Ninfale fiesolano/Parte seconda
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PARTE SECONDA
I.
Il sole era già corso in occidente,
E sì nascoso che più non luceva,
E già le stelle e la luna lucente
Nell’aria cilestrina si vedeva;
E l’usignuol più cantar non si sente,
Ma cantan que’ che ’l giorno nascondeva
Per lor natura, e scuopronsi la notte.
II.
Alla qual giunto, l’aspettante padre
Con gran letizia ricevette il figlio,
Siccome quel che temea che le ladre
Fiere dato non gli avesser di piglio;
E la pietosa e piangente sua madre
L’abbracciava, dicendo: o fresco giglio,
Ove se’ stato, o caro mio figliuolo,
Che tu ci hai dato tanta pena e duolo?
III.
E similmente il padre il domandava
Ove stato era il dì senza mangiare:
Affrico sopra sè alquanto stava,
Per legittima scusa a ciò trovare,
La quale amore tosto gl’insegnava,
Come far suol le menti assottigliare
De’ veri amanti, ed al padre rispose,
IV.
Padre mio caro, egli è gran pezzo ch’io
In questi poggi i’ vidi una cerbietta,
La qual tanto bell’era al parer mio
Che mai non credo che una sì eletta
Se ne vedesse; e veramente Iddio
Colle sue man la fe’ si leggiadretta:
E nell’andar come grù era leve,
V.
Sì n’invaghii ch’io la seguii gran pezza
Di bosco in bosco, credendo pigliarla,
Ma ella tosto de’ monti l’altezza
Prese, perch’io di più seguitarla
Sì mi rimasi con molta gravezza,
E in cuor mi posi d’ancor ritrovarla,
E con più agio seguirla altra volta,
Così a casa tornando diedi volta.
VI.
Io mi levai stamane, a dire il vero,
Veggendo il tempo bel, mi ricordai
Della cerbietta, e vennemi in pensiero
Di lei cercare, e mi deliberai:
Così mi misi su per un sentiero,
Che non m’accorsi ch’io mi ritrovai
A mezzo il poggio, quando il sol già era
VII.
Quando sentii e vidi menar foglie
Di quercioletti freschi, ond’io più presso
Mi feci alquanto dietro a alcune scoglie
Tacitamente per veder fui messo,
Vidi tre cerbie gir con pari voglie
L’erbe pascendo, perchè in fra me stesso
Avvisaimi pigliarne una pian piano,
VIII.
Ma com’elle mi vider, si fuggiro
Suso al monte senza punto aspettarmi,
E io di questo alquanto me n’adiro,
Veggendo quivi beffato lasciarmi:
E così dietro loro un pezzo miro
Poi a seguirle, senza avere altr’armi
Che ora i’ m’abbia, infin che di veduta
Non me le tolse la notte venuta.
IX.
Or sai della mia stanza la cagione,
O caro padre, e di questo sii certo.
E ’l padre, ch’avea nome Giraffone,
Gli parve intender quel parlar coperto;
E ben s’avvide, e tenne opinïone,
Siccome savio e di ta’ cose esperto,
Che ninfe state doveano esser quelle,
X.
Ma per non farlo di ciò mentitore,
E non paresse che se ne accorgesse,
E per non crescergli il disio maggiore
Di più seguirle, ed ancor se potesse
Far che lasciasse da sè questo amore,
E senza palesargli giù il ponesse,
Ciò che ha detto fa vista di credirgli,
XI.
Caro figliuolo e dolce mio diletto,
Per Dio, ti prego, ti sappi guardare
Da quelle cerbie che tu hai or detto,
Ed in mal’ora via le lassa andare,
Che sopra la mia fede io ti prometto
Che di Dïana sono; a diportare
Si van pascendo su per questi monti,
L’acqua bevendo delle fresche fonti.
XII.
Dïana le più volte va con esse
Con le saette e l’arco micidiale,
E se per tua sventura s’avvedesse
Che tu le seguitassi, con lo strale
Morte ti donerebbe, come spesse
Volte ell’ha fatto a chi vuol far lor male:
Sanza ch’ell’è grandissima nimica
XIII.
Oimè, figliuol, che a lacrimar mi muove
La morte del mio padre sventurato,
Tornandomi a memoria il come e ’l dove
Fu da Dïana morto e consumato:
O figliuol mio, così m’aiuti Giove,
Com’io dirò il ver del suo peccato,
Che, come sai, ebbe nome Mugnone
XIV.
La storia sarie lunga a voler dire
Ogni parte del suo misero danno;
Ma per tosto all’effetto pervenire,
Per questi monti andava, come vanno
I cacciator per le bestie fedire,
E così andando, dopo molto affanno
’N una piaggia sopra un fiume arrivoe,
Il qual per lui Mugnon poi si chiamoe.
XV.
E quivi giunto ad una bella fonte,
Trovò una ninfa star tutta soletta,
La qual vedutol, tutta nella fronte
Impallidío, e su si levò in fretta,
Oimè, oimè dicendo, e su pel monte
Si fuggìa paurosa e pargoletta;
Il volonteroso padre a pregarla
XVI.
O miser padre, tu non t’avvedevi
Che tu correvi dietro alla tua morte,
E i lacci tuoi, tapin, non conoscevi,
Dove preso tu fusti con ria sorte!
Gl’ Dii volesser, che quando correvi
Dietro alla ninfa sì veloce e forte,
Diana l’avesse in uccel trasmutata,
XVII.
Ella non era al fiume giunta a pena,
Che la raccolta e sottil sua guarnacca
Tra le gambe le cadde, e già la lena
Del correr perde, e di dolor si fiacca:
Lo sciaurato Mugnon gioia ne mena,
Avendola già giunta per istracca,
E presa la teneva infra le braccia,
Donando baci alla vergine faccia.
XVIII.
Quivi usò forza, e quivi violenza,
Quivi la ninfa fu contaminata:
Quivi ella non potè far resistenza.
Oh misero garzone, o sventurata
Ninfa, quanta dogliosa penitenza
Divise amendue voi quella fïata!
Dïana di sopra ’l soprastante monte
XIX.
Ella gridò: miseri, quest’è l’ora
Che insieme n’anderete nello inferno;
Voi sarete oggi d’esto mondo fuora
Senza veder di questa state il verno:
E’ nomi vostri faranno dimora
Nel fiume dove sete in sempiterno:
E poscia l’arco tese con grand’ira,
XX.
A un’otta giunson l’ultime parole
E la freccia che insieme gli confisse:
O figliuol mio, io non ti dico fole,
Così volesson gli Dei ch’io mentisse,
Che per dolore ancora il cor mi dole,
E’ convenne ch’ognun di lor morisse:
Un ferro tenea fitti que’ due cori,
Così finiron quivi i loro amori.
XXI.
Il sangue del mio padre doloroso
Il fiume tinse di rosso colore,
E corse tutto quanto sanguinoso,
E manifesto fe’ questo dolore,
E ’l corpo suo ancor vi sta nascoso,
Che mai non se ne seppe alcun sentore,
Nè dove s’arrivasse poi, o il come,
XXII.
Dissesi che Dïana ragunoe
Il sangue della ninfa tutto quanto,
E ’l corpo insieme con quel tramutoe
In una bella fonte, dall’un canto
Allato al fiume, e così la lascioe,
Acciocchè manifesto fosse quanto
Ell’è crudele e forte e dispietata
XXIII.
Così di molti te ne potre’ dire
Che ’n questi monti sono fonti e uccelli,
Quali in albero ha fatti convertire,
E così ha disfatti i tapinelli:
Ancor del sangue tuo fece morire
Anticamente due carnal fratelli:
Però ti guarda, per l’amor di Dio,
Dalle sue mani, o caro figliuol mio.
XXIV.
Posto avea fine al suo ragionamento
Il vecchio Giraffone lacrimando;
Affrico ad ascoltarlo molto attento
Istava, bene ogni cosa notando,
E come che alquanto di spavento
Avesse di quel dir, pur fermo stando
In sua opinïon, al padre disse,
XXV.
Da ora innanzi le lascerò andare,
Se egli avvien ch’io le trovi più mai.
Andianci, padre, omai a riposare,
Ch’io sono stanco, sì m’affaticai
Oggi per questi monti, per tornare
Di dì a casa, che mai non finai,
Ch’io son qui giunto con molta fatica;
XXVI.
Giti a dormir, non fu sì tosto giorno
Ch’Affrico si levava prestamente,
E nelli usati poggi fe’ ritorno
Dove sempre tenea ’l core e la mente,
Sempre mirandosi avanti ed intorno
Se Mensola vedea poneva mente,
E come piacque a Amor giunse ad un varcoFonte/commento: OPAL
Ov’ella gli era presso ad un trar d’arco.
XXVII.
Ella lo vide prima che lui lei,
Perchè a fuggir del campo ella prendea:
Affrico la sentì gridare omei,
E poi guardando fuggir la vedea;
E infra sè disse, per certo costei
È Mensola, e poi dietro le correa;
E sì la prega, e per nome la chiama,
XXVIII.
Deh, o bella fanciulla, non fuggire
Colui che t’ama sopra ogn’altra cosa.
Io son colui che per te gran martire
Sento dì e notte senza aver mai posa:
Ch’i’ non ti seguo per farti morire,
Nè per far cosa che ti sia gravosa,
Ma solo Amor mi li fa seguitare,
XXIX.
Io non ti seguo come falcon face
La volante pernice cattivella,
Nè ancora come fa lupo rapace
La misera e dolente pecorella,
Ma sì come colei che più mi piace
Sopr’ogni cosa, e sia quanto vuol bella.
Tu se’ la mia speranza e ’l mio disio,
E se tu avessi mal sì l’avre’ io.
XXX.
Se tu m’aspetti, o Mensola mia bella,
Io ti prometto e giuro per gli Dei
Ch’io ti torrò per mia sposa novella,
Ed amerotti sì come colei
Che se’ tutto il mio bene, e come quella
C’hai in balìa tutti i sensi miei:
Tu se’ colei che sol mi guidi e reggi,
XXXI.
Dunque perchè vuo’ tu, o dispietata,
Esser della mia morte la cagione?
Ed esser vuoi di tanto amore ingrata
Verso di me, senza averne ragione?
Vuo’ tu ch’io muoia per averti amata,
E ch’io n’abbia di ciò tal guiderdone?
S’io non t’amassi dunque che faresti?
XXXII.
Se tu pur fuggi, tu se’ più crudele
Che non è l’orsa quand’ha gli orsacchini,
E se’ più amara che non è il fiele,
E dura più che i sassi marmorini.
Se tu m’aspetti, più dolce che mele
Se’, o che l’uva ond’esce i dolci vini;
E più che ’l sol se’ bella e rilucente,
Morbida, bianca, angelica e piacente.
XXXIII.
Ma i’ ben veggo che ’l pregar non vale,
Nè parola ch’io dica non ascolti,
E di me servo tuo poco ti cale,
Nè mai indietro gli occhi non hai volti;
Ma come egli esce dell’arco lo strale,
Così ten vai per questi boschi folti,
E non ti curi di pruni o di sassi
XXXIV.
Or poi che di fuggir se’ pur disposta
Colui che t’ama, secondo ch’io veggio,
Senza fare a’ miei preghi altra risposta,
E par che per pregar tu facci peggio,
Io prego Giove che ’l monte e la costa
Ispiani tutta; questa grazia chieggio,
E pianura diventi umíle e piana,
XXXV.
E prego voi, Iddii, che dimorate
Per questi boschi e nelle valli ombrose,
Che se cortesi fuste mai, or siate
Verso le gambe candide e vezzose
Di quella ninfa, che voi convertiate
Alberi e pruni e pietre e altre cose,
Che noia fanno a’ pie’ morbidi e belli,
In erba minutella e praticelli.
XXXVI.
E io per me omai mi rimarroe
Di più seguirti, e va’ dove ti piace,
E nella mia mal’ora mi staroe
Con molte pena senza aver mai pace;
E senza dubbio al fine io mi morroe,
Ch’io sento il cor che già tutto si sface
Per te, che ’l tieni in sì ardente foco,
XXXVII.
Correa la ninfa sì velocemente
Che parea che volasse, e’ panni alzati
S’avea dinanzi per più prestamente
Poter fuggire, e aveasegli attaccati
Alla cintura, sì che apertamente
Di sopra a’ calzerin ch’avea calzati
Mostra le gambe e ’l ginocchio vezzoso,
XXXVIII.
E nella destra man teneva un dardo,
Il qual quand’ella fu un pezzo fuggita
Si volse indietro con rigido sguardo,
E diventata per paura ardita
Quel gli lanciò col suo braccio gagliardo,
Per ad Affrico dar mortal fedita;
E ben l’avrebbe morto, se non fosse
Che in una quercia innanzi a lui percosse.
XXXIX.
Quando ella il dardo per l’aria vedeva
Zufolando volare, e poi nel viso
Guardò del suo amante, il qual pareva
Veracemente fatto in paradiso,
Di quel lanciare forte le doleva,
E tocca da pietà lo mirò fiso,
E gridò forte: oimè! giovane, guarti,
XL.
Il ferro era quadrato e affusolato,
E la forza fu grande, onde e’ si caccia
Entro la quercia, e tutto oltre è passato,
Sì com’avesse dato in una ghiaccia:
Ell’era grossa sì che aggavignato
Un uomo non l’avrebbe con le braccia;
Ella s’aperse, e l’Fonte/commento: Milano, 1974asta dentro entroe,
XLI.
Mensola allor fu lieta di quel tratto,
Che non aveva il giovine fedito,
Perchè Amor già le aveva del cor tratto
Ogni crudel pensiero e fatto unito;
Ma non però ch’aspettarlo a niun patto
Pur lo volesse, o pigliasse partito
D’esser con lui, ma lieta sarie stata
Di non esser da lui più seguitata.
XLII.
E poi da capo a fuggir cominciava
Velocissituamente, poichè vide
Che ’l giovinetto pur la seguitava
Con ratti passi e con preghi e con gride;
Perch’ella innanzi a lui si dileguava,
E grotte e balze passando ricide,
E ’n sul gran collo del monte pervenne,
XLIII.
Ma di là passò molto tostamente
Dove la piaggia d’alberi era spessa,
E sì di frondi folta, che niente
Vi si scorgeva dentro; perchè messa
Si fu la ninfa là tacitamente,
E come fosse uccel, così rimessa
Nel folto bosco fu, tra verdi fronde
XLIV.
Ora torniamo ad Affrico, che quando
Vide il lanciar che la ninfa avea fatto,
Alquanto sbigottì, ma poi ascoltando
Il gridar, guarti, guarti, con un atto
Assai pieteso, verso lui mostrando
Con la luce degli occhi, che in un tratto
Gli ferì il core, e fecel più bramoso
Di seguitarla, e più volonteroso.
XLV.
Ma come fa ’l tizzon ch’è presso spento,
E sol rimasto v’è una favilla,
Ma poi che sente il gran soffiar del vento,
Per forza il fuoco fuor d’esso ne squilla,
E diventa maggior per ogn’un cento;
Tale Affrico sentì, quando sentilla
A lui parlar con sì pietosa voce,
XLVI.
E gridò forte: ora volesse Giove,
Poi che tu vuoi, che tu m’avessi morto
A questo tratto, acciocchè le tue prove
Fusson compiute, avendomi al cor porto
L’aguto ferro, il qual percosse altrove;
E come che tu abbia di ciò ’l torto,
Io pur sarei contento d’esser fuore,
XLVII.
Appena avea finito il suo parlare
Affrico, quando Mensola giugnea
In sul gran monte, e videla passare
Dall’altra parte, e più non la vedea;
Onde di ciò molto mal ne gli pare,
Perch’ella innanzi a lui tal campo avea,
Che temea forte che lei di veduta,
Com’egli avvenne, non aver perduta.
XLVIII.
E lassù giunto dopo molto affanno,
Gli occhi a mirar di lei subito pone:
E come i cacciatori spesso fanno,
Quando levata s’è la cacciagione,
E di veduta poi perduta l’hanno,
Colla testa alta vanno baloccone,
Correndo or qua or là, or fermi stando,
XLIX.
Tale Affrico faceva in sul gran monte,
Di lei mirando con alzato volto,
E colle man si percotea la fronte,
E di fortuna ria si dolea molto,
Che già gli aveva fatte di molte onte;
E poi ne giva verso il bosco folto,
Poi ritornava indietro, e dicea: forse
L.
E tosto là correndo se n’andava
Se veder la potesse in nessun lato;
Poichè non la vedea si ritornava
In altro luogo molto addolorato:
E poi che andata fusse s’avvisava
In altra parte, ma il pensier fallato
Tuttavia gli venia, onde che farsi
E’ non sapea, nè dove più cercarsi.
LI.
E ben dicea fra sè; forse costei
In questo bosco grande s’è nascosa,
E s’ella v’è, mai non la troverei,
Se menar non vedessi alcuna cosa;
E più d’un mese a cercar penerei
La piaggia tutta per le frondi ombrosa;
E non ci veggio d’onde entrata sia,
LII.
Nè ’l cor giammai mi daria d’avvisare
In qual parte sia ita, tante sono
Le vie d’onde ella se ne puote andare;
E se a cercar di lei pur m’abbandono,
Per avventura il contrario cercare
Potrei dov’ella fosse; onde tal dono
Quanto aver mi parea perderò omai,
LIII.
Nè so s’io me ne vo, o s’io m’aspetti,
Se riuscir la veggio in nessun lato,
Benchè sì folti son questi boschetti
Che vi staria a cavallo un uom celato
Senza d’esser veduto aver sospetti.
E pognam pur ch’ell’uscisse d’aguato,
Più ch’un buon mezzo miglio di lontano
Da me uscirebbe, ond’i’ correre’ invano.
LIV.
E poi guardò il sol, che presso all’ora
Di nona era venuto, ond’e’ diceva:
Perchè io son d’ogni speranza fuora
D’aver colei, la qual io mi credeva,
Io non vo’ più quinci oltre far dimora,
Tornandogli a memoria quel ch’aveva
Raccontatogli il padre il dì davanti,
LV.
Dall’altra parte Amor gli facea dire:
Io non curo Dïana, pur che io
Solo una volta empiessi il mio disire,
Che poi contento sarebbe il cor mio;
E se mi convenisse poi morire,
N’andrei contento ringraziando Iddio;
Ma di lei più che di me mi dorrebbe:
LVI.
Cotai ragionamenti rivolgendo
Affrico in sè vi dimorò gran pezza,
Nè che si far nè che dir non sapendo,
Tanto amor lo lusinga e sì l’avvezza:
Pur nella fine partito prendendo,
Per non voler al padre dar gramezza,
A casa ritornar contro sua voglia,
Così si mise in via con molta doglia.
LVII.
Così si torna Affrico mal contento
Rivolgendosi indietro ad ogni passo,
E stando sempre ad ascoltare attento
Se Mensola vedea, dicendo, lasso,
Oimè tapino! in quanto rio tormento
Rimango, e d’ogni ben privato a casso!
E tu rimani, o Mensola! chiamando
LVIII.
Molto sarebbe lungo chi volesse
Le volte raccontar ched e’ tornava
Indietro e innanzi, tant’erano spesse,
Per ogni foglia che si dimenava;
E quanta doglia dentro al core avesse,
Ognuno il pensi, e quanto lo gravava
Di partir quindi, ma per dir più breve
LIX.
Alla qual giunto, in camera ne gìa,
Senza da padre o madre esser veduto,
E ’n sul suo picciol letto si ponìa,
Sentendosi già al core esser venuto
Cupido, il qual sì forte lo ferìa,
Che volentieri avrebbe allor voluto
Morendo uscir di tanta pena e noia,
Vedendosi privato di tal gioia.
LX.
E tutto steso in sul letto bocconi
Affrico sospirando dimorava;
E sì lo punson gli amorosi sproni,
Che, oimè, oimè, per tre volte gridava
Sì forte, che agli orecchi que’ sermoni
Della sua madre venner, che si stava
’N uno orticello allato alla casetta,
LXI.
E nella cameretta ne fu andata,
Del suo flgliuol la voce conoscendo;
E giunta là si fu maravigliata,
Il suo flgliuol boccon giacer veggendo,
Perchè con voce rotta e sconsolata
Lui abbracciò, caro figliuol, dicendo,
Deh dimmi la cagion del tuo dolere,
LXII.
Deh dimmel tosto, caro figliuol mio,
Dove ti senti la pena e ’l dolore,
Sì che io possa, medicandoti io,
Cacciar da te ogni doglia di fore:
Deh leva il capo, dolce mio disio,
Ed un poco mi parla per mio amore,
Io son la madre tua che ti lattai,
E nove mesi in corpo ti portai.
LXIII.
Affrico udendo quivi esser venuta
La sua tenera madre, fu cruccioso
Perch’ella s’era di lui avveduta;
Ma fatto già per amor malizioso,
Tosto gli fu nel cor scusa venuta,
E ’l capo alzò col viso lagrimoso,
E disse: madre mia, quando tornava
LXIV.
Poi mi rizzai, e rimasemi al fianco
Una gran doglia, ch’appena tornare
Pote’ infin qui, e divenni sì stanco,
Che sopra me non potea dimorare,
Ma come neve al sol mi venìa manco,
Perch’io mi venni in sul letto a posare:
E parmi alquanto la doglia ita via,
LXV.
E però, madre mia, se tu m’hai caro,
Ti prego che di qui facci partenza,
E per Dio questo non ti sia discaro,
Che ’l favellar mi dà gran penitenza,
Nè veggio alla mia doglia altro riparo:
Or te ne va’, senza più resistenza
Fare al mio dir, che per certo conosco
Che ’l più parlar m’è velenoso tosco.
LXVI.
E questo detto il capo giù ripose,
Senza più dir, ma forte sospirando.
La madre, avendo udite queste cose,
Con seco venne alquanto ripensando,
Dicendo: e’ mi s’accosta, che gravose
E maggior pene gli fien favellando,
Che forse gli rimbomba quella voce
LXVII.
E della camera uscì, e in sul letto
Lasciò il figliuolo con molti sospiri:
Il qual poi che si vide esser soletto,
D’amor si dolea forte e de’ martiri
I quai crescean nel non usato petto
Con maggior forza, e più caldi i desiri
Che prima non facien, dicendo: i’ veggio
LXVIII.
Io mi sento arder dentro tutto quanto
Dall’amorose fiamme, e consumare
Mi sento il petto e ’l cor da ogni canto,
Nè non mi può di questo nullo atare
Nè conforto donar poco nè quanto;
Sol’una è quella che mi può donare,
S’ella volesse, aiuto e darmi pace,
E di me sol può far quanto le piace.
LXIX.
E tu sola fanciulla bionda e bella,
Morbida, bianca, angelica e vezzosa,
Con leggiadro atto e benigna favella,
Fresca e giuliva più che bianca rosa,
E splendiente più ch’ogni altra stella
Sei che mi piaci più che altra cosa;
E sola te con desiderio bramo,
LXX.
Tu se’ colei ch’alle mie pene e guai
Sola potresti buon rimedio porre:
Tu se’ colei che nelle tue man’hai
La vita mia, ne la ti posso torre:
Tu se’ colei la qual se tu vorrai
Me da misera morte potrai storre;
Tu se’ colei che mi puo’ atar se vuoi,
LXXI.
E poi diceva: oimè lasso, dolente!
Che tu se’ tanto dispietata e dura,
E tanto se’ selvaggia dalla gente
Che hai di chi ti mira gran paura,
E di mia vita non curi niente,
La qual’in carcer tenebrosa e scura
Istà per te, e tu, lasso, non credi
Ch’io per te senta quel che tu non vedi.
LXXII.
Poi sospirando a Vener si volgeva,
Dicendo: o santa diva, la quel suoi
Ogni gran forza vincer, che soleva
Difesa far contra li dardi tuoi,
E niun da te difender si poteva,
Ora mi par che vincer tu non puoi
Una fanciulla tenera, la quale
LXXIII.
Tu hai perduta ogni forza e valore
Contra di lei, e l’ingegno sottile,
Che suol’avere il tuo figliuolo Amore
Contro ogni core villano e gentile,
Perduto l’hai contro al gelato core,
Il quale ogni tua forza tiene a vile,
E sprezza l’arco e l’agute saette,
LXXIV.
Tu li credesti forse lei pigliare
Agevolmente come me pigliasti,
E nel gelato petto tosto entrare
Co’ tuoi ingegni come nel mio entrasti:
Ma ella fe’ le frecce rintuzzare
Colle qua’ di passarla t’ingegnasti,
E io tapin, che non fei difensione,
Rimaso sono in eterna prigione:
LXXV.
Nè spero d’essa giammai riuscire
Nè pace aver nè tregua nè riposo,
Ma bene aspetto che maggior martire
Mi cresca ognor col pensiero amoroso,
Il quale al fin farà del corpo uscire
L’anima trista con pianto noioso,
E gir fra l’ombre nere a suo dispetto,
LXXVI.
E io ti chieggio morte, poichè dei
Medicina esser di mia amara vita,
Perchè contra mia voglia viverei,
Se non mi dai nel cor la tua fedita,
E sempre mai di te io mi dorrei,
Ma se tu vien sarai da me gradita;
Dunque vien tosto, e scio’ questa catena
LXXVII.
Poi detto questo forte lagrimando
Sì ricordò del dardo, il qual lanciato
Gli avea la bella ninfa: e poscia quando
Con pietose parole avea parlato,
Ch’egli schifasse il dardo, che volando
Venia per lui per l’aria affusolato:
Quelle parole gli davan fidanza
Alcuna di pietà con isperanza.