Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua/Lettera dedicatoria

Lettera dedicatoria

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Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua L'autore a chi legge
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AL SERENISSIMO

COSIMO TERZO

GRANDUCA DI TOSCANA


A ben esaminare, Serenissimo Signore, i motivi che hanno gli scrittori nel risolvere la dedicazione dell’opere loro, si troveranno tutti ridursi o all’interesse, considerato nel bisogno di protezione, o all’ossequio e gratitudine, per quanto l’opera sia in sè stessa degna, e dovuta a chi ella si dedica. Supposto ciò per vero, come sembra indubitato, non dovrà parere troppa presunzione la mia, se avendo io compilato alcune notizie appartenenti all’arti, che hanno per fondamento il disegno, ed a’ professori di esse, e risolvendo darle alle stampe, prendo francamente ardire di offerirle all’A. V. S., mentre non ho avuto punto da dubitare in riconoscere, che per l’uno e per l’altro titolo elle erano a V. A. singolarmente dovute. E vaglia il vero, siccome da niun’altra [p. 6 modifica]parte potrei sperare più vigorosa, e benigna protezione; così confido, che solamente l’averla io implorata, servirà di motivo alla somma bontà e clemenza di V. A. per disporsi a concedermela, sul riflesso1 di quella irrefragabile testimonianza, che rende questa istessa supplica alla ingenuità del mio scrivere; perchè non caderà mai in mente ad alcuno, che io possa incorrere in tal temerità, qual sarebbe il consacrare a V. A. un’opera, che potesse anche per ombra esser redarguita di men sincera. Che poi l’opera per se medesima sia meritevole di comparire davanti, e dovuta all’ A. V., credo di poterlo con qualche ragione sperare, poiché per quanto ella sia poco aiutata dalla sufficienza dell’autore, il pregio della materia è così grande in se stesso, che incapace d’esser rialzato dall’eccellenza dello scrittore, non può eziandio restare avvilito dalla inabilità del medesimo. E quando pure la mia debolezza arrivasse a portargli alcun pregiudizio, non gli potrebbe mai torre il far palese la stima, e lo splendore che risultarono a questa patria dal risorgimento, e da’ progressi che in essa ebbero queste arti medesime, nel che consiste quanto l’opera ha in se di grande e di degno per esser ricevuta con [p. 7 modifica]altegradimento da V. A. S., alla quale compete ancora sopra di quella un diritto più particolare, mercè2 quel tanto, che contribuirono agli avanzamenti di così nobile professione, il genio3, l’amore, il diletto, l’applicazione, e la munificenza dei di lei4 gloriosissimi antenati. A me poi corre un titolo di vantaggio per implorare il sovrano patrocinio di V. A. a queste mie fatiche, le quali se furono concepite sotto i benigni auspici del serenissimo principe cardinale Leopoldo di G. M., Zio di V. A., allora che in occasione di assortire la vasta raccolta de’suoi disegni, degnatosi valersi della mia debolezza, mi animò co’ suoi comandamenti ad intraprenderle, sono state dopo da me proseguite con quel gran cuore, che mi ha fatto il crederle non disapprovate dall’A. V. S., alla quale profondamente m’inchino.

Di V. A. S.

Firenze li 13 Aprile 1681.

Umiliss., e obblig. Serv. e Vassallo
FILIPPO BALDINUCCI.


Note

  1. Voce non propria in questo senso. Il Vasari non l’avrebbe usata. Ma al tempo del Baldinucci la nostra lingua andava notabilmente alterandosi.
  2. Mercè di quel tanto, bisogna dire. I Moderni cadono spesso in questo errore.
  3. Anche la parola genio in questo senso non è di buon conio. Bisogna dire ingegno.
  4. Gli scrittori più purgati avrebbero detto: dei suoi,