Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XIV

Prima parte
Novella XIV

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Antonio Perillo dopo molti travagli sposa la sua amante,


e la prima notte sono dal folgore morti.


Fu, non è molto, in Napoli un Antonio Perillo, giovine d’assai onorata famiglia, il quale essendo per la morte del padre restato ricco, si diede stranamente al giuoco e in poco tempo acquistò nome di barattieri. E ben che il giuoco fosse il suo studio principale, nondimeno di Carmosina, figliuola di Pietro Minio, mercadante ricchissimo, s’innamorò, e tanto fece che la bella fanciulla s’avvide de l’amore di lui. Ella, che Antonio vedeva assai bello e sempre in ordine di ricche e polite vesti, cominciò nel semplice petto largamente l’amorose fiamme a ricevere, in modo che Antonio in pochi dí s’avvide che il suo amore era ricambiato. Tuttavia egli era tanto avvezzo al giuoco, che da quello a patto nessuno distorre non si sapeva. Onde in poco tempo l’incauto giovine quasi tutto il patrimonio consumò. Per questo perciò non lasciò di tentare se poteva aver Carmosina per moglie. Ma il padre di lei, sapendo la cattiva vita che Antonio teneva, gli fece intendere, che essendo giocatore e che avendo il piú del suo buttato via, egli mai la figliuola non li daria. Antonio, veggendosi per il giuoco e per la povertá rifiutare, restò molto di mala voglia. Egli, con tutto che la povertá fosse estrema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli faceva, che avesse fuor d’ordine le sue facultá giocate. Ma questa repulsa gli aprí gli occhi e gli fece vedere che meritevolmente era rifiutato. Onde oltra modo angoscioso seco stesso la sua disaventura maledicendo, come uomo che fuor di sé fosse, non ardiva in publico presentarsi. A la fine, fatti nuovi pensieri, lasciò totalmente il giuoco e, con l’aita d’alcuni parenti mise insieme assai buona somma di danari, e deliberò di giocatore farsi mercadante e d’andarsene in Alessandria d’Egitto, e tanto traficare ed affaticarsi, che egli a casa ricco ritornasse. Partito adunque da Napoli si mise in mare. Ma non era ancora il legno, ove egli era salito, in alto mare quasi cinquanta miglia, che si levarono subitamente diversi venti, i quali, essendo ciascuno oltra misura impetuoso, battevano e fatigavano sí la nave, che i marinari piú volte per perduti si tennero. Tuttavia, come valenti che erano, in sí estremo periglio ogni arte e forza usando, essendo da grossissimo mare combattuti, furono a la fine da la fortuna vinti ed astretti a lasciar correr il legno dove il vento lo spingeva. Eglino erano stati tre dí in questa fortuna, quando vicini a Barbaria presso a la sera cominciò il mare a pacificarsi. Ma ecco, mentre che si ralegravano e credevano d’esser campati da cosí tempestosa fortuna, cominciando ad imbrunirsi la notte, che da alcune galere d’un corsaro moresco furono fieramente assaliti. Ed essendo tutti mezzo morti per il lungo travaglio sofferto, furono a salvamano presi e dentro a Tunisi menati prigioni. A Napoli venne assai tosto la nuova de la perdita del legno e di tutti gli uomini imprigionati. Carmosina, la quale oltra modo de la partita del suo amante era rimasa dolente, udendo quello esser capitato a le mani dei mori, lungamente questo infortunio pianse e fu piú volte per morir di doglia. Ora aveva costume Pietro Minio, padre di Carmosina, far ogni anno un viaggio in Barbaria e nel ritorno suo riscattare dieci o dodeci prigioni cristiani, e da quelli, se avevano il modo, col tempo farsi rendere i danari, e se erano poveri compagni, liberamente per amor di Dio lasciargli andar senz’altro pagamento ove volevano. Era stato Antonio Perillo piú d’un anno schiavo, quando il Minio in Tunisi ordinò ai suoi fattori che secondo il solito riscattassero dieci prigioni. Il che fu fatto, e fu tra questi Antonio, ma sí barbuto che il Minio nol conobbe, né egli si volle dar a conoscere. Furono tutti a Napoli menati, ove subito Carmosina conobbe il suo amante e feceli cenno che conosciuto l’aveva; di che egli restò molto contento. Ebbe poi ella modo col mezzo d’una donna di casa di parlargli, a cui dopo molte parole cosí disse: – Poi che mio padre t’ha rifiutato per genero perché sei povero, io ti provederò di i danari, a ciò che tu possa tornar a mercantare e farti ricco e vivere onoratamente, mentre che tu mi prenda per moglie, perché io altro marito che te non piglierò giá mai. – Ringraziò Antonio la giovane e il tutto le promise. Ella, trovato il modo, rubò a la madre gioie e al padre buona somma di danari, e il tutto diede a l’amante; il quale, pagati i fattori del prezzo del riscatto, un’altra volta s’imbarcò e andò in Alessandria. Fu a questo secondo viaggio la fortuna favorevole, e Antonio con tanta diligenza al mercantare ed al guadagno attese, che la fama venne a Napoli come egli era tutto cangiato e che faceva benissimo i fatti suoi. Onde dopo qualche dí essendogli sí bene la mercanzia riuscita che egli era piú ricco che prima, attese a ricomperar le sue possessioni vendute, mandando di continovo danari a casa d’un suo zio che faceva i fatti suoi. Venuto poi a Napoli, in breve acquistò nome di costumato e ricco uomo. Il che fu a la sua Carmosina di gran piacere. Onde, parendo ad Antonio che piú non devesse esser rifiutato, fece al Minio di nuovo richieder la figliuola per moglie. Conoscendo il Minio, Antonio esser per amor di Carmosina divenuto un altro uomo da quello che prima era, fu contento che il parentado si facesse. Sposò adunque Antonio la sua Carmosina meritevolmente acquistata e attese ad ordinare ciò che di bisogno era. Le nozze si fecero molto belle, e i dui amanti si ritrovavano i piú contenti del mondo. E, ragionando insieme, Antonio narrava a la bella moglie il dolore che ebbe quando fu per la povertá rifiutato, la deliberazione che fece di cangiar vita, la miserabil servitú che in Barbaria aveva sofferta; e quella, per pietá di lui dolcemente lagrimante, spesso basciava. Furono poi tutti dui gli sposi dal sacerdote benedetti, e Antonio la sua diletta moglie a casa condusse, ove fece ai parenti e agli amici un solenne convito, aspettando tutti dui con infinito disio la seguente notte, ove speravano in qualche parte ammorzare le loro ardentissime fiamme. Ma la fortuna, pentita d’aver dopo tanti perigli e tante fatiche consolati questi dui amanti, le liete e festevoli nozze cangiò in amarissimo pianto. Era nel principio del mese di giugno, quando, fatta la cena, i dui novelli sposi furono allettati circa le due ore di notte, i quali si de’ credere che affettuosamente si abbracciassero ed insieme amorosamente prendessero il tanto desiato piacere. Ora, non essendo eglino stati un’ora nel letto, che si levò un torbido e tempestoso vento, il quale con infiniti tuoni e lampi menò una guazzosa e grossissima pioggia; e tuttavia tuonando e lampeggiando, furono i dui amanti dal fuoco de le folgoranti saette nel letto tocchi e di modo percossi che tutti dui, ignudi e strettissimamente abbracciati, morti si ritrovarono. Il pianto ne la casa si levò grandissimo e tutta la notte durò. La matina poi, publicatosi l’orrendo caso, con generai dolore di tutta la cittá di Napoli, furono gli sfortunati amanti onorevolmente in una sepoltura collocati, sovra la quale furono questi versi e molti altri epitaffii latini e volgari posti:

Voi, fortunati amanti, che godete
tranquillamente i vostri lieti amori,
mirate se mai furo aspri dolori
a par di quei ch’a me soffrir vedete.

Meco cercai pigliar ad una rete
la mia diletta sposa, e ratto fuori
di speme mi trovai, fra mille errori
in mar e ’n terra senza aver quiete.

E quando venne il tempo che la speme
a fiorir cominciò, la prima sera
fu del mio frutto svelta la radice;

ché ’l folgorante Giove meco insieme
uccise la mia donna. Ahi sorte fiera!
qual piú di me si trova oggi infelice?


Il Bandello al dottissimo


Aldo Pio Manuzio romano


Dapoi che voi partiste da Milano, essendo alloggiato in casa del molto reverendo signor Giacomo Antiquario, io non v’ho altrimenti dato avviso de la cosa che mi lasciaste in cura, perciò che mi sono governato secondo il conseglio di esso signor Antiquario, il quale sapete quanto vi ama e quanto desidera l’onor e profitto vostro. Ora con quei mezzi e favori de’ quali giá parlavamo insieme, ho io di maniera ridotto la cosa vostra che il successo sará tale qual bramate. Cosí vi doni Iddio che possiate ottenere ciò che ne l’altre bande praticate, a ciò che veggiamo ai giorni nostri una academia che sia principio di mantenere le buone lettere greche e latine in Italia, che ora vi fioriscono in quella perfezione che possano essere. Il che renderá il nome vostro eterno, veggendosi che voi siate stato il primo che ne l’impressione dei libri ne l’una e l’altra lingua avete meravigliosamente agli studiosi giovato, e giovate tuttavia, non solamente con la bellezza e politezza dei caratteri e de la correzione di essi libri, ma altresí con il dar fuori ogni dí tutti i buoni autori che aver si possono. Ed a questo non risparmiate né danari né fatica, cosa nel vero che dimostra la grandezza e bontá de l’animo vostro. Che dirò poi de la lingua volgare? che di modo era sepolta, e i libri cosí mal corretti, che se Dante, il Petrarca ed il Bocaccio avessero veduti i libri loro, non gli averebbero conosciuti, i quali voi avete ridotti a la lor nativa puritá. Ma se, come si spera, l’instituzione de l’academia succede, averá la lingua latina, la greca e la volgare il suo candore, e l’arti liberali si riduranno a la loro antica maiestá. Ora, sapendo che vi sará caro intendere come le mie novelle vanno crescendo, avendone voi qualcuna letta e commendata ed essortatomi a raccoglierne piú numero che si potesse, vi dico che di giá ne ho scritte molte, de le quali una ve ne mando, che non è molto che essendo qui il magnifico messer Lorenzo Griti, in casa de la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia narrò, essendo essa signora di parto. Questa adunque voglio che sempre sia vostra e sotto il vostro nome si legga, a ciò che in qualche parte da me si cominciono a pagar tanti debiti, di quanti debitor vi sono. E di che altro posso pagarvi, se non di quei poveri e bassi parti che da l’ingegno mio nascono? Restami ricordarvi che di me, in tutto quello che per me si può, vogliate prevalervi come di cosa vostra, assecurandovi che conducendo al fine queste mie novelle, a voi solo le manderò, che le facciate degne del publico, sí per far quanto richiesto m’avete, ed altresí perché conosco che da voi saranno date fuori, se non come meritano per la bellezza loro, almeno come al nome del gentilissimo e dottissimo Aldo si conviene. State sano e di me ricordevole.