Necrologio: Gaetano De Minicis
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NECROLOGIA
Avv. Cav. GAETANO DE MINICIS.
Grave danno a questi di’ ànno ricevuto le discipline storiche nella morte dell’avv. De Minicis; la quale iattura a noi torna più lamentabile: perocchè vediamo scemare di numero i coltivatori delle buone arti in Italia, dove la presunzione e la trascuratine usurpano le veci della modestia e della diligenza. Colpa e vergogna del secolo di soli materiali interessi bramoso! Ma riduciamoci al proposito nostro. È Falerone una grossa terra delle Marche, dai rottami dell’antica Faleria edificata sur un ameno colle alla destra del fiume Tenna, forse a un venti chilometri da Fermo. Colassù nel 28 ottobre del 1792 nacque Gaetano dal dottore Pierpaolo De Minicis, uno dei principali tra quei terrieri, e da Isabella Gentili, pure faleronese, i quali, secondando la svegliatezza della mente, e la volontà dell’imparare; providero di discreti precettori il giovinetto, che poi fu mandato a Fermo a continuarvi gli studi nel pubblico Liceo, dove prese altresì i primi inizi delle istituzioni giuridiche. Di qua si tramutò all’Università di Bologna a compiervi il corso della ragione civile e canonica. Ed oh quanto in sè stesso il novello discente esultava d’essersi abbattuto in tempi, che dottissimi uomini colà sedevano maestri! Né i costoro nomi giammai gli caddero della memoria, che anzi sovente con affezione ripetevali: conciossiachè dai precetti e costumi loro avesse appreso come l’uomo s’eterna. E sì che reputare dovea non picciola ventura l’avere quivi udito Luigi Valeriani Molinari, che per il primo in quell’aulico ateneo aprì scuola sul governo degli stati; la quale scienza grecheggiando senza il di che, viene appellata economia politica. E infra quel consesso di sapienti non si noverava ancora quel Pellegrino Rossi, che valico di poco il quinto lustro, vi leggeva diritto penale e procedura civile; quel medesimo, che sperimentata poi l’Italia peggio che matrigna, dovette riparare presso genti straniere, le quali non poterono non mirare ed onorare tanta altezza d’ingegno. A Parigi il Rossi nel 1833 conseguì per concorso la cattedra occupata già dal famoso pubblicista G. B. Say. L’amorevolezza dei professori bolognesi pel giovane De Minicis lo ebbe sempre più affezionato alla dottrina del giure, donde però non veniva punto distornato dall’attendere eziandio alle classiche letterature, di cui si porgevano solenni insegnatola e Filippo Schiassi valentissimo epigrafista latino, e quel miracolo di linguistica che fu Giuseppe Mezzofanti, poi cardinale di santa Chiesa. Adorno com’era di svariate cognizioni, e guernito d’un forte volere, non dovea certamente fallire ad una gloriosa meta, e quindi con assai lode nell’una e nell’altra legge fu dottorato. Affine d’esercitare l’avvocheria, si condusse poscia a Fermo, dove mantenne quel concetto, che infino da giovincello avea di sé promesso, prestandosi esempio d’integrità e sapienza. L’animo di lui si confessava ben contento d’avere posta la sede in questa città, fra le restanti del Piceno, ricca di parecchie memorie d’antichità; e, sentendo per essa l’affetto come di seconda patria, con quella inclinazione sortita da natura alle storiche disquisizioni, cominciò ad investigarne i monumenti e ad illustrarli, a quando a quando pubblicando degli scritti che riferiremo da ultimo, acciocché non restino sconosciuti a chi desidera la letteraria di lui vita ricercare. E perchè non tanto degli edifizi che rammentano la vetusta grandezza di Fermo, quanto anche di coloro che la gloria ne rifiorirono, soccorresse una esatta notizia, dettò alcune viterelle, ove la materia esposta con chiarezza e garbo, dimostra se egli teneva in calere i pregi della nostra favella. E di tali qualità nel fatto dello stile e della lingua, come i restanti componimenti, così vanno fornite le sue iscrizioni, alcune delle quali, a mo’ d’esemplari, da persone intendentissime di simili faccende, Francesco Orioli, Terenzio Mamiani, Alessandro Paravia, Raffaele Notari, nelle raccolte loro vennero interserite. E, non uscendo del vasto campo della storia, discorse di cose attinenti all’antiquaria, dichiarando le monete antiche d’Ascoli-Piceno; alla quale dissertazione seguì l’altra sulle antiche ghiande missili o lanciabili, di cui aggiunse le interpretazioni e schiarimenti, che vennero commendati dagli archeologi nostrali ed estranei. Del nostro antiquario non cessarono qui le fatiche, il quale con l’avanzare dell’età sembrava crescesse di vigoria nel trattare de’ prediletti suoi argomenti; e non à molto, che mise a stampa una sua erudita dissertazione sulle monete gravi di Fermo, dove mai non sdimenticando quel procedere suo riguardoso e cortese, contraddisse a talune opinioni d’un illustre storico tedesco. Chiederò venia se un pocolino qui mi distendo. Il signor Teodoro Mommsen ritiene le monete ponderali, o gravi, fermane posteriori all’anno 490 dalla fondazione di Roma. Ma il nostro De Minicis, replicando che, se così camminasse la bisogna, i nuovi coloni dedotti nel Piceno non il sistema romano con l’asse d’oltre a dieci oncie; ma il decimale fermano, avrebbero accettato, mostrò chiaro che le siffatte monete furono gittate, innanzi che il ceno venisse ai Romani sommesso. Di sì accomodate pruove roborò la sua proposizione, che la verità apparisce in tutta la sua lucentezza, e l’archeologo alemanno parve adagiarsi alla sentenza del fermano, senza che i vari antiquari nostrani eziandio gliene indirizzarono le più lusinghiere parole. Con quest’ultimo lavoro saria da credere avess’egli soddisfatto all’amore della città sua, e fors’altri sarebbesi chiamato pago dei riportati allori. Ma quando la carità della patria alberga in cuor gentile, mai non si posa, e sembra si rinfranchi nel più intentamente operare. Qual’è mai parte in Italia, che difetti delle sue degne ricordanze? Se più frequenti si trovassero dei letterati operosi, come il De Minicis, maggiore dovizia possederemmo di scritture intorno alle geste e agli avvenimenti dei padri nostri. Fermo insino dal secolo decimoquinto produsse il suo cronista in Antonio di Nicolò, il quale registrò i fatti della sua città dal 1176 al 1407. Cotale cronaca giacque inedita per infino all’anno trascorso, e starla tuttora sotto la polvere delle librerie, se Gaetano De Minicis col favore d’alcuni chiarissimi Fiorentini non l’avesse apparecchiata per le stampe, corredandola altresì d’opportunissime note, con riempiere i vuoti di quello scrittore, e con ampliarlo dov’egli piuttosto breve che no riusciva. Ma in che guisa mai tanta erudizione aveasi potuto acquistare? Nissuno se ne maravigli: avvegna che egli, aiutato dal fratel suo Rafaele, pure avvocato e colto, avesse ragunato meglio che tredicimila volumi d’opere rare e preziose in ogni facoltà, e in fra codeste una pregiata quantità di storie municipali, che desidereresti invano in qualunque copiosa biblioteca. Oltre a ciò ebbe raccolto diecimila monete tra ponderali, romane, greche, etrusche, di città autonome, di italiche, del medio evo, e di medaglie di personaggi celebri, e bronzi, avori, vasi fittili dipinti, specchi o dischi metallici etruschi, antichi marmi scritti, statue, bassirilievi e trecento sigilli in gran porzione medievali, e di tutto ordinò un repositorio, o secondo la comunale denominazione un museo, che non solamente d’un privato, ma d’una città, formerebbe un bellissimo ornamento. Di questo luogo il De Minicis a niuno degli studiosi negava l’entrata, i quali eziandio giovava d’ogni maniera consigli e conforti. Per cotanta dolcezza di modi egli era entrato nella grazia e famigliarità di tutti i dotti suoi contemporanei, coi quali scambiò corrispondenza di lettere; ed allorchè tra più volte, per vie più divenire esperto del mondo, della vita umana e del valore, visitò le principali città d’Italia, incontrò oneste ed allegre accoglienze. Delle onoranze, onde veniva rimeritato, non si levò giammai in superbia, e le riguardava quali dimostrazioni di cara benevolenza. Se lo spazio d’un commentario me lo acconsentisse, potrei ricordare le varie accademie letterarie e scientifiche a cui appartenne, e i diversi uffici ne’ quali in patria e fuori venne adoperato; e solamente accennerò che egli con la sua famiglia era descritto nel novero dei nobili della Repubblica di San Marino, decorato dell’ordine equestre mauriziano, vicepresidente della R. Deputazione di Storia Patria, per le Provincie di Toscana, Umbria e Marche, e presidente per la provincia d’Ascoli nella R. Commissione conservatrice de’ monumenti.
Tale fu l’avvocato cavaliere Gaetano De Minicis, toltoci d’improvviso nella sera del 27 marzo 1871. Esso alla città di Fermo serbò quella invidiabile rinomanza di dotto, cui aveale procacciato Lattanzio Firmano, e che indi venne proseguita insino a Michele Catalani, lumi splendidissimi e del Piceno e d’Italia.
Opere di Gaetano De Minicis.
15. Eletta dei monumenti di Fermo e suoi dintorni. Roma, Belle arti; Fermo Paccasassi. Parte prima contenente xii monumenti Cioè: 1.° Castello di Fermo; 2.° Chiesa cattedrale di Fermo 3.° Piazza di Fermo: 4.° Sarcofago cristiano in Duomo; 5.° Monumento eretto in M. Fiore dal Cardinal Gentile Partino ai suoi genitori; 6.° Monumento di Saporoso Matteucci; 7.° Monumento di Orazio Brancadoro; 8.° Monumento di Papa Giovanni XVII da Rapagnano presso Fermo; 9.° Piscina epuratoria in Fermo; 10.° Medaglia onoraria di Cammillo Peretti; 11.° Monumento di Giuseppe Colucci nel tempio metropolitano; 12.° Dipinto di Lorenzo Lotto in Sangiusto di Fermo.
Parte Seconda in continuazione di stampa contenente sette fascicoli, cioè: 1.° Monumento di Giovanni Visconti da Oleggio. 2.° Brevi notizie biografiche del Cardinale Decio Azzolino giuniore, e sue medaglie onorarie; 3.° Monumento eretto in Santelpidio per la conservazione della Santa Spina; 4.° Descrizione di un dipinto rappresentante la nascita del Redentore esistente nella
chiesa dei PP. dell’Oratorio in Fermo; 5.° Il teatro antico di Fermo; 6.° Monumento della Contessa di Lusazia nel duomo di Fermo; 7.° Le monete gravi e le ghiande missili di Fermo.