Ninfale fiesolano/Parte terza
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PARTE TERZA
I.
Così piangendo e sospirando forte
Lo innamorato giovane in sul letto,
Bramando vita e chiamando la morte,
E sperando e temendo con sospetto,
Lo Iddio del sonno uscì delle gran porte
E fece addormentare il giovinetto,
Il qual per le fatiche era sì stanco
II.
La maestrevol madre colto aveva
D’erbe gran quantità per un bagnuolo
Fare a quel male, il qual’ella credeva
Che nel fianco sentisse il suo figliuolo,
Sì come quella che non conosceva
Donde veniva l’angoscioso duolo;
E mentre che tal’opera dispone
A casa ritornava Giraffone.
III.
Il qual del caro figlio dimandava
Se in quel giorno a casa era tornato:
La donna, che Almena si chiamava,
Di sì rispose, e poi gli ha raccontato
Il fatto tutto, e come gli gravava
Sì lo parlar che solo l’ha lasciato
Perch’e’ si possa a suo modo posare,
IV.
I’ ho fatto un bagnol molto verace
A quella doglia, il qual poscia che alquanto
Riposato sarà quanto a lui piace,
Il bagnerem con esso tutto quanto:
Questo bagnolo ogni doglia disface,
E sanerallo dentro in ogni canto;
Però lo lascia stare quanto e’ vuole,
V.
L’amor paterno non sofferse stare
Che non vedesse subito il figliuolo:
Udendo quella cosa raccontare
Alla sua donna, al cor sentì gran duolo,
E nella cameretta volle andare
Dove Affrico dormia sul letticciuolo;
E vedendol dormir lo ricopria,
E tostamente quindi se n’uscia.
VI.
E disse alla sua donna: o cara sposa,
Nostro figliuol mi pare addormentato,
E molto ad agio in sul letto si posa,
Sì che a destarlo mi parria peccato;
E forse gli saria cosa gravosa
Sed io l’avessi del sonno svegliato:
E tu di’ vero, diceva Alimena,
VII.
Poscia che ’l sonno ebbe Affrico tenuto
Nelle sue reti gran pezza legato,
E fu nel petto suo tutto soluto,
Un gran sospir gittando fu svegliato;
E poi che vide non esser veduto
Nel suo primo dolor fu ritornato:
E non gli era però di mente uscito
VIII.
Ma per non far la cosa manifesta
Al padre, che sentito già l’avea,
Su si levò facendo sopravvesta
Col viso infinto ad amor che ’l pugnea,
E poi ch’alquanto il bel viso e la testa
E gli occhi col lenzuol netti s’avea,
Perch’era ancor di lacrime bagnato,
Poi uscì fuori un pochetto turbato.
IX.
Giraffon quando il vide, tostamente
Gli si faceva incontro, domandando
Del caso suo, e poi come si sente,
E Alimena ancor lui rimirando
Il domandava, e que’ dicea: niente
Quasi mi sento; e dicovi che quando
I’ mi destai, mi senti’ andato via
X.
Nondimen fece il padre apparecchiare
Il bagnuol caldo perchè si bagnasse;
Ed e’ vi si bagnò, per dimostrare
Ch’altra pena non fosse che ’l noiasse.
O Giraffon tu nol sai medicare;
Nè non potresti far che si saldasse
Col bagnuol la ferita che fe’ amore,
XI.
Ma lasciam qui: che poi che fu bagnato
Passò quel giorno assai malinconoso,
E l’altro e ’l terzo e ’l quarto egli ha passato
Con molte pene e senza alcun riposo,
E già ogni diletto abbandonato,
Senza mai rallegrarsi sta pensoso,
Nè mai partiva il pensier da colei,
Per cui dì e notte chiamava gli omei.
XII.
Già padre e madre e tutt’altre faccende
Gli uscian di mente senza averne cura,
Nè più a niuna cosa non attende,
Lasciandole menare alla ventura:
Ma ogni suo pensiero in quella spende
La qual’il tiene in tal prigione scura,
E solo in lei ha posto ogni sua speme,
XIII.
E se quando poteva in alcun loco,
Che veduto non fosse, ritrovarsi,
Quivi sfogando l’amoroso foco,
Dolendosi d’amor, poneva a starsi:
E sol questo era suo sollazzo e giuoco,
Quando potea con agio lamentarsi,
E ricordare i casi intervenuti
XIV.
Continuando adunque in tal lamento
Affrico, ognor crescendogli la pena,
E già sì stanco l’aveva il tormento,
Ch’avea perduta la forza e la lena:
Vivea contra sua voglia mal contento,
E già sì stretto l’avea la catena
D’amor, che quasi punto non mangiava,
E più di giorno in giorno lo stremava.
XV.
Già fuggit’era il vermiglio colore
Del viso bello, e magro divenuto,
In esso già si vedea il palidore,
E gli occhi indentro col mirare aguto;
E trasformato sì l’avea il dolore,
Ch’appena si saria riconosciuto
A quel ch’esser solea, prima che preso
XVI.
Sì gran dolore il padre ne portava,
Che raccontar non lo potrei giammai;
E con parole spesso il confortava,
Dicendo: figliuol mio, dimmi, che hai?
E quale è quella cosa che ti grava?
Ch’i’ ti prometto che, se mel dirai,
Pur che sia cosa che possibil sia,
XVII.
E s’ell’è cosa che non si potesse
Aver per forza o per ingegno umano,
Provvederem s’altra cosa ci avesse
A cacciar via questo pensier villano,
Acciocchè tanta noia non ti desse,
E che tu torni com’esser suoi sano;
E non può esser che qualche consiglio
Io non ti doni, o caro e dolce figlio.
XVIII.
Simile ancora la sua madre cara
Il domandava spesso qual cagione
Fosse della sua vita tanto amara,
Che ’l conduceva a tanta turbazione,
Dicendo: figlio, tanto m’è discara
Questa tua angoscia, che in disperazione
Io credo venir tosto, poich’io veggio
XIX.
Null’altra cosa Affrico rispondea
Se non che nulla di mal si sentia,
E la cagion di questa non sapea:
Alcuna volta pure acconsentia
Che un po’ il capo e altro gli dolea,
Perchè di più dimandarlo ristia:
Onde più volte egli era medicato,
XX.
Adunque in cotal vita dimorando
Affrico, un giorno essendo con l’armento
Del suo bestiame, e quindi oltre guardando
Sen giva in qua e in là con passo lento,
Continuo all’amante sua pensando,
Per la qual dimorava in tal tormento,
Poi una fonte vide molto bella
Appresso a lui, più chiara ch’una stella.
XXI.
Ell’era tutta d’alber circundata,
Di verdi frondi che facean ombria
Ad essa; e poi ch’alquanto l’ha mirata,
Appiè di quella a seder si ponia,
Pensando alla sua vita sventurata,
E dove amor condotto già l’avia;
Poi si specchiava nell’acqua, e pon cura
XXII.
Perchè pietà di sè stesso gli venne,
Veggendosi sì forte sfigurato,
E le lacrime punto non ritenne,
Ma forte a pianger egli ha cominciato,
Maladicendo ciò che gl’intervenne
Il primo giorno che fu innamorato,
Dicendo: lasso me, a che periglio
XXIII.
E con la man la gota sostenendo,
In sul ginocchio il gomito posava,
E sì diceva tuttavia piangendo:
Oimè, dolente la mia vita prava,
Ch’ella si va come neve struggendo
Al sol, tanto questa doglia mi grava!
E come legno al fuoco mi divampo,
Nè veggio alcun riparo allo mio scampo.
XXIV.
Io non posso fuggir ched io non ami
Questa crudel fanciulla che m’ha preso
Il core, o ch’io non lei sempre mai brami
Sopr’ogni cosa; e poi veggio che offeso
I’ son sì forte da questi legami
Che giorno e notte sto in foco acceso,
Senza speranza d’uscirne giammai,
XXV.
E poi guardando, vide nel suo armento
Le belle vacche e’ giovenchi scherzare:
Vedea ciascuno ’l suo amor far contento,
E l’un con l’altro li vedea baciare:
Sentia gli uccei con dolce cantamento
Ed amorosi versi rallegrare,
E gir l’un dietro all’altro sollazzando,
XXVI.
Affrico questo veggendo dicea:
O felici animai! quanto voi sete
Più di me amici di VenereFonte/commento: normalizzo Iddea,
E quanto i vostri amor più lieti avete,
E con maggior piacer ch’io non credea!
E quanto più di me lodar dovete
Amor de’ vostri diletti e piaceri,
Che v’ha prestati sì compiuti e veri!
XXVII.
Voi ne cantate e menatene gioia,
Manifestando la vostra allegrezza,
Ed io ne piango con tormento e noia,
E giorno e notte menando gramezza;
E veggio pur ch’alfin convien ch’i’ muoia,
Così mi liberrò d’ogni gravezza,
Senza aver mai avuto alcun diletto
XXVIII.
E dopo un gran sospir sì fortemente
A pianger cominciava il giovinetto,
E le lacrime sì abbondevolmente
Gli uscian degli occhi, che le guance e ’l petto
Pareano fatti un fiumicel corrente,
Tant’era dalla gran doglia costretto:
Poi nella bella fonte si specchiava,
XXIX.
Poi che si fu con lei molto doluto,
E la fonte di lagrime ripiena,
E molti pensier vani avendo avuto,
Alquanto di più pianger si raffrena
Per un pensier che nel cor gli è venuto,
Ch’alquanto mitigò la greve pena,
Tornandogli a memoria la speranza
Che gli diè Vener della sua amanza.
XXX.
Ma veggendo l’effetto non venire
Di tal promessa, e sè condotto a tale
Che ’n breve tempo gli convien morire,
Disse: forse che Vener del mio male
Non si ricorda, nè del mio martire,
Nè vede come morte ria m’assale;
Perchè con sacrificio ed onor farle
XXXI.
E ’n piè levato se ne giva in parte
Dove vedeva il ciel meglio scoperto,
E quivi con fucile e con sua arte
Il fuoco accese molto chiaro e aperto,
E poi con un coltello taglia e parte
Di molte legne, e ’l fuoco n’ha coperto:
E presto poi prese una pecorella
XXXII.
E quella presa la condusse al fuoco,
E quivi fra le gambe la si mise,
E come quel che ben sapeva il giuoco,
Nella gola ferendola l’uccise:
E ’l sangue, uscendo fuori a poco a poco,
Sopra ’l fuoco lo sparse, e poi divise
La pecorella, e due parti n’ha fatto,
E nel fuoco le mise molto ratto.
XXXIII.
L’una parte per Mensola vi misse,
L’altra in suo nome volle che vi ardesse,
Per veder se miracol ne venisse
Per lo quale speranza ne prendesse
O buona o ria, pur ch’ella avvenisse,
Acciò sapesse che sperar dovesse;
E poi si mise in terra ginocchione
XXXIV.
O santa Dea, la cui forza e valore
Ogn’altra passa mondana e celesta,
O Vener bella col tuo figlio Amore,
Che fere i cori e gli animi molesta,
A te ricorro con divoto core,
Siccome a quella c’hai in tua potesta
Il cor di tutti, che questo mio priego
XXXV.
Tu sai, Iddea, come agevolmente
Io mi lasciai pigliare al tuo figliuolo
Il giorno che Dïana parimente
Vidi alla fonte con l’adorno stuolo
Delle sue ninfe, e come tostamente
Nel cor sentii delle tue frecce il duolo,
Per una ch’io vi vidi tanto bella,
Che sempre poi nel cor m’è stata quella.
XXXVI.
E quanti sien poi stati i miei martiri,
Ch’i’ ho per lei patiti e sostenuti,
E l’angosciose pene ed i sospiri
Assai ben chiari puoi aver veduti:
E quanto la fortuna a’ miei desiri
Contraria è stata, possono esser suti
Ver testimoni i boschi tutti quanti
XXXVII.
Ancora il viso mio assai palese
Fa manifesto come la mia vita
È stata, e sta ancora in fiamme accese;
E che tosto morendo fia finita,
E fuor di tutte quante le tue offese,
Se prima la tua forza non l’aita,
E se non pon rimedio alla mia pena,
XXXVIII.
Tu prima fosti che principio desti
Alla mia angoscia, e che in visïone
Venendo a me col tuo figliuol dicesti
Ched io seguissi il mio opinione;
E detto questo poi mi promettesti,
Come tu sai, che senza tardagione
Che tosto il mio amor verria in effetto;
Poi mi lasciasti ferito in sul letto.
XXXIX.
Perchè del tuo parlar presi speranza,
E l’animo disposi ad amar quella,
Avend’in ciò di te ferma fidanza;
Che un giorno ritrovandola, quand’ella
Mi vide, di me prese gran dottanza,
Ed a fuggir si diè crudele e fella,
E sì veloce, che una saetta
XL.
Nè mai potei con lusinghe e preghiera
Far ch’ella mai aspettar mi volesse,
Ma come veltro se ne gía leggiera,
Mostrando ben che poco le calesse
Della mia vita; e poi ardita e fera,
Vedendo ch’io a seguirla avea messe
Tutte mie forze, si volse, ed un dardo
XLI.
Allor potesti ben vedere, o Dea,
Che morto da quel colpo sarie stato,
Se un albero non fosse, il quale avea
Dinanzi a me, che ’l colpo ebbe arrestato:
Poi passò il monte, e più non la vedea,
Lasciando me tapino e sconsolato;
Nè pote’ poi ritrovarla giammai,
Ond’io rimaso son con molti guai.
XLII.
Ond’io ti prego, o Dea, per tutti i preghi
Che far si posson per l’umana gente,
Ch’un poco gli occhi verso me tu pieghi,
E mira la mia vita aspra e dolente
Pietosamente, e fa’ che al cor tu leghi
Di Mensola il tuo figlio strettamente,
Sì che a lei faccia come a me sentire
XLIII.
E se tu questo non volessi fare,
Ti prego almen, che quando la mia vita
Verrà a morte, che poco può stare
Di qua, che far le converrà partita
Di questo mondo, e ’l corpo abbandonare,
Che la mia amante veggia tal finita,
E che la morte mia non le sia gioia
XLIV.
Appena avea finita l’orazione
Affrico, quando nel foco mirando,
Vide che in esso er’arso ogni tizzone,
E che la pecorella su levando,
L’una parte con l’altra raccozzone
Come fu mai, e poi forte belando,
Senz’arder punto, stette ritta un poco,
E poi ardendo ricadde nel foco.
XLV.
Questo miracol donò gran conforto
Ad Affrico, che ancora lagrimava,
Parendogli vedere assai scorto
Che Vener l’orazione sua accettava,
La qual divotamente le avea porto,
Perchè sovente la Dea ringraziava,
Parendogli il miracol buon segnale
XLVI.
E perchè già il sole era calato
In occidente, e poco si vedeva,
Tutto l’armento suo ebbe adunato
E ’n verso il suo ostello il conduceva,
Dove nel volto assai più che l’usato
E nella vista allegro vi giugneva,
E dove e’ fu dal padre suo raccolto
XLVII.
Ma poichè già nel ciel tutte le stelle
Sì vedeano, e la notte era venuta,
Cenaron tutti, e dopo assai novelle
D’una cosa e d’un’altra intervenuta,
Affrico ch’avea poco il cuore a quelle,
La stanza quivi gli era rincresciuta,
Perchè a dormir s’andò tutto soletto,
Da speranza e pensier nuovi costretto.
XLVIII.
Ma prima che dormir punto potesse,
O che sonno gli entrasse nella testa,
Ben mille volte credo si volgesse
Pel letticciuol d’altra parte or da questa,
Mostrando ben che tutto il core avesse
Fiso a colei che tanto lo molesta:
Pure aiutato forte da speranza
XLIX.
Pure alla fine già presso al mattino
Il sonno vinse gli occhi dello amante,
E leggiermente dormendo supino
Venere Iddea gli venne davante:
In collo aveva Amor piccol fantino,
Con l’arco e le saette minacciante:
Poi gli parea che Venere Iddea
L.
Il sacrificio tuo, e l’orazione
Che mi facesti, fu da me accettata
Per modo, che n’avrai buon guiderdone
Da me di quel che fui da te pregata:
Ed abbi certa e ferma opinïone,
Che la mia forza non ti sia negata
In tuo aiuto, e quella del mio figlio,
Se tu seguir vorrai il mio consiglio.
LI.
Fatti una vesta per tal modo e stile,
Ch’ella sia larga e lunga infino a’ piedi,
Tutta ritratta ad atto femminile;
Poi d’un arco e d’un dardo ti provvedi,
A modo d’una ninfa tutto umile,
Poi mettiti a cercar se tu la vedi:
Tu parrai come lor ninfa per certo,
LII.
E se tu trovi Mensola, con lei
Piacevolmente a parlare entrerai
Di cose sante e di cose di Dei,
E con lei ragionando ti starai:
E perchè me’ tu sappi che far dei,
Questo mio figlio sempre in core avrai,
Che ben t’insegnerà dire ogni cosa,
LIII.
E quando il tempo tu vedi più bello,
E tu a lei allor ti manifesta:
Ella si fuggirà siccome uccello
Seguito dal falcon per la foresta;
Ma fa’ che tu non fossi tanto fello,
Che quando ti palesi, ella più presta
Fusse a fuggir che tu presto a pigliarla,
Che non ti varria poi più lusingarla.
LIV.
Non temer di sforzarla, che ’l mio figlio
La ferirà in tal modo e maniera,
Che uscire non potrà del suo artiglio:
Di lei avrai ogni tua voglia intera.
Or fa’ che tu t’attenga al mio consiglio,
Ed avrai ciò che il tuo desire spera:
Poi si partì, quand’Affrico sentissi,
LV.
E come que’ che molto bene avea
La visïon di quella Dea compresa,
E molto questo modo gli piacea,
Onde si fu allor la fiamma accesa
Sì nel suo core, che già tutto ardea
Per la grande speranza ch’avea presa,
Perchè pensava come aver potesse
LVI.
Ma dopo assai pensar si ricordava
Che la sua madre aveva un bel vestire,
Il qual non mai o poco ella portava,
E ’nfra sè disse: s’io ’l posso carpire,
Ottimo fia: poi la madre aspettava
Se fuor di casa la vedesse uscire,
Per quel vestire in tal parte riporre
Che d’imbolio non l’avesse più a torre.
LVII.
E fugli assai in questo la fortuna
Favorevole e buona, che già essendo
Ispenti tutti i raggi della luna
E delle stelle, e il giorno già venendo,
Si levò Giraffone, e senza alcuna
Istanza quivi fuor di casa uscendo,
Dandosi a fare certi suoi lavori,
LVIII.
Affrico non fu lento a questo tratto,
Veggendo ognun di lor essere andato,
Ma dov’era il vestir se n’andò ratto,
E senza cercar troppo l’ha trovato;
E ben gli venne ciò che volea fatto,
Che senza esser veduto l’ha portato
Fuor della casa un gran pezzo lontano,
LIX.
Poi verso casa facendo ritorno
Gli pareva il suo avviso aver fornito;
Nè però metter si volle quel giorno
A Mensola trovar, ma in casa gito
Ritrovò tosto un suo bell’arco adorno,
E d’un turcasso e saette guernito,
E d’ogni cosa si fu provveduto:
Passò quel giorno, e l’altro fu venuto.