avesse abbandonate le stanze. Il manifete, udito questo tumulto, subito corse a incontrare Amida, e fieramente de l’audacia sua e che fosse stato oso senza commissione del padre commettere cosí gran fallo molto il riprese, e le suase a ritornare a le stanze, e col favore del concurrente popolo fora de la cittá lo spinse. Amida, veggendo il suo consiglio non li succedere, non ritornò altrimenti a le stanze, ma si rivoltò verso le contrade ove è la regione Marzia, che dal porto di Utica al promontorio de la destrutta Cartagine si contiene. Sono in questa parte orti reali bellissimi con magnifici edificii. Il manifete, o sia governatore, presa una veloce barchetta, poi che ebbe fatto uscire fora di Tunesi Amida, con grande velocitá per lo stagno navigò a la Goletta e parlò col Tovarre, capitano di essa, per intendere da lui se nova alcuna intesa avea del re Muleasse. E nulla sapendo il giovane, li disse la temeraria audacia di Amida. Poi parlò con Maomete figliuolo del re, che era ostaggio, come si è detto; e vi era ancora Abdalago, fratello di esso manifete, e uno figliuolo di Fares còrso, prefetto de la ròcca, che anco essi dui erano ostaggi. Indi con la medesima celeritá il manifete se ne ritornò a Tunesi. Furono alcuni maligni cittadini sospettosi, come naturalemente sono quasi tutti gli africani, li quali ebbero sospetto che il manifete col favore del Tovarre non avesse ordito alcuna trama di mettere Maomete figliuolo di Muleasse in Tunesi in luoco del padre. Quelli adunque cittadini, cui era odioso il governo del re, mandarono messi a Amida, che dentro gli orti marzii sospirava e piagneva la sua mala e contraria fortuna, e lo esortarono a non si perdere di animo, ma che volesse tornare a Tunesi. Egli a questo aviso fu confortato; e ripreso animo e intrato in buona speranza, avendo avuti alcuni buoni augurii, a li quali [gli] africani prestano molta fede, deliberò, essendo anco da Boamare confortato e da Adulze insieme con gli altri suoi spinto, tornar di nuovo a tentare la fortuna, la quale mai non istá ferma in uno tenore, sperando che se prima contraria gli era stata, che li saria favorevole. E non dando indugio a la sua deliberazione, a Tunesi se ne ritornò; ove, trovata la porta de la cittá aperta, andò di lungo a la casa del manifete, e nol trovando in casa, tutti li propinqui e famigliari di quello crudelmente tagliò in pezzi. E con la scimitarra sanguinolente in mano, accompagnato da li suoi seguaci, si inviò verso la ròcca, ne la quale volendo intrare, Fares prefetto di quella, tirato il rastrello innanzi l’intrata, si sforzava animosamente proibirlo che non intrasse. Ma uno schiavo di Etiopia, che era con Amida, diede con una spada ne li fianchi a Fares, e quello, passato da banda, gettò in terra piú morto che vivo. Il perché Amida, spinto il cavallo, passò sul corpo di Fares e intrò dentro; e quivi trovato Maomete manifete, commandò che fosse come una pecora scannato. E a questo modo ne lo spazio di una ora si impatroní de lo stato. Subito poi ne li menori fratelli suoi cominciò esercitare la sua ferina crudeltá con tanta insolenza e sceleratezza, che, tutto pieno di sangue, senza vergogna, senza rispetto veruno, constuprò alquante concubine del padre. Fece poi divolgare che Muleasse avea rinegata la religione loro maometana e fattosi cristiano, e che dopo dapoi se ne era morto. Di tutti questi accidenti avvertito Muleasse, come detto si è, venuto era a la Goletta con speranza di ricuperare il regno. Francesco Tovarre, per essere uomo di perspicace ingegno, con diligentissima considerazione discorrendo tutto ciò che ragionevolemente accadere poteva, suase al re con evidenti ragioni che con quelle genti tumultuarie, che d’Italia condutte avea, non volesse andare a Tunesi se prima piú minutamente non era informato meglio de le cose de la cittá e degli animi de li cittadini e popolani tunetani. Aveva egli gran dubbio de la fede africana, e degli arabi temeva le insidie, per essere gente che facilmente d’ora in ora si cangia e segue chi piú le offerisce e dona. Poi con maggior veemenzia e piú ardenti parole avertí e piú apertamente ammoní Gioan Battista Lofredio che non si mettesse cosí sfrenatamente a tanta impresa, sapendo che dal viceré di Napoli avuto aveva in iscritto, in li mandati, che non guardasse al desiderio del re, volontaroso fora di misura di ricuperare lo regno; e che non dubitava che esso re non si mettesse a ogni periglio, ma che attendesse che egli avesse soccorso di una numerosa e forte compagnia di arabi, come promesso avea. Mentre su queste esortazioni si dimorava, alcuni baroni africani, simulando di essere buoni amici, erano usciti fore di Tunesi e con una loro barbara cerimonia, mettendosi le ignude scimitarre a la gola, come è peculiare costume loro, davano il sagramento di fedeltá. Costoro esortarono Muleasse andare animosamente innanzi, con ciò sia cosa che Amida, come vedesse suo padre armato, vinto da la vergogna e dal timore, subito abbandoneria la ròcca e la cittá, e confuso se ne fuggirebbe. Credette a le false persuasioni Muleasse, e non vi interponendo dimora alcuna, rivocandolo e protestando indarno Tovarre, che da le fraudi e insidie puniche si guardasse, fece esplicare in uno momento gli stendardi e bandere, e a la volta di Tunesi prese il camino, seguendolo allegramente con animoso core il Lofredio; il quale se tanta prudenza avuta avesse quanto aveva ardito cuore, le cose sue e del re senza dubbio prendevano altro assetto. Non mancarono perciò prefetti esperti ne l’arte militare, come furono Cola Tomasio e Giacomo Macedonio, patrizio neapolitano, li quali si sforzarono con evidenti argomenti persuadere il Lofredio che, senza avere veduto o da’ suoi soldati esperti fatto vedere ed esplorare il sito del paese, non si mettesse cosí di liggiero a combattere, e non volesse dare fede a le parole de li fallaci africani; ma che si contenesse uno poco e intertenesse a bada il re, che senza lui non combatteria, e si aspettasse il soccorso de li propinqui numidi, promesso da esso re. A questi superbamente, per non dire con pazzia, rivolto, il Lofredio disse: – Voi, che di vergognosa paura sète pieni, cessate, cessate oramai di predicare queste vostre poco valevoli ragioni anzi ciancie puerili, e non vogliate sminuire l’audacia degli uomini forti, perciò che io vi assicuro che tanto è lontano da me il valer romperre e guastare la sperata vittoria che in mano avemo, quanto che penso che farei molto meglio punire voi altri, piú pronti a spaventare con falso timore i soldati, che a menare arditamente le mani. – A questo rispose il Tomasio, con alta e ferma voce dicendo: – La Fortuna certo, non mai tarda ultrice de la temeritá, o Lofredio, in breve, secondo che me pare comprendere, a tutti noi aprirá la via ispedita di testificare qual piú di noi sará stato de la vertú amatore. Io certamente al grado mio, con non vituperoso fine de la vita mia, onestamente mi sforzerò di sodisfare. Ma tu metti ben mente se a l’officio tuo e dignitá de la prefettura tua sei per sodisfare, che cosí arrogantemente le saggie ammonizioni e ben sani ricordi de li tuoi commilitoni disprezzi e, male consigliato, rifiuti e fastidisci. – Detto questo, si rivoltò a li soldati e con lieto viso disse loro: – Fratelli, figliuoli e compagni miei, ecco il giorno che, piacendo a nostro signore Iddio, ci fará vittoriosi. – Andava innanzi Muleasse con una banda de li suoi famigliari a bandere spiegate. Dopo lui seguivano gli italiani, e giá erano pervenuti a le Cisterne, ove pochi anni innanzi combattessimo con Barbarossa e lo debellassemo. Erano giá iti vicini a Tunesi a tre miglia. Arrivarono alcuni spagnuoli a cavallo, che Tovarre mandava per avertire il re come dagli esploratori era avisato essere le insidie de li nemici tra gli oliveti, ove grandissimo numero di numidi stava in aguato. Ma questo aviso mandato dal Tovarre il re e il Lofredio facilmente sprezzarono, con ciò sia cosa che ne la loro manifesta roina a lunghi passi correvano, e tanto arditamente quanto incautamente caminavano verso quella parte che è sopra l’arsenale e il porto. Come Muleasse fu da quelli che erano sopra le mura de la cittá conosciuto, una banda di africani bene in ordine, con impressione ostile e gran romore uscita de la cittá, con quelli di Muleasse cominciò bravamente a scaramucciare. Essi reggi egregiamente sostenevano l’impeto de li nemici. Muleasse, che de la persona era molto prode, con la sua lancia quanti ne incontrava tanti ne feriva, poco avedutamente combattendo; onde ebbe una ferita su la faccia. Il che grandemente li soldati regi smarrí, di modo che cominciarono voltare le spalle a li nemici. Ecco che in questo saltarono fora degli olivi quelli numidi che in aguato ci erano, e in uno tratto circondarono li lofrediani con ululati e spaventevoli gridi, secondo la loro consuetudine. Li lofrediani scaricarono alcuni pezzi di artegliaria picciola contra nemici; ma tanta era la moltitudine de li soldati africani che contra lofrediani combattevano, che dopo li primi tiri non ebbero spazio di ricaricare i loro pezzi che scaricati avevano. Cosí, veggendosi li male condutti lofrediani da ogni banda cinti da li nemici, di modo si lasciarono occupare gli animi da eccessivo timore, che la piú parte di loro, gettate le armi in terra, si buttavano dentro la palude, vituperosamente fuggendo. Quivi, pigliando di quelle navicelle che vi erano, per avere alcuni di loro conservati gli archibugi, tenevano piú che si poteva discosti gli africani e soccorrevano li nostri, che a l’acque si gettavano per salvarsi. Lofredio, da li numidi circonvento, a uno uomo perduto e attonito simile, essendo su uno cavallo turco che nuotava come uno pesce, si cacciò ne la palude. Ed essendo l’acqua poco profonda, piena di pantano e vorticosa, e non potendo il suo cavallo levarsi a nuoto, lo volle ritornare in terra, acciò che, forse in se stesso tornato e ripreso animo, piú onestamente e da par suo cadesse combattendo. Ma indarno affaticandosi, fu da li barbari ferito e, tratto da cavallo, ne le acque si morí. Il Tomasio, il Macedonio, Antonio Grandillo e Lorenzo Monforzio, giovani e uomini arditi e nobilissimi, fortemente combattendo, poi che videro non essere ordine a restituire la battaglia, esortando li commilitoni che valentemente combattessero, acciò che invendicati non morissero, tutti insieme conglobati e come lioni scatenati si cacciarono tra li nemici e assai di quelli ne uccisero. A la fine, pieni di molte ferite, in mezzo a una gran moltitudine di nemici morti da loro, perduto il sangue, onoratamente caddero. Fu anco morto col Lofredio, Carlo Focco, di nazione greco, di sangue molto illustre. Francesco Sergente, Antonio Boccapiana e Lucio Bruto sino a la Goletta nuotarono. Il resto fu da li barbari morto, oltra quelli che ne la palude restarono affogati. Lo sfortunato Muleasse, del suo sangue, e de l’ostile, e de la polvere tutto sporco e imbrattato, fuggendo con alcuni pochi de li suoi, da nessuna cosa piú tosto fu da li nemici conosciuto che da la soavissima e grande esalazione degli odoratissimi unguenti che a dosso portava. Egli fu preso e presentato a Amida vittorioso, il quale nessuna cosa piú ebbe a core che fare acciecare suo padre Muleasse, facendoli con uno scarpellino di ferro affocato guastare le pupille degli occhi. Questa medesima crudeltá usò il perfido Amida contro Naasar e Abdalá, suoi menori fratelli che il padre seguíto avevano. Scrisse dapoi a Francesco Tovarre come aveva alcuni pochi prigioni cristiani e che li restituirebbe. Gli scrisse anco come a Muleasse suo padre, che meritava molto maggior supplizio, avea lasciata la vita. E secondo che esso Muleasse altre volte molti suoi fratelli avea acciecati, che il medesimo avea fatto fare a lui, acciò che restasse esempio al mondo a li crudeli e sanguinarii uomini i loro maleficii non restare impuniti, gloriandosi lo scelerato figliuolo avere usato clemenzia verso il perfidioso padre lasciandolo in vita. Scriveva anco che era contento confermare con alquante condizioni l’amicizia che Tovarre teneva con Muleasse, istimando quella ne le perturbazioni del novo regno devergli essere molto a proposito e di gran profitto. Tovarre tutto ciò che al presente commodo poteva servire non rifiutava; onde Amida gli appresentò certa quantitá di denari, che si desse per lo stipendio a li soldati spagnuoli che erano a la guardia de la Goletta. Restituí alcuni prigioni, tra li quali erano alcuni cristiani che militavano per l’ordinario a cavallo, li quali egli aveva incarcerati perché seguivano Muleasse. Questi prigioni si dimandavano «rebattini». Non sará, penso io, forse fora di proposito che io vi dica che gente sia questa che «rebattini» si chiamano, per quanto giá, essendo io in Africa, ne apparai per relazione di molti. Devete adunque sapere questi rebattini essere reliquie di cristiani vecchi, che ne le antiche ispedizioni fatte da li nostri restarono in Africa; e perché erano uomini valorosi e leali, furono sempre in prezzo e onore appo li reggi tunetani e a tutto quello popolo. Questi vissero sempre come cristiani, e fora de la porta di Tunesi verso il mezzodí, non troppo lungi da la cittá, se ne stavano in uno castello detto Rebatto, dal quale chiamati sono «rebattini», e durano in buono numero sino al presente giorno. Hanno le chiese e li sacerdoti, e officiano a la romana. Ne la detta terra di Rebatto non abita nessuno africano, ma solamente essi cristiani Tutti li regi tunetani hanno sempre avuto per costume, come anco avea Muleasse, tenere una gran squadra di questi rebattini a la guardia de le persone loro, commettendo piú volentieri la salute del corpo loro a li cristiani che agli altri di quello paese. Per questo gli aveano assignato quello luoco con possessioni e grandi immunitá. E perché fanno il mestieri de l’armi a cavallo, li chiamano «cavalieri rebattini». Ma, tornando a dire di Amida, restituí egli tutti gli stendardi lofrediani col corpo di esso Lofredio, senza capo, ché stato gli era dal busto reciso da li soldati africani. Diede poi per ostaggio uno suo picciolo figliuolo, che era di nove anni e Schite se appellava, con questa condizione: se cotali tregue, che temporarie parevano, non si commutano in pace, che il figliuolo incolume al padre suo fosse restituito. Questo nome «Schite» in lingua punica vuole dire «fortunato». Fece medesimamente Amida condurre a la Goletta tutta l’artegliaria che li lofrediani perduta aveano, la quale ancora che Tovarre poco istimasse, nondimeno non volle che agli africani potesse recare giovamento a nessuno tempo giá mai. Questa tregua, ben che non iniqua e per molte cagioni necessaria istimare se potesse, tuttavia Tovarre giudicava quella non convenire a la dignitá cesarea, parendo cosa fora di ragione e indegna che Amida godesse il regno, che con immanissima perfidia e nefandissima sceleratezza contra il decreto imperiale avea rubato, e commessa contra il proprio padre sí enorme crudeltá. Per questo Tovarre cominciò tenere nuove prattiche per tentare se poteva introdurre alcuno del sangue reale in Tunesi, che con volontá e autoritá di Cesare regnasse, sapendo l’imperadore meritamente essere con grandissima còlera adirato. Era appo li numidi Abdemalec, fratello di Muleasse, che appresso Ahemisco, regulo, in Numidia sempre dimorato si era e da lui benignamente ricevuto, dapoi che da Biscari, mediterranea cittá, quando i turchi la occuparono, se ne era fuggito. Questo mandò Tovarre a chiamare per farlo re. Non mancò Abdemalec a se stesso e a la offerta occasione, massimamente esortandolo Ahemisco numida e predicendo molti astrologi che egli senza dubbio veruno saria re e che ne la regale ròcca di Tunesi di morte naturale re se ne morirebbe. Avenne, mentre questo trattato si maneggiava, che Amida era partito da Tunesi, acquetati li tumulti urbani, e ito verso Biserta, acciò che colá riscotesse la intrata di uno lago molto abondante di pesce. Tovarre adunque, per non mancare a la data fede, rimandò a Tunesi il picciolo Schite. Arrivò poi di notte Abdemalec a la Goletta e fu da Tovarre graziosamente ricevuto. E parlato insieme di ciò che fare devesse, acciò che prevenisse le spie che non annonziassero a Tunesi la sua venuta, poi che ebbe lasciato uno poco riposare li cavalli, con la sua banda di numidi che condutti aveva se ne andò di lungo verso Tunesi, e per la porta Barbasueca intrò ne la cittá e andò di lungo a la ròcca. Non fu a la ròcca chi li facesse resistenza, pensando li guardiani che egli fosse Amida che da Biserta ritornasse. Si aveva Abdemalec a posta coperta la faccia con uno velo di lino, come è il costume degli africani, che ciò fanno per conservar il volto da l’intensissimo ardore del sole e da la fastidiosa polve. Intrò egli dentro il castello e si scoperse. Come i guardiani si avidero de l’inganno, diedero di mano a l’armi. Ma li soldati che erano con Abdemalec li diedero a dosso con grande impeto e il piú di quelli ancisero, tra li quali Nanser Allá, siciliano di nazione e cristiano rinegato, che era castellano de la ròcca, fu de li primi, volendo far resistenza, a essere morto. Onde, smarriti, tutti gli altri non ebbero piú ardire di opporsi a quelli che erano intrati, e cosí Abdemalec si insignorí de la fortezza. Sparsa che fu questa nova per Tunesi, concorsero li cittadini a la ròcca e salutarono re Abdemalec, il quale subito sotto buona custodia fece porre Schite, figliuolo di Amida. Poi ne la istessa forma si accordò con Tovarre, con la quale prima era colligato Muleasse, e pagò sei millia ducati per parte di stipendio a li soldati de la Goletta. Né guari dopoi stette che, gravissimamente caduto infermo, acciò che confermasse le predizioni degli astrologi e matematici, il trigesimo sesto dí del suo regno se ne morí e fu con regale pompa sepolto. Tovarre tenne diligentissima prattica con li principali del regno che creassero re Maomete, figliuolo del morto Abdemalec, che era di dodeci anni, ma garzone di buona indole; il che fu fatto, e subito si fecero alcuni de li primi che governassero la puerile etá del re e tutte le cose de lo stato. Questi furono Abdalage manifete, fratello di Maomete manifete che fu da Amida crudelemente morto, e Mesuar Abdelchirino, che significa «servo liberale». Dopo questi vi furono aggiunti Serreffo, gran dottore de la legge maometana, nato in Bugea, nobile cittá, ove sogliono essere le publiche scole degli studi arabici. Questa Bugea fu appo gli antichi Uzicata. Per quarto poi fu Gioanni Perello tarentino, del numero de li cavalieri rebattini. Questi quattro da tutti erano ubediti. Ma Abdelchirino fora de proposito, volendo demostrarsi ben prudente, diceva che al regno tunetano non era ispediente che si reggesse da uno fanciullo, ma che aveva bisogno di uno re di matura etá, che non potesse essere da nessuno ingannato, ma per se stesso sapesse il tutto governare. Questo suo parere avendo egli divolgato, e investigando come uno di sangue reale si potesse avere, dispiacque molto a li suoi compagni, cui avere l’amministrazione del regno in mano grandemente piaceva e male volontieri se ne sariano levati. Onde, pieni di fellone animo contra lui, se deliberarono di non lo voler lasciare vivere. E non se ne accorgendo lo sfortunato Abdelchirino, lo ammazzarono tanto crudelmente, dicendo certa favola che voleva tradire la cittá, che non contenti né sazii de la morte di quello, che seco gran parte de li propinqui e famigliari di lui ancisero. Morto Abdelchirino e i seguaci suoi, gli altri tre governatori, dopo li perpetrati omicidii, tra loro constituirono uno triumvirato, anzi pure una aperta e crudele tirannia. Gian Perello, uomo, ben che cristiano, molto libidinoso, occupò il luogo segreto de le concubine di Amida, che, escluso da Tunesi, andò a Lepti, che da noi si chiama Africa, e gli africani dicono Maemedia, e poi navigò a Menice, isola che oggi li Gierbi si chiama. Il Perello dunque in poco di tempo si mischiò carnalemente con tutte le concubine amidane. Si querelavano publicamente li tunetani che Abdelchirino, uomo da bene e padre de la patria, fosse stato perfidiosamente da li suoi compagni tradito e morto; né potevano sofferire che la cittá devesse governarsi da cosí maligni uomini, che nessuno modo mettevano a la loro avarizia, a la libidine e a la crudeltate. Vedevano, se aspettare volevano la matura etá al governare del re fanciullo, che il magistrato de li tre tiranni di giorno in giorno divenirebbe piú crudele e vie piú insopportabile. In questo mezzo, mentre che Amida andava esplorando il volere di molti popoli e da tutti soccorso ricercava, nove amicizie e confederazioni facendo, l’infortunato Muleasse, per la sua cecitá, prigionia e calamitá miserabile, dal nipote re, figliuolo di suo fratello, impetrò potere uscire di carcere e de la ròcca e di poter andare al tempio di Ameto Bonari, che giá fu da quei popoli riputato santissimo. Detto tempio ne la cittá di Tunesi appo gli africani era in grandissima riputazione, e si aveva in quello inviolabile sicurezza come sacrosanto e divinissimo asilo. Indi non molto dopo, essendo arrivato a la Goletta Bernardino Mendozza, prefetto di una armata spagnuola, fu da Tovarre esso Muleasse con licenzia del re condotto a lo stagno e di colá per nave a la Goletta menato, acciò che fosse presente a le consultazioni, cercandosi prendere l’armi contra Amida, il quale poco innanzi avea fuggita la morte che alcuni tunetani voleano darli, servato da la pietá di una povera vecchia che, da anile compassione mossa, quello sotto molti mazzi di aglio aveva nascoso. Né con minore sorte di salute si conservò, quando opportunamente fu condutto a la Goletta; perciò che Amida, figliuolo suo crudelissimo e nefario, avea deliberato nel tempio istesso di Ameto ucciderlo. Ora, per lo tristissimo governo de li tre governatori chiamato da’ tunetani, Amida arrivò a Tunesi che a pena il re fanciullo puoté fuggire. Onde, presa la cittá e la ròcca, ebbe ne le mani Gian Perello, il quale con fierissimi e inauditi tormenti discruciò; e fattogli tagliare il membro virile, lo fece vivo abbrusciare. Morí costantemente il Perello, e prima che fosse cruciato, essendoli promessa la vita se voleva rinegare Cristo, piú tosto volle morire che rinegare. Ammazzò poi Amida tutti gli officiali del fuggito re e quaranta cavalieri rebattini. Né solamente Amida è di natura crudele, ma anco è tanto libidinoso che ha constuprato la propria sorella; e in ogni sesso e etá, pur che voglia gliene venga, la sua fedissima lussuria esercita senza vergogna veruna. Ma avendo del modo come udito avete trattato il padre, che peggio se ne può dire?
Il Bandello al molto magnifico e cortese cavaliere
il signore Lodovico Guerrero fermano salute
Mi ritrovai questi dí, tornato che fui da Milano, in camera, come sapete, a fare riverenza a l’eccellentissimo signore Francesco Gonzaga, marchese di questa cittá di Mantova, ove anco voi eravate, allora ch’ebbe, detto signor, aviso, come a Sermedo uno povero contadino vecchio era stato dal proprio figliuolo su la riva del Po ucciso e svenato come una pecora e tratto nel fiume. Il signor marchese, fieramente turbato di cosí scelerato parricidio, commandò a messer Tolomeo Spagnuolo, suo primo segretario, che scrivesse a Sermedo e vi mettesse tale ordine, che il malfattore acerbissimamente fosse punito. Devete ricordarvi che varii furono li ragionamenti di molti che in camera erano, investigando la cagione che potesse avere indutto quello sceleratissimo, non figliuolo ma crudelissimo nemico, a perpetrare cosí enorme sceleratezza. E dimandandomi il signor marchese che mi pareva di cotanto eccesso, io li risposi che nel capo non mi poteva intrare che quello ribaldo fosse vero figliuolo de lo svenato vecchio, avendo ferma opinione che se era suo figliuolo, che la natura gli averia destato in core il debito che deve avere ogni figliuolo a suo padre, e rafrenato quello da sí vituperoso misfatto. Era quivi il signor Volfgango Schilicco, nobilissimo tedesco, il quale ne la sua giovanezza fu a Bologna discepolo di messer Filippo Beroaldo, e allora tornava da Roma, ove per lo signor Georgio duca di Sassonia avea negoziato alcune cose. Parlava egli leggiadramente la lingua italiana, che da fanciullo appresa aveva. Sentendo adunque l’occorsa sceleraggine, prese licenza dal signor marchese di narrare a questo proposito una novella in Lamagna avenuta. E, pregato dal signor marchese che la dicesse, senza aspettare altro invito, la istoria narrò. Io poi, tornato a casa, quella scrissi e aggiunsi al numero de le altre mie novelle. Ora volendola, per piacere a molti amici miei, mandare fora, ho deliberato che questa col nome vostro in fronte esca in publico e resti eterno testimonio a li presenti e a chi verrá dopo noi de la nostra mutua benevolenza. Onde ve la mando, e vi prego accettarla con quella vostra umanitá che in tutte le azioni vostre usate. State sano.