Ninfale fiesolano/Parte prima
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NINFALE
FIESOLANO
OSSIA L’INNAMORAMENTO
DI
AFFRICO E MENSOLA
PARTE PRIMA
I.
Amor mi fa parlar, che m’è nel core
Gran tempo stato e fatto n’ha suo albergo,
E legato lo tien con lo splendore
E con que’ raggi a cui non valse usbergo,
Quando passaron dentro col favore
Degli occhi di colei, per cui rinvergo
La notte e ’l giorno pianti con sospiri,
Che è cagion di molti miei martiri.
II.
Amor è quel che mi guida e conduce
Nell’opera la qual a scriver vegno:
Amor è quel che a far questo m’induce,
E che la forza mi dona e l’ingegno:
Amor è quel ch’è mia forza e mia luce,
E che di lui trattar m’ha fatto degno:
Amor è quel che mi sforza ch’io dica
D’un’amorosa storia e molto antica.
III.
Però vo’ che l’onor sia sol di lui,
Poich’egli è quel che guida lo mio stile,
Mandato dalla donna mia, il cui
Valore è tal, ch’ogn’altro mi par vile,
E che ’n tutte virtù avanza altrui,
E sopr’ogn’altra è più bella e gentile:
E non le mancheria alcuna cosa
IV.
Or prego qui ciascun fedele amante
Che siate in questo mia difesa, e scudo
Contra ogn’invidïoso e mal parlante,
E contro a chi è d’amor povero e ignudo;
E voi, care mie donne tutte quante,
Che non avete il cor gelato e crudo,
Prego preghiate la mia donna altera
V.
Prima che Fiesol foss’edificata
Di mura, o di steccati o di fortezza,
Da molto poca gente era abitata,
E quella poca avea presa l’altezza
De’ circunstanti monti, e abbandonata
Si stava la pianura, per l’asprezza
Della molt’acqua e ampioso lagume,
Che a piè de’ monti faceva un gran fiume.
VI.
Era in quel tempo la falsa credenza
Degl’Iddii rei, bugiardi e viziosi,
E sì cresciuta la mala semenza
Era, ch’ogn’uom credea che grazïosi
Fussero in ciel come nell’apparenza;
E lor sacrificavan con pomposi
Onori e feste, e sopra tutti Giove
VII.
Ancor regnava in quel tempo una Dea
La qual Dïana si facea chiamare,
E molte donne in devozion l’avea,
E maggiormente quelle che servare
Volean virginità, e a cui spiacea
Lussuria, e a lei si volean dare:
Costei le riceveva con gran festa
VIII.
Ed anche molte ne l’eran offerte
Dalli lor padri e madri, che promesse
L’avieno a lei per voti, e chi per certe
Grazie o doni che ricevuti avesse.
Diana tutte con le braccia aperte
Le riceveva pur ch’ella volesse
Servar virginità, e l’uom fuggire,
E vanità lasciare e lei servire.
IX.
Così per tutt’il mondo era adorata
Questa vergine Dea. Ma ritornando
Ne’ poggi fiesolani, ove onorata
Più ch’oltra v’era, lei glorificando,
Contar vi vo’ della bella brigata
Delle vergini sue, che lassù stando,
Tutte eran ninfe a quel tempo chiamate,
X.
Avea di queste vergini raccolte
Gran quantità Dïana del paese
Per questi poggi, benchè rade volte
Dimorasse con lor molto palese,
Siccome quella che n’aveva molte
A guardar per il mondo dalle offese
Dell’uom; ma pur quand’a Fiesol veniva,
XI.
Ell’era grande e schietta, come quella
Grandezza richiedeva, e gli occhi e ’l viso
Lucevan più ch’una lucente stella,
E ben pareva fatta in paradiso,
Raggiando intorno a sè come fiammella,
Sì che mirarla non si potea fiso;
Con capei crespi, e biondi non com’oro,
Ma d’un color che vie meglio sta loro.
XII.
Ella più volte sparti gli teneva
Sopra lo svelto collo, e ’l suo vestire,
Ch’a guisa d’una cioppa il taglio aveva,
D’un zendado ch’appena ricoprire,
Sì sottil’era, le carni poteva,
Tutta di bianco senz’altro partire;
Cinta nel mezzo, e talora un mantello
XIII.
Venticinque anni di tempo mostrava
Sua giovanezza, senz’averne un manco.
Nella sinistra man l’arco portava,
E ’l turcasso pendea dal destro fianco
Pien di saette, le qual saettava
Alle fiere selvagge, e tal’or anco
A qualunque uom che lei noiar volesse,
XIV.
In cotal guisa a Fiesole venia
Dïana le sue ninfe a visitare,
E con bel modo graziosa e pia
A sè sovente le facea adunare
Intorno a fresche fonti ed all’ombria
Di verdi fronde, al tempo che a scaldare
Comincia il sol la state com’è usanza,
E di verno al caldin facieno stanza.
XV.
E quivi le ammoniva tutte quante
Nel ben perseverar virginitate:
Alcuna volta ragiona d’alquante
Cacce che fatte aveva molte fiate
Su per que’ poggi, seguendo le piante
Delle fiere selvagge, chè pigliate
E morte assai n’aveano, ordine dando
XVI.
Cotai ragionamenti tra costoro,
Com’io v’ho detto, tenía di cacciare,
E quando Diana si partia da loro,
Tosto una ninfa si facea chiamare
La qual fusse di tutto il concistoro
Di lei vicaria, facendo giurare
All’altre tutte di lei obbedire,
XVII.
Quella tale da tutte era ubbidita
Come fusse Dïana veramente,
E ciascun’era d’un panno vestita
Di lin tessuto molto sottilmente:
Facendo co’ loro archi d’esta vita
Passar molti animali assai sovente;
E qual portava un affilato dardo,
Più destra che non fu mai leopardo.
XVIII.
Era in quel tempo del mese di maggio,
Quando i be’ prati rilucon di fiori,
E gli usignuoli per ogni rivaggio
Manifestan con canti i loro amori,
E’ giovanetti con lieto coraggio
Senton d’amore più caldi i vapori,
Quando la Dea Dïana a Fiesol venne,
XIX.
Intorno ad una bella e chiara fonte
Di fresche erbette e di fiori adornata,
La quale ancor dimora appiè del monte
Cecer, da quella parte ove ’l sol guata
Quand’è nel mezzo giorno a fronte a fronte,
E fonte Aqueli è oggi nominata:
Intorno a quella Diana allor si volse
XX.
Così a sedere tutte quante intorno
Si posono alla fonte chiara e bella,
Ed una ninfa senza far soggiorno
Si levò ritta, leggiadretta e snella,
Ed a sonare incominciò un corno
Perch’ognuna traesse; e poi quand’ella
Ebbe sonato a seder si fu posta,
Aspettando di Diana la proposta.
XXI.
La qual com’usata era così allora
Diceva lor, ch’ognuna si guardasse
Che con null’uom facesse mai dimora,
E se avvenisse pur ch’uomo trovasse,
Come nimico il fugga in ciascun’ora,
Acciò che inganno o forza non usasse
Contro di voi; chè qual fusse ingannata
XXII.
Mentre che tal consiglio si teneva,
Un giovinetto, ch’Affrico avea nome,
Il qual forse vent’anni o meno aveva,
Senz’aver barba ancora, e le sue chiome
Bionde e crespe, e ’l suo viso pareva
Un giglio o rosa, ovver un fresco pome;
Costui ind’oltre abitava col padre,
XXIII.
Il giovine era quivi in un boschetto
Presso a Dïana, quando il ragionare
Delle ninfe sentì, che a suo diletto
Ind’oltre s’era andato a diportare:
Perchè fattosi innanzi il giovinetto
Dopo una grotta si mise ascoltare,
Per modo che veduto da costoro
Non era, ed e’ vedeva tutte loro.
XXIV.
Vedea Dïana sopra all’altre stante
Rigida nel parlare e nella mente,
Con le saette e l’arco minacciante,
E vedeva le ninfe parimente
Timide e paurose tutte quante,
Sempre mirando il suo viso piacente.
Ognuna stava cheta, umíle e piana
XXV.
Poi vide che Dïana fece in piede
Levar dritta una ninfa, che Alfinea
Aveva nome, però ch’ella vede
Che più che alcun’altra tempo avea,
Dicendo, ora m’intenda qual qui siede:
Io vo’ che questa qui in mio loco stea,
Però ch’intendo partirmi da voi,
XXVI.
Affrico stante costoro ascoltando,
Una ninfa a’ suoi occhi gli trascorse,
La quale alquanto nel viso mirando,
Sentì ch’amor per lei al cor gli corse,
Che gli fer sentir gioia sospirando
Le fiaccole amorose che gli porse;
E un sì dolce disio, che già saziare
Non si potea della ninfa mirare.
XXVII.
E fra sè stesso dicea: chi saria
Di me più grazïoso e più felice,
Se tal fanciulla io avessi per mia
Isposa? chè per certo il cor mi dice
Che al mondo sì contento uom non saria;
E se non che paura mel disdice
Di Dïana, io l’avrei per forza presa,
XXVIII.
Lo innamorato amante in tal maniera
Nascoso stava in fra le fresche fronde,
Quando Dïana veggendo che sera
Già si faceva, e che ’l sol si nasconde,
Che già perduta avea tutta la spera,
Con le sue ninfe assai liete e gioconde
Si levar ritte, e al poggio salendo
XXIX.
Affrico quando vide che levata
S’era ciascuna, e simil la sua amante,
Udì che da un’altra fu chiamata:
Mensola adianne, e quella su levante,
Con l’altre tosto sì si fu inviata:
E così via n’andaron tutte quante,
Ognuna a sua capanna si tornoe,
Poi Diana si partì e lor lascioe.
XXX.
Avea la ninfa forse quindici anni,
Biondi com’oro e grandi i suoi capelli,
E di candido lin portava i panni;
Due occhi ha in testa rilucenti e belli,
Che chi gli vede non sente mai affanni,
Con angelico viso e atti snelli,
E in man portava un bel dardo affilato:
XXXI.
Il qual soletto rimase pensoso
Oltramodo dolente del partire
Che fe’ la ninfa col viso vezzoso,
E ripetendo il passato disire,
Dicendo: lasso a me, che ’l bel riposo
C’ho ricevuto mi torna in martire,
Pensando ch’io non so dove o in qual parte
XXXII.
Nè conosco costei che m’ha ferito,
Se non ch’io udii che Mensola avea nome,
E lasciato m’ha qui solo e schernito
Senza avermi veduto. O almeno come
Io l’amo sapess’ella, e a che partito
Amor m’ha qui per lei carche le some.
Oimè, Mensola bella, ove ne vai,
E lasci Affrico tuo con molti guai?
XXXIII.
E poi si pose a seder in quel loco
Ove prima seder veduto avea
La bella ninfa, e nel suo petto il foco
Con più fervente caldo s’accendea:
Così continuando questo giuoco
Il bel viso nell’erba nascondea,
Baciandola dicea: ben se’ beata,
XXXIV.
E poi dicea: lasso a me, sospirando,
Qual ria fortuna o qual altro destino
Oggi qui mi condusse lusingando,
Perchè di lieto, dolente e tapino
Io divenissi una fanciulla amando,
La qual m’ha messo in sì fatto cammino,
Senza aver meco scorta o guida alcuna,
XXXV.
Almen sapesse ella quanto amata
Ell’è da me, o veduto m’avesse,
Ben ch’io credo che tutta spaventata
Se ne sarebbe, se ella sapesse
Esser da me o da uomo disiata:
Io son ben certo, in quanto ella potesse,
Ella si fuggiria, siccome quella
C’ha in odio l’uomo e da lui si ribella.
XXXVI.
Che farò dunque, lasso, poi ch’io veggio
Che palesarmi saria ’l mio peggiore?
E s’io mi taccio veggio ch’è ’l mio peggio,
Perocchè ognor mi cresce più l’ardore?
Dunque per miglior vita morte chieggio,
La qual sarebbe fin di tal dolore:
Benchè io mi creda ch’ella penrà poco
XXXVII.
Cotali ed altre simili parole
Diceva il giovinetto innamorato:
Ma poi veggendo che già tutto il sole
Era tramonto, e che ’l cielo stellato
Già si faceva, il che forte gli duole
Per lo partir; ma poi ch’alquanto stato
Sopra sè fu, disse: o me tapino,
XXXVIII.
Ma pur levato, piede innanzi piede,
Pien di molti pensier per la rivera,
Si mosse ver l’ostello, chè ben vede
Che non ritorna qual venuto n’era:
Così pensoso, che non se n’avvede,
Alla casa pervenne, la qual’era,
Scendendo verso il pian, dalla fontana
Forse un quarto di miglio o men lontana.
XXXIX.
Quivi tornato, nella cameretta
Ove dormia soletto se n’andoe,
E sospirando in sul letto si getta,
Ch’a padre o madre prima non parloe:
Quivi con gran disio il giorno aspetta,
Nè ’n tutta notte non si addormentoe,
Ma qua e là ei volgea sospirando,
XL.
Acciocchè voi allora non crediate
Che vi fusson palagi o casamenti,
Come or vi son, sì vo’ che voi sappiate
Che sol d’una capanna eran contenti,
Senza esser con calcina ancor murate,
Ma sol di pietre e legname le genti
Facean lor case, e qua’ facien capanne
XLI.
E forse quattro eran gli abitatori
Che facevano stanza nel paese,
Giù nelle piagge de’ monti minori
Che sono a piè de’ gran poggi distese.
Ma ritornar vi voglio a’ gran dolori
Che Affrico sentia, che presso a un mese
Stette senza veder Mensola mai,
Benchè dell’altre e’ ne scontrasse assai.
XLII.
Amor volendo crescer maggior pena,
Come usato è di fare, al giovinetto,
Parendogli che avesse alquanta lena
Ripresa e spento il fuoco nel suo petto,
Legar lo volle con maggior catena,
E con più lacci tenerlo costretto,
Modo trovando a fargli risentire
XLIII.
Perchè una notte il giovane dormendo,
Vedere in visïone gli pareva
Una donna con raggi risplendendo,
E un piccolo fantino in collo aveva
Ignudo tutto, ed un arco tenendo,
E del turcasso una freccia traeva
Per saettar, quando la donna, aspetta,
XLIV.
E poi la donna ad Affrico rivolta,
Sì gli diceva: qual mala ventura,
O qual pensiero o qual tua mente stolta
T’ha fatto volger? credo che paura
O negligenza Mensola t’ha tolta,
Chè di suo amor non par che metti cura,
Ma come uom vile stai tristo e pensoso,
Quando cercar dovresti il tuo riposo.
XLV.
Leva su dunque: cerca queste piagge
Di questi monti, e tu la troverai,
Chè a suo diletto le fiere selvagge
Con l’altre ninfe seguir la vedrai,
E benchè a correr sieno preste e sagge,
Senza niun fallo tu la vincerai:
Nè ti bisogna temer di Dïana,
XLVI.
E io ti prometto di darti il mio aiuto,
Al qual nessun può mai far resistenza,
Pur che questo mio figlio abbia voluto
Ferir con l’arco per la mia sentenza.
Ch’io son colei che sì bene ho saputo
Adoperar con questa mia scïenza
Che non ch’altri, ma Giove ho vinto e preso
XLVII.
Poi disse: figliuol mio, apri le braccia,
Fagli sentir il tuo caldo valore,
Sicchè tu rompa ogni gelata ghiaccia
Dentro al suo petto e nel gelato core.
Or fa’, figliuolo mio, fa’ che mi piaccia
Come far suogli: e poi parea ch’Amore
Per sì gran forza quell’arco tirasse,
Ch’insieme le due cocche raccozzasse.
XLVIII.
Quando Affrico volea chieder mercede,
Sentì nel petto giugner la saetta,
La qual dentro passando il cor gli fiede,
Sicchè svegliato, le man pose in fretta
Al petto, che la freccia trovar crede;
Trovò la piaga esser salda e ristretta,
Poi guardò se la donna vi vedea
XLIX.
Ma non la vide, perch’era sparita,
E ’l sonno rotto che gliel dimostrava,
E battendogli il cor per la fedita
Che ricevuta avea, si ricordava
Della sua amante quando fe’ partita
Della fontana, e nel cor gli tornava
Gli atti gentili, col vezzoso modo,
L.
E poi dicea: questa donna mi pare,
Che or m’apparve, Vener col figliuolo,
E s’io ho bene inteso il suo parlare,
Promesso m’ha di far sentir quel duolo
A Mensola, che a me ha fatto fare:
Però s’ella esce mai fuor dello stuolo
Dell’altre ninfe, io pur m’arrischieroe,
Per forza o per amor la piglieroe.
LI.
Così raccesa da questo disio
La fiamma del suo petto, si dispose
Di Mensola cercar per ogni rio,
Finchè la troverrà: e a cotai cose
Pensando, intanto il bel giorno appario
Il quale egli aspettava con bramose
Voglie, e soletto di casa s’uscia,
LII.
E quivi giunto, alquanto vi ristette
I sospiri amorosi rinnovando,
Di qui, dicendo, mi fer le saette
D’amor partire forte sospirando.
E poi ch’egli ebbe tai parole dette,
Saliva il poggio, la fonte lasciando,
Ascoltando e mirando tuttavia,
LIII.
Così salendo suso vers’il monte,
Trasviato d’amore e dal pensiero,
Alto portando sempre la sua fronte
Per veder meglio ciaschedun sentiero,
E le gambe tenendo preste e pronte
Se gli facesse del correr mestiero,
Ed ogni foglia che menar vedea
Credea che fosse ninfa, e là correa.
LIV.
Ma poichè cotai beffe ed altre assai
Avien più volte il giovane ingannato,
Senza nïuna ninfa trovar mai,
E presso che ’n sul monte era montato,
Quando un pensier gli disse: dove vai
Pur su salendo, e mai null’hai trovato?
E già è terza, io non vo’ più salire,
LV.
E inverso Fiesol volto, piaggia piaggia
Guidato da amor ne gía pensoso,
Caendo la sua amante aspra e selvaggia,
Che faceva lui star maninconoso.
Ma pria ch’un mezzo miglio passat’aggia,
Ad un luogo pervenne assai nascoso
Dove una valle due monti divide:
LVI.
Quando appressato fu a quel vallone
Alquanto udì un’angelica voce,
Con due tenori, onde aspettar si pone
Facendo delle braccia a Giove croce
Con umil prego stando ginocchione,
Dicendo: o Iddio, sarebbe in questa foce
Mensola fra costoro? Or voglia Iddio
Ch’ella vi sia, ch’i’ v’andrò ora anch’io.
LVII.
Qual’è colui che ’l grillo vuol pigliare,
Che va con lunghi e radi e leggier passi
Senza far motto, tal’era l’andare
Che Affrico facea su per que’ sassi,
Pur dietro andando a quel dolce cantare
Che nella valle udìa, e innanzi fassi
Tanto che vide dimenar le fronde
LVIII.
Perchè senza scoprirsi s’appressava
Tanto che vide donde uscia quel canto:
Vide tre ninfe, ch’ognuna cantava;
L’una era ritta, e l’altre due in un canto
A un acquitrin che ’l fossato menava
Sedieno, e le lor gambe vide alquanto,
Che si lavavan i piè bianchi e belli,
LIX.
L’altra che stava in piedi colse frondi
E d’esse una ghirlanda ne facea,
Poi sopra i suoi capelli crespi e biondi
La si ponea, perchè ’l sol l’offendea:
Poi per le sue compagne folte e fondi
Ne fece due, e poi quelle ponea
In su le trecce lor non pettinate,
Le quali eran di frondi spampinate.
LX.
E Affrico diceva fra sè stesso:
E’ non mi par che Mensola ci sia:
E poi fattosi a loro un po’ più presso,
La sua mala ventura maledia,
Dicendo: Vener, quel che m’hai promesso,
Non pare ch’avvenuto ancor mi sia.
Ma che farò? domanderò costoro
LXI.
Deliberato adunque il giovinetto
Di scoprirsi a costor, si fece avanti,
Oltre vicino a lor, poi ebbe detto
Con bassa voce e con umil sembianti:
Dïana, a cui il cor vostro sta suggetto,
Vi mantenga nel ben ferme e costanti,
O belle ninfe: non vi spaventate,
LXII.
Io vo caendo una di vostra schiera,
La qual Mensola credo che chiamata
Sia da voi, per ciascuna riviera;
E bene è un mese ch’io l’ho seguitata,
Ma ella è tanto fuggitiva e fera
Che sempre innanzi a me s’è dileguata;
Però vi prego, dilettose e belle,
Che la insegnate a me, care sorelle.
LXIII.
Quali senza pastor le pecorelle,
Assalite dal lupo e spaventate,
Fuggono or qua or là le tapinelle,
Gridando bè, con boci sconsolate:
O qual fanno le pure gallinelle,
Quand’elle son dalla volpe assaltate,
Quanto più possono ognuna volando
LXIV.
Tal fer le ninfe belle e paurose
Quando vider costui: omè gridaro;
Alzando i panni, le gambe vezzose,
Per correr meglio, tutte le mostraro,
E già nessuna ad Affrico rispose,
Ma ricogliendo lor archi n’andaro
Su per lo monte, e qual pur per le piagge
LXV.
Affrico grida: aspettatemi un poco,
O belle ninfe, ascoltate il mio dire:
Sappiate ch’io non venni in questo loco
Per voi noiare o per farvi morire,
Ma sol per darvi e allegrezza e gioco,
In quanto voi non vogliate fuggire:
Io vengo a voi come di voi amico,
E voi fuggite me come nemico.
LXVI.
Ma che ti vale, o Affrico, pregalle?
Elle si fuggon pur verso la costa,
E tu soletto riman nella valle
Senza da loro avere altra risposta;
Rimanti dunque di più seguitalle,
Poichè ognuna a fuggire è pur disposta:
Le tue lusinghe col vento ne vanno,
LXVII.
Ell’eran già da lui tanto lontane
Che di veduta perdute l’avea,
Perchè di più seguirle si rimane,
E fra sè stesso forte si dolea
Di quelle ninfe sì selvagge e strane.
Che farò dunque, lasso a me, dicea,
I’ non ci veggo modo niun pel quale
LXVIII.
E non mi val lusinghe nè pregare,
E nulla fare’ mai s’io mi tacessi:
Io non posso con lor la forza usare,
Che volentier l’userei s’io potessi;
E s’io potessi almen pure ispiare
Ove Mensola fusse, o pur sapessi
Dove cercarne, o dove si riduce,
Ma vo cercando com’uom senza luce.
LXIX.
Tanto il diletto l’avea tranquillato
Di Mensola cercare, e poi di quelle
Ninfe che nella valle avea trovato
Istare all’ombra di fresche ramelle,
E poi del seguitarle trasviato
Sol per saper di Mensola novelle,
Che non s’accorse ch’egli era già sera
LXX.
Perchè malinconoso e mal contento
Sè malediva, e la vegnente notte
Che sì tosto venia, e poi con lento
Passo scendeva giù per quelle grotte,
Perchè di star più quivi avea spavento
Delli animai crudeli, che a quell’otte
Cominciavano a andar pe’ folti boschi
LXXI.
Così senza aver punto il dì mangiato
Verso la casa sua prese la via,
Dove quel giorno dal padre aspettato
Egli era stato con malinconia,
Paura avendo che non fusse stato
Da qualche bestia morto, ove che sia,
E divorato con doglia l’avesse,
Però a casa tornar non potesse.
LXXII.
E ancora di Dïana avea temenza,
Che non si fusse con lui abbattuto,
Come nimica della sua semenza
Sempre mai stata, e da lei fosse suto
O morto o fatto per più penitenza
Diventar pietra o albero fronzuto:
E ’n ta’ pensieri stava lui aspettando,
Ora una cosa or l’altra immaginando.