Notizie della vita e degli scritti di Luigi Pezzoli/IV. Condizione politica
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IV. CONDIZIONE POLITICA.
Venute erano in questa condizione le lettere nella nostra città, quando il Pezzoli cominciava ad esercitarvi la mente; nè dalle lettere discordavano, quanto a perplessità e confusione, i costumi e le opinioni prevalenti nel popolo e negli ordini più elevati. Di fatti in alcuni l’amore delle antiche cose si era cangiato in dolorosa maraviglia, o in dispettoso abborrimento alle nuove; mentre l’amore delle nuove traportava in altri i pensieri e gli affetti all’insolito e all’esorbitante: sicchè l’indignazione della sconfitta, del pari che l’ebbrezza della vittoria, cospiravano miseramente a pervertire giudizii e a rincrudire passioni tra loro opposte con egual danno. Chè nè la sventura aveva decoro, nè la fortuna serenità; ma in tutti e da per tutto un operare a dismisura, e una lotta infelice tra petulanza ed orgoglio, che il tempo ha mostrato funesti e impotenti ad un modo. Questo quanto alla parte de’ cittadini che primi rimangono percossi nelle grandi mutazioni, e ne’ quali tengono gli occhi le parti della società più rimesse. Ma gli altri a cui le novità non approdano che a mano a mano, come quelli in cui devono radicarsi più saldamente, nulla più intendevano di quanto accadeva, fuorchè come d’una singolare sventura, che molti ancora stimavano non altro che passeggiera; sicchè l’esterno repentino operare alla moderna, e l’interno abituale sentire all’antica, era puossi dire, comune a tutto il popolo, che chiamato al potere stringevasi nelle spalle, nè più nè meno di quelli, che, astretti a difenderlo, lo rinunziavano. Una turba intanto d’illusi, cantando inni e ballando davanti a non so quale simulacro di non so quale felicità, rendeva immagine, anzichè di contenta nazione, di miseri delinquenti che si studiano movere i piedi a grand’arte sulle piastre infocate a cui sono dannati, per sentirne men forte la scottatura. E vedevansi, senza divario d’età, di sesso, di condizione, appaiati la giovanile spensierataggine e il senno canuto, la bellezza adescante e la claustrale rigidità, la baldanza soldatesca e la pacatezza civile: tra i pennacchi e le scimitarre le cocolle e le toghe, assise di servitù e stemmi gentilizii, le une agli altri addossate, e premute, e travolte nella gran ruota del comune sovvertimento.
Tale sovvertimento non poteva a meno d’imprimere una traccia molto profonda anche agli studii; di che naturale effetto può essere considerata la convulsa impetuosità che traspariva dalle scritture tutte, senza distinzione alcuna tra il verso e la prosa. Bene è vero che la effimera festa democratica diede luogo a più sedati consigli, rimanendo le lettere niente più che spruzzate dal turbine passaggiero: ma l’impulso militare, che indi Europa tutta ricevette dal Guerriero fatale, continuavasi troppo bene a quel primo bollore di dogmi e di ciance; e chi avea imparato a ballare intorno l’albero di Bruto, si trovò le ginocchia opportunamente disposte a piegare davanti il trono del Cesare corso.
Da quanto s’è fin qui detto se ne può molto agevolmente conchiudere che una titubazione non dissimile a quella che ci aveva nelle menti in proposito delle opinioni politiche, fosse circa gli studii: non bene credendosi ancora affidati i moderni dagli esempi recenti, parlo de’ moderni che operano con qualche uso di discorso; e per altra parte non potendo a meno quelli pure che duravano nella cieca devozione agli antichi rimanersi dal fare qualche passo sulla nuova via, sospintivi loro malgrado dalla incalzante moltitudine, e dalla legge perpetua ed universale del rinnovamento.