Francesco Perri

1895 Indice:Doyle - Le avventure di Sherlock Holmes.djvu Racconti Letteratura Natale in caserma Intestazione 27 novembre 2016 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Le avventure di Sherlock Holmes
[p. 107 modifica]

NATALE IN CASERMA


Angelo Carini — quella sera — non era uscito di quartiere.

Dove sarebbe andato? Di fuori tirava un vento gelato e nevicava; le vie della città cominciavano a farsi deserte; radi passanti, intabarrati, col bavero alzato fino all’orecchie, rincasavano frettolosi; i lampioni agonizzavano nel velo fitto della neve che continuava a cadere, bianca, fredda, incessante.

Non il rumore di un tram, non il grido di un venditore di giornali; solo, tratto tratto, qualche schioppettata echeggiava in quel silenzio cupo di città deserta.

Era la sera di Natale.

Chi volete che cammini la sera di Natale? Il viavai cessa quella sera, il movimento cittadino s’interrompe, le faccende si tralasciano; ai teatri non si va perché son chiusi, ai caffè neppure e la vita si riconcentra nelle abitazioni, attorno ai caminetti, nei salotti tepidi e profumati, nelle sale da pranzo, dappertutto; nelle case ricche e povere, nei palazzi e nei tuguri.

— Il Natale si festeggia in famiglia — diceva un buon vecchio — altrimenti non può dirsi Natale. [p. 108 modifica]

E’ una serata tradizionale, una serata di pace e di allegria familiare.

Si mangia il capitone e l’anguilla; il nonno racconta gli episodii della sua vita di soldato, del 48, e la nonna narra le storielle delle fate ai nipotini che la guardano attoniti, gli occhi sbarrati e la bocca aperta. E si giuoca alla tombola, e si ride e si scherza, e si chiacchiera, e a tutto questo nessuno estraneo è ammesso, neppure i parenti. Ognuno ha la propria casa, il proprio focolare, abbiate pazienza nessuno.

E’ la sera di Natale.

Angelo Carini dunque quella sera non era uscito: già usciva di rado lui, quando proprio lo trascinavano i compagni.

Eppoi era smontato di guardia, aveva passato una giornataccia orribile. Non sapeva bene; sentiva una stizza, un’uggia opprimente, aveva l’emicrania; quel giorno non mangiò neppure la gavetta.

Gli è che certe cose non poteva proprio digerirle il soldato Carini: di guardia.... in sentinella.... la vigilia di Natale.... Oh, la era una cosa dura, dura; pazienza un altra giorno, ma capitar proprio la vigilia di Natale!...

E la sera era rientrato in quartiere di malumore, indispettito, con una faccia da funerale e che faceva paura; aveva attraversato il cortile col fucile a brac’armi senza dire una parola con nessuno, e quando il sergente aveva dato il comando: “Rompete le righe„ e tutti si erano sbandati qua e là, correndo come pazzi, gridando, lui, piano piano, colla testa bassa e col cuore chiuso, era entrato nella camerata aveva deposto il fucile sulla rastrelliera, si era sfibbiato lo zaino rabbiosamente, scaraventandolo sull’assapane e poi si era buttato sul letto, come affranto.

— Che hai? — gli domandò il soldato Labruna, un bruno dai capelli crespi, tarchiato, dalla fisonomia aperta — te ne stai lì intontito, con gli occhi fissi al soffitto che m’hai proprio l’aria di un sonnambulo; ti senti male? Via, dimmi che hai, vuoi qualche cosa? Siamo patrioti e noi dobbiamo aiutarci, tu lo sai: dì su, che hai? [p. 109 modifica]

— Grazie, Labruna, non ho nulla, non mi sento nulla; sono smontato di guardia, mi sento stanco, ecco tutto.

— Oh, oh, che razza di storie mi tiri fuori ora: tu non vuoi dirmelo, capisco, ma l’immagino bene io che cos’hai: Vuoi che te lo dica? Tu sei triste perchè è Natale e pensi a casa, pensi all’Elvira.... oh non dir di no, veh! io lo so. perchè l’ho provato prima di te, due anni fa quando tu eri ancora a casa: è vero o non è vero? Ma del resto fatti coraggio; il tempo passa, vedrai; il tempo è galantuomo: via, Angiolillo, sta su: to’, prendi un sigaro, fuma, ti fa bene, ti scaccia la noia: Lo so: certe feste sarebbe meglio che non venissero per noi; si pensa, si pensa e poi si resta male e non si mangia più e non si dorme la notte.

Bisogna avere un po’ di pazienza, si sa; tu hai anche ragione, non dico di no io, ma dopo tutto, te l’ho detto: il tempo scorre e i mesi passano e poi si diventa un’altra volta borghesi e il Natale si fa a casa, accanto al focolare con la mamma a fianco e il babbo e la ragazza che ci guarda e ci sorride. E allora sì che si sta allegri e la vita militare si ricorda con piacere e si prova una consolazione a dire: l’anno scorso ero di guardia al carcere tale.... sentinella numero uno.... e nevicava e faceva un freddo.... ma tu piangi, Angiolillo, oh, ma sai che sei curioso? che bisogno c’è mo’ di piangere; via sta zitto, non farti vedere; chissà cosa penserebbero: Vieni, andiamo in cantina, andiamo a berne un litro di quello buono, faremo Natale anche noi, parleremo del paese, ti racconterò certe cose della Rosina, l’innamorata di Ciccillo, te la ricordi Rosina? vieni, andiamo.

— Lasciami stare, Andrea, te ne prego, un’altra, volta, questa sera è impossibile.

— Allora ti dirò che non sei un patriota e non ti guarderò più in faccia.

E il povero Angelo si era lasciato condurre in cantina, sebbene a malincuore e si lasciò cadere su di una sedia affranto, col cuore gonfio, con le lagrime che gli tremolavano fra le palpebre. Bevette un sorso e poi rimase lì muto, le braccia penzoloni, gli occhi fissi a terra, col pensiero chissà dove. [p. 110 modifica]

Nella cantina era un andare e venire continuo, un brulichio vario, un frastuono indiavolato. Una luce fioca, resa ancor più opaca dal fumo denso di pipa, che si elevava a globi, diffondendo un odore acre e disgustoso rischiarava scarsamente quell’ambiente. Fra il puzzo delle pipe e del vino l’aria sapeva acutamente di pesce fritto.

— Un litro, madama — si gridava da tutte le parti.

— Due da cinque.

— Il conto, portatemi il conto.

— Una piccola.

— Un mazzo di carte, madama.

— Un momento, figliuoli, abbiate pazienza, un momento; vi servo tutti, abbiate pazienza — diceva la giovane vivandiera tutta rossa e scalmanata — Ecco il sigaro, chi ha chiesto il sigaro?...

— Viva Natale!... viva la classe bella!... è l’ultima e poi...

“Addio piazza d’armi
“Con tutti gli ufficiali
“Sergenti e.....

— Eh, eh! finiscila, villano, taci là, burlone.

— Viva il 71!...

— Il silenzio! il silenzio.... andate a letto figliuoli, è suonato il silenzio; buona sera, figliuoli, buon Natale: andate, andate, felice notte....

— Un litro ancora, signora Peppina, una bottiglia, eh, diavolo ci cacci ora?

— Viva la classe bellaaaa....

— Vivandiere!... — rintronò una voce iraconda (era l’ufficiale di picchetto) Vivandiere!... chiudete la cantina o voialtri a letto, marche.

Ed ecco a quella voce uno sbandarsi qua e là uno sgattaiolarsela mogi mogi, un portare la mano rispettosamente alla visiera o poi via, rasentando i muri, zitti, la testa bassa.

— E non la finirebbero più — continuò l’ufficiale — a momenti son ventitrè ore; già la colpa è del vivandiere; la cantina aperta a ventitrè ore....

— Signor tenente....

— Sì, lo so, lo so.... basta, buona notte. [p. 111 modifica]

Angelo Carini si era rallegrato in cuor suo per quella visita così opportuna giacchè, diciamolo subito: egli era andato in cantina non perchè avesse avuto voglia di bere e di distrarsi, ma così, per non far dispiacere al suo "patriota" Labruna, e, a dirla schietta, non si trovava punto bene in quei pandemonio, fra quel branco di ragazzi allegri.

— Addio, Labruna — aveva detto non appena era comparso l'ufficiale di picchetto; buona sera, vado a letto, ho un dolore alla testa che non ne posso più.

E in due salti fece le scale e fu in camerata: andò al suo lettuccio, si levò la giubba e i pantaloni e si cacciò sotto le coperte così, mezzo vestito, battendo i denti pel freddo.

Ah, la era finita finalmente! Quelle baldorie non sapeva proprio digerirle lui; quel bere e bere, quel vociare, quell’allegria pazza dei compagni gli dava ai nervi, gli metteva una stizza, un malumore incredibile; quello sghignazzare, quei ritornelli antipatici degli anziani lo stomacavano. Tutti a un modo, perdio; tutti allegri gli altri: ah, lo vedeva bene lui; sì, tutti allegri gli altri. Lui solo doveva soffrire di nostalgia, di emicrania, di accidenti, lui solo. Ma, dopotutto, qual colpo aveva lui se non gli andava quella vita? Era il suo carattere, pensava troppo. Non glielo aveva detto sempre la mamma?

“Angiolillo, figlio mio, tu pensi troppo, tu soffrirai sotto le armi, cambiati, divagati.„

Ma sì, era un bel dire; lo poteva forse lui? Eppoi era un bisogno, una necessità quella di ricordare il passato, di rievocare alla mente quella figura cara, poichè ne provava un sollievo grande, si sentiva come liberato da un incubo, da un peso grave che l’opprimeva. Ah, era così, era fatto così; doveva pensare.

E pensava sotto le coperte, pensava alla sua casetta, pensava alla mamma, a quell’angelo di bontà, a quella santa donna che gli voleva tanto bene; pensava al babbo, ai fratellini, agli amici; pensava all’Elvira, alla sua Elvira, quella fanciulla buona, dolce, innamorata... Povera Elvira!... Aveva pianto tanto quando lui era partito; gli aveva detto con [p. 112 modifica]un fil di voce: “Addio. Angelo, ricordati di me, io ti avrò sempre nel cuore; addio, addio....” Ora era la sera di Natale: che faceva la mamma, che faceva la sua Elvira? si ricordavano di lui? era suonata la messa? ci sarebbe andata l’Elvira alla messa di Natale?

Ah, l’avessero almeno mandato in licenza!... A quest’ora sarebbe a casa, sarebbe coll’Elvira; pochi giorni gli sarebbero bastati. Ma non aveva avuto il coraggio di domandar la licenza; il Capitano gli faceva paura, gridava sempre, gridava per un nonnulla.... Eppoi era recluta lui.... doveva imparare le istruzioni.... Ah, fate il soldato!... il Natale... il Natale!...

— Ma cos’ha costui? ma non vogliono finirla ancora?

Era un vicino di letto, un napoletano, il quale, senza tante tenerezze, aveva festeggiato bravamente il Natale alzando un po’ troppo il gomito. Poi si era cacciato in letto, aveva russato un pezzo come un mantice, e, ad un dato momento, si era alzato perchè si sentiva una gran rivoluzione nello stomaco.

— E quegli altri cosa fanno attorno a quel tavolo? perchè non vanno a letto?

Erano alcuni soldati e qualche caporale che chiaccheravano sommessamente, accalorati in una discussione d’arte culinaria:

— Ma sta zitto, bestia; al mio paese non è così; il capitone si mangia sempre dopo il fritto: Fritto, capitone, anguilla....

— Come!... anche l’anguilla mangiate voialtri?

— Sicuro, ti fa meraviglia?

— Ma fra noi non è così, ma scusa, ecco qua: al mio paese....

— Zitto, ragazzi, ho inteso gridare laggiù in fondo alla camerata....

— Ma chi grida, ma voi sognate, caporale?

— Silenzio! sentite... Linda...! Linda...! chi è questa Linda?

— Ve’, ve’ — Caproni sogna l’innamorata, la sua Linda: ha ricevuto una lettera stamane dove gli diceva tante cose del Natale e gli ha mandato anche una torta; ah, ah, ora sogna la Linda! [p. 113 modifica]

— Accidenti a voialtri e ai capitoni — urlò con voce aspra il caporale Tafuri, cacciando la testa sotto le coperte — maledetto Natale e i coscritti; tutti a un modo queste marmotte....

Angelo Carini intanto si voltava e rivoltava sul letto senza poter chiudere occhio; il ricordo della famiglia si faceva man mano più vivo, la figura di Elvira si delineava chiara, spiccata e tanto dolce nella sua mente: ne ascoltava la voce, quella sua voce soave, carezzevole; ricordava tutto le parole d’amore scambiatesi, una per una, da quando si erano conosciuti fino alla partenza di lui per il distretto. Chissà se mi ama sempre! — pensava; si ricorderà di me, mi aspetterà sino alla fine, mi sarà fedele? Ah, voglio vedere ancora le sue lettere, voglio leggerle ancora, voglio baciarle, voglio tenerle qui, sul cuore; le ha scritte lei.

E si era alzato di scatto sul letto, aveva preso lo zaino, rovistato un poco e poi: eccole... eccole!... — aveva esclamato col viso raggiante, ecco i capelli della mia Elvira, ecco la sua fotografia.... oh, Elvira.... Elvira mia!...

· · · · · · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · · · · · ·

Intanto, intorno al tavolo dei gastronomi, si discuteva ancora vivacemente di cene e di desinari natalizi; e un trombettiere mezzo brillo giurava o spergiurava sull’anima di tutti gli dei, che in tutte le tavole da galantuomini, nella gran cena di Natale, prima si serve il fritto, e poscia il capitone.

Francesco Perri.