Morgante/Cantare decimonono

Cantare decimonono

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Cantare decimottavo Cantare ventesimo

 
1   Laudate, parvoletti, il Signor vostro,
     laudate sempre il nome del Signore!
     Sia benedetto il nome del Re nostro
     da ora a sempre insino all’ultime ore!
     Or tu che insino a qui m’hai il camin mostro,
     del laberinto mi conduci fore,
     sì ch’io ritorni ov’io lasciai Morgante,
     con la virtù delle tue opre sante.

2   Partironsi costoro alla ventura:
     vanno per luoghi solitari e strani
     sanza trovar mai valle né pianura;
     non senton cantar galli o abbaiar cani.
     Pur capitorno in certa parte oscura,
     ove e’ sentiron di luoghi lontani
     venir certi lamenti afflitti e lassi
     che parean d’uom che si ramaricassi.

3   Dicea Morgante a Margutte: - Odi tue,
     come fo io, un certo suono spesso
     d’una voce che par che innalzi sùe,
     poi si raccheti? Ella debbe esser presso. -
     Margutte ascolta ed una volta e due,
     e poi diceva: - Anco io la sento adesso.
     Questi fien malandrin ch’assalteranno
     qualcun che passa, e rubato l’aranno. -

4   Disse Morgante: - Studia un poco il passo;
     veggiàn che cosa è questa e chi si duole:
     al mio parere, egli è quaggiù più basso,
     però per questa via tener si vuole.
     Chiunque e’ sia, par molto afflitto e lasso,
     quantunque e’ non si scorgan le parole;
     e se son mascalzon, tu riderai,
     ch’io n’ho degli altri gastigati assai. -

5   Poi che furono scesi una gran balza,
     e’ cominciorno dappresso a sentire,
     però che sempre il lamento rinnalza;
     una fanciulla piena di martìre
     vidono alfine, scapigliata e scalza,
     ch’a gran fatica poteva coprire
     le belle membra sue, tanto è stracciata,
     e con una catena era legata.

6   Ed un lïone appresso stava a quella,
     che la guardava; e come questi sente,
     fecesi incontro la bestia aspra e fella:
     vanne a Morgante furïosamente,
     e cominciava a sbarrar la mascella
     e volere operar l’artiglio e ’l dente.
     Morgante un gran susorno gli appiccòe
     col gran battaglio, e ’l capo gli schiacciòe;

7   e disse: - Che credevi tu far, matto?
     I granchi credon morder le balene! -
     Poi verso la fanciulla andò di tratto:
     pargli discreta, nobile e dabbene;
     e domandolla come stessi il fatto
     onde tanta disgrazia a questa avviene.
     Costei pur piange, e Morgante domanda;
     ma finalmente se gli raccomanda,

8   dicendo: - Non pigliassi ammirazione
     se prima non risposi a tue parole,
     tanto son vinta dalla passïone;
     ma se di me pur per pietà ti duole,
     io ti dirò del mal mio la cagione,
     che per dolor vedrai scurare il sole:
     come tu vedi, stata son sett’anni
     con pianti, con angoscie e amari affanni.

9   Il padre mio ha fra gli altri un castello
     che si chiama Belfior, presso alla riva
     del Nilo, e Filomeno ha nome quello.
     Un dì fuor delle mura a spasso giva:
     era tornato il tempo fresco e bello
     di primavera, ogni prato fioriva;
     come fanciulla m’andavo soletta
     per gran vaghezza d’una grillandetta;

10 e ’l sol di Spagna s’appressava all’onde
     e riscaldava Granata e ’l Murrocco,
     dove poi sotto all’occeàn s’asconde;
     e pur seguendo il mio piacere sciocco,
     un lusignuol sen gìa di fronde in fronde,
     che per dolcezza il cor m’aveva tocco,
     pensando come e’ fu già Filomena;
     ma del Nil sempre segnavo la rena.

11 Mentre così lungo la riva andava,
     e ’l lusignuol si fugge in una valle;
     ed io pur drieto a costui seguitava,
     cogliendo vïolette rosse e gialle;
     ma finalmente in un boschetto entrava,
     e’ be’ capelli avea drieto alle spalle,
     e posto m’ero in su l’erba a sedere,
     ché del suo canto n’avea gran piacere.

12 Mentre ch’io stavo come Proserpìna
     co’ fiori in grembo ascoltare il suo canto,
     giovane, bella, lieta e peregrina,
     il dolce verso si rivolse in pianto:
     vidi apparire, omè lassa tapina!
     un uom pel bosco feroce daccanto;
     e ’l lusignuolo e’ fior quivi lasciai,
     e spaventata a fuggir cominciai.

13 E certo io sarei pur da lui scampata;
     ma, nel fuggire, a un ramo s’avvolse
     la bella treccia, e tutta avviluppata:
     giunse costui, e per forza la svolse;
     quivi mi prese, e così, sventurata,
     in questo modo al mio padre mi tolse;
     e strascinommi insino a questa grotta,
     dove tu vedi ch’io sono or condotta.

14 Credo ch’ancora ogni selva rimbomba
     dov’io passai, quando costui per terra
     mi strascinava insino a questa tomba;
     e s’alcun satir pietoso quivi erra,
     questo peccato so ch’al cor gli piomba,
     o se giustizia l’arco più disserra.
     Omè, che mi graffiò più d’uno stecco,
     tal che risuona ancor del mio pianto Ecco!

15 Le belle chiome mie tra mille sterpi
     rimason, dè’ pensar, tutte stracciate
     tra boschi e tra burrati e lupi e serpi,
     che fur, come Absalon, mal fortunate.
     Omè, che par che ’l cor da me si scerpi!
     Omè, le guance belle e tanto ornate
     furono a’ pruni, e credo che tu ’l creda,
     troppo felice ed onorata preda!

16 E’ drappi d’oro e’ vestimenti tutti
     al loto, al fango, a’ sassi, a’ rami, a’ ceppi,
     che solo un bruscolin facea già brutti,
     poi gli vidi stracciar per tanti greppi.
     Né creder ch’io tenessi gli occhi asciutti,
     misera a me, comunque il mio mal seppi;
     ma sempre lacrimosi e meschinelli,
     dovunque io fu’, lascioron due rucelli.

17 E fur pur già nella mia giovinezza
     e lume e refliggerio a molti amanti:
     arén giurato e detto per certezza
     che fussin più che ’l sol belli e micanti;
     e molte volte per lor gentilezza
     venien la notte con suoni e con canti,
     e sopra tutto commendavan questi,
     che furon grazïosi e ’nsieme onesti;

18 ed or son fatti, come vedi, scuri:
     così potessi alcun di lor vedégli,
     ché non sarien sì dispietati e duri
     ch’ancor pietà non avessin di quegli;
     anzi l’arebbon negli anni futuri:
     ricorderiensi già che furon begli.
     Ma per me più non è persona al mondo,
     cercando l’universo tutto tondo.

19 E ’l padre mio di duol si sarà morto,
     poi ch’alcun tempo arà aspettato invano;
     e la mia madre sanza alcun conforto
     non sa ch’io stenti in questo luogo strano,
     né del gigante che mi facci torto
     e battami ogni dì con la sua mano
     e faccimi a’ lïon guardar nel bosco,
     tanto ch’io stessa non mi riconosco.

20 padre, o madre, o fratelli, o sorelle,
     o dolce amiche, o compagne, o parente;
     o membre afflitte, lasse e meschinelle,
     o vita trista, misera e dolente;
     o mondo pazzo, o crude e fere stelle,
     o distino aspro e ’ngiusto veramente!
     O morte, refliggerio all’aspra vita,
     perché non vieni a me? Chi t’ha impedita?

21 È questa la mia patria dov’io nacqui?
     È questo il mio palagio e ’l mio castello?
     È questo il nido ove alcun tempo giacqui?
     È questo il padre e il mio dolce fratello?
     È questo il popol dov’io tanto piacqui?
     È questo il regno giusto, antico e bello?
     È questo il porto della mia salute?
     È questo il premio d’ogni mia virtute?

22 Ove sono or le mie purporee veste?
     Ove sono or le gemme e le ricchezze?
     Ove sono or già le notturne feste?
     Ove sono or le mie dilicatezze?
     Ove sono or le mie compagne oneste?
     Ove sono or le fuggite dolcezze?
     Ove sono or le damigelle mie?
     Ove son? dico. Omè, non son già quie.

23 Ove sono or gli amanti miei puliti?
     Ove sono or le citre e gli organetti?
     Ove sono ora i balli e’ gran conviti?
     Ove sono ora i romanzi e’ rispetti?
     Ove sono ora i proferti mariti?
     Ove sono or mille altri miei diletti?
     Ove son? L’aspre selve e’ lupi adesso
     e gli orsi e’ draghi e’ tigri son qui presso.

24 Che si fa ora in corte del mio padre?
     Che si fa or ne’ templi e in su le piazze?
     Fannosi feste alle dame leggiadre,
     pruovansi lance e mille buone razze
     de’ be’ corsier tra l’armigere squadre;
     credo ch’ognun s’allegri e si sollazze;
     e pur se già di me si pianse alquanto,
     per lungo tempo omai passato è il pianto.

25 Misera a me, quanto ho mutato il vezzo!
     Esser solevo scalzata ogni sera,
     e porpore spogliar di tanto prezzo
     che rilucìen più che del sol la spera:
     or de’ miei panni non si tien più pezzo!
     Quante donzelle al servigio mio era!
     Che ricche pietre ho portate già in testa!
     E stavo sempre in canti, in suoni e ’n festa:

26 ed or, come tu vedi, son condotta
     sanza veder mai creatura alcuna;
     e ’l mio real palagio è questa grotta;
     dormo la notte al lume della luna.
     Or chi felice si chiama talotta,
     essemplo pigli della mia fortuna:
     cascon le rose e reston poi le spine:
     non giudicate nulla innanzi al fine.

27 Io fu’ già lieta a mia consolazione,
     ed or con Giobbe cambierei mie pene:
     ogni dì questo gigante ladrone
     mi batte con un mazzo di catene,
     sanza saper che sia di ciò cagione:
     credo che sia perché da cacciar viene
     irato con lïon, serpenti e draghi,
     e sopra me delle ingiurie si paghi.

28 E vipere e cerastre e strane carne
     convien ch’io mangi, che reca di caccia,
     che mi solieno a schifo esser le starne;
     se non che mi percuote e mi minaccia,
     sì che per forza mi convien mangiarne.
     Alcuna volta degli uomini spaccia,
     poi gli arrostisce e mangiagli il gigante
     col suo fratel che si chiama Sperante,

29 e lui Beltramo; ed ogni giorno vanno
     per questi boschi come malandrini.
     E molte volte arrecato qui m’hanno,
     perch’io mi spassi, serpenti piccini,
     come color che’ miei pensier non sanno;
     alcuna volta bizzarri orsacchini.
     E perché ignun non mi possi furare,
     da quel lïon mi facevon guardare.

30 Così di paradiso sono uscita,
     e son condotta in queste selve scure.
     Già si provò di camparmi la vita
     Burrato, e non poté, con la sua scure,
     e con fatica di qui fe’ partita,
     e so ch’egli ebbe di vecchie paure:
     tutto facea perché di me gl’increbbe;
     ed anco disse che ritornerebbe.

31 Quand’io ti vidi al principio apparire,
     mi rallegrai, dicendo nel mio core:
     «E’ fia Burrato, che non vuol mentire
     né esser di sua fede mancatore».
     Per liberarmi da tanto martìre
     già cavalieri erranti per mio amore
     combattuto hanno con questi giganti;
     ma morti son rimasi tutti quanti.

32 Se voi credessi di qui liberarmi,
     il padre mio, se vivo fussi ancora
     (ché forse spera pur di ritrovarmi),
     vi darebbe il suo regno ove e’ dimora,
     ché so con gran disio debbe aspettarmi:
     però s’a questo nessun si rincora,
     io ve ne priego, io mi vi raccomando. -
     Così dicea piangendo e sospirando.

33 Morgante già voleva confortarla,
     ma non potea, tanta pietà l’assale.
     Mentre ch’ancor questa fanciulla parla,
     ecco Beltramo, ch’aveva un cinghiale,
     e comincia di lungi a minacciarla:
     in su la spalla tenea l’animale;
     col braccio destro strascinava un orso,
     e sanguinava pe’ graffi e pel morso.

34 Vide costoro, e la testa crollava,
     quasi dicessi a quella: «Io te ne pago».
     Ecco Sperante che quivi arrivava,
     e per la coda strascinava un drago:
     questo era maggior bestia e assai più brava
     del suo fratello, e di far mal più vago.
     Giunti a Morgante, a gridar cominciorno,
     tal che le selve intronavan dintorno.

35 Morgante guata la strana figura
     de’ due fratelli, e poi gli salutòe,
     ché gli dètton capriccio di paura;
     ma l’uno e l’altro il saluto accettòe
     pur tal qual concedea la lor natura;
     e poi Beltramo a parlar cominciòe:
     - Che fai tu qui con questo tuo compagno?
     Tu ci potresti far tristo guadagno.

36 Io vo’ saper chi quel lïone ha morto. -
     Disse Morgante: - Il lïone uccisi io,
     che mi voleva, gigante, far torto. -
     Disse Beltramo: - Al nome sia di Dio,
     io tel farò costar, datti conforto!
     Tu vai così qua pel paese mio;
     e so che quel lïon certo uccidesti
     per far poi con costei quel che volesti. -

37 Disse Morgante: - Amendue siàn giganti:
     da te a me vantaggio veggo poco.
     Noi andian pel mondo cavalieri erranti
     per amor combattendo in ogni loco:
     questa fanciulla che m’è qui davanti
     intendo liberar da questo gioco;
     dunque veggiàn chi sia di miglior razza:
     io proverrò il battaglio, e tu la mazza. -

38 Non ebbe pazïenza a ciò Sperante:
     riprese meglio il drago per la coda
     ed una gran dragata diè a Morgante,
     e disse: - Gaglioffaccio pien di broda,
     tu sarai ben, come dicesti, errante,
     se tu credi acquistar qua fama o loda.
     Rechian per preda i serpenti e’ lïoni,
     ed or paura arem di due ghiottoni!

39 Tu ci minacci, ribaldon villano:
     degli altri ci hanno lasciato già l’ossa. -
     Gridò Morgante con un mugghio strano,
     quando e’ sentì del drago la percossa,
     e presto al viso si pose la mano,
     ché l’una e l’altra gota aveva rossa;
     gittò il battaglio, tanta ira l’abbaglia,
     e con gran furia addosso a quel si scaglia.

40 Ed abbracciârsi questi compagnoni
     come i lïon s’abbraccian co’ serpenti,
     guastandosi co’ morsi e cogli unghioni.
     Morgante il naso gli strappò co’ denti,
     poi fece degli orecchi due bocconi,
     dicendo: - Tu non meriti altrimenti. -
     Beltramo addosso a Margutte si getta,
     e col baston le costure gli assetta.

41 Non domandar se le trovava tutte
     e se le piana me’ che ’l farsettaio:
     tocca e ritocca e forbotta Margutte,
     e spesso il volge come un arcolaio,
     tanto ch’alfin gli avanzavan le frutte,
     e faceval sudar di bel gennaio:
     saltato arìa, per fuggir, ogni sbarra.
     Pur s’arrostava colla scimitarra.

42 Ma Beltramo era sì fiero e sì alto
     che, quando in giù rovinava il bastone,
     lo disfaceva e piegava allo smalto;
     se non che pur, come un gattomammone,
     Margutte spicca molte volte un salto
     per ischifar questa maladizione.
     Ma finalmente disteso trovossi
     come un tappeto, ché più atar non puossi:

43 ch’una percossa toccò sì villana
     che parve una civetta stramazzata:
     alzò le gambe e ’n terra si dispiana.
     Quivi toccò più d’una batacchiata,
     ché ’l baston suona come una campana
     e tutta la schiavina ha scardassata.
     Poi che sonata fu ben nona e sesta,
     Beltram chinossi a spiccargli la testa.

44 Veggendosi Margutte mal parato,
     posò le mani in terra in un momento
     per trar due calci, com’egli era usato;
     e giunsel con gli spron di sotto al mento,
     e conficcò la lingua nel palato
     al fer gigante: ond’egli ebbe spavento,
     e tutto pien d’ammirazion si rizza;
     allor Margutte in piè sùbito sguizza:

45 vede Beltram che si cerca la bocca,
     e ’l sangue che di fuor già zampillava,
     e ’l capo presto tra gambe gli accocca,
     per modo che da terra il sollevava
     e poi in un tratto rovescio il trabocca,
     e questo torrïon giù rovinava;
     e nel cader ciò che truova fracassa
     come se fussi caduta una massa.

46 Questo galletto gli saltava addosso,
     che par che sia sopra una bica un pollo:
     dunque gli spron Margutte hanno riscosso;
     e ’l capo a questo levava dal collo,
     ché la sua scimitarra taglia l’osso;
     e non poté Beltram più dare un crollo,
     ché, quando in terra lo pose Margutte,
     si fracassorno le sue membra tutte.

47 Gran festa ne facea quella fanciulla.
     Ma in questo tempo che Beltramo è morto,
     Morgante con colui non si trastulla,
     ché vendicar volea del drago il torto;
     ma d’atterrarlo ancor non era nulla,
     quantunque molto si fussi scontorto;
     e tanto a una balza s’appressorno
     che insieme giù per quella rovinorno.

48 E si sentiva un romore, un fracasso,
     insin che son caduti in un burrone,
     come quando de’ monti cade in basso
     qualche rovina o qualche gran cantone:
     non vi rimase né sterpo né sasso
     dove passò questo gran fastellone,
     ché rimondorno insino alle vermene;
     e dèttono un gran picchio delle schiene.

49 Non si fermoron che toccorno fondo;
     ma Morgante disopra rimanea:
     dètte del capo in su ’n sasso tondo
     tanto a Sperante, che morto il vedea.
     Poi si tornò su pel bosco rimondo,
     e con Margutte gran festa facea,
     dicendo: - Io non pensai, Margutte mio,
     trovarti vivo, ond’io ne lodo Iddio.

50 Noi siàn qua rovinati in una valle,
     tal ch’io credetti lasciar le cervella,
     e tutto il capo ho percosso e le spalle. -
     Poi si rivolse a quella damigella,
     ch’avea le guance ancor palide e gialle,
     però che in dubbio e sospesa era quella,
     ché non sapeva che morto è Sperante;
     se non che presto gliel dicea Morgante:

51 Non dubitar, non ti doler più omai,
     rallégrati, fanciulla, e datti pace:
     con le mie mani il gigante spacciai;
     rimaso è morto alle fiere rapace;
     e presto al padre tuo ritornerai,
     ché libera se’ or come ti piace;
     ed ha pur luogo avuto la giustizia. -
     E tutti insieme facìen gran letizia;

52 e sciolse alla fanciulla la catena,
     e disse: - Andianne omai, dama gradita. -
     Questa fanciulla d’allegrezza è piena,
     e spera ancor trovare il padre in vita.
     Morgante per la man sempre la mena,
     però ch’ell’era ancor pure stordita
     e debol pe’ disagi e per gli affanni
     ch’avea sofferti, misera, molti anni.

53 Dicea Margutte: - Quel can traditore
     per modo le costure m’ha trovate
     che non sarebbe cattivo sartore:
     io ho tutte le rene fracassate. -
     Disse Morgante: - S’io non presi errore,
     e’ ti toccò di vecchie bastonate:
     io ti senti’ spianare il giubberello,
     mentre ch’io ero alle man col fratello. -

54 Così tutto quel giorno ragionando
     vanno costoro insieme pel deserto;
     ma da mangiar nïente mai trovando,
     ognun di lor già fame avea sofferto.
     Margutte vede di lungi guardando,
     ché il lume della luna era scoperto,
     una testuggin ch’un monte pareva;
     e quel che fussi ancor non iscorgeva,

55 ma dubitava s’ella è cosa viva
     o facea caso l’imaginazione;
     né ancor dirlo a Morgante s’ardiva,
     non si fidando di sua opinïone.
     Ma poi che presso a questa fera arriva,
     disse a Morgante: - Questo compagnone
     non vedi tu, che ti vien già da fronte?
     Per Dio, ch’io dubitai che fussi un monte! -

56 Disse Morgante: - Ella è una testuggine:
     e’ mi parea di lungi un monticello! -
     e cominciava a spiccargli la ruggine
     col suo battaglio, e spezzargli il cervello.
     Non domandar se lieva le caluggine!
     Quella fanciulla godeva a vedello.
     Rotte le scaglie e fracassate tutte,
     disse: - Del fuoco si vuol far, Margutte. -

57 E fece al modo usato sfavillare
     un sasso tanto ch’egli ebbon del fuoco.
     Quivi Margutte si dava da fare,
     dicendo: - L’arte mia fu sempre cuoco. -
     Comincia la camella a scaricare
     e la cucina assetta a poco a poco;
     poi s’accostava a un gran cerracchione
     e rimondollo, e fenne uno schidone.

58 E poi ch’egli ebbe assettato l’arrosto
     e pien di certe gallozze e di ghiande,
     disse a Morgante: - E’ ci manca ora il mosto.
     Assèttati qua a volger, così grande:
     io vo’ veder come l’acqua è discosto;
     e ’ntanto tu arai cura alle vivande. -
     Morgante rise e posesi a sedere
     perché Margutte arrecassi da bere.

59 Margutte, uscito un poco della via,
     un certo calpestio di lungi sente:
     fecesi innanzi a veder quel che sia:
     ode una bestia e ’nsieme parlar gente;
     volle assaltargli e far lor villania,
     onde costor fuggîr subitamente;
     lasciâr la bestia e due otri di vino,
     ch’avean pel bosco smarrito il camino.

60 Margutte si levò gli otri in ispalla,
     lasciò la bestia andar dove volea;
     torna a Morgante, e d’allegrezza galla,
     però che ’l mosto all’odor conoscea.
     Comincion la testuggine assaggialla;
     Margutte disse ch’arsa gli parea:
     pargli mill’anni d’assaggiare il mosto;
     e finalmente cavorno l’arrosto.

61 Come e’ furno assettati insieme a desco,
     Morgante dètte una gran tazza piena
     alla fanciulla c’ha ’l viso angelesco
     di vin, che gli bastò per la sua cena;
     poi si succiò, che parve un uovo fresco,
     quel che rimase in men che non balena;
     e non poté Margutte esser sì attento
     che si succiò quegli otri in un momento;

62 e cominciò a gridare: - Oïmè l’occhio!
     Morgante, tu non bei, anzi tracanni,
     anzi diluvi, ed io sono un capocchio,
     ché so ch’a ogni giuoco tu m’inganni.
     Forse tu stesti aspettare il finocchio?
     Un altro arebbe badato mill’anni!
     Per Dio, che tu se’ troppo disonesto!
     Noi partirem la compagnia, e presto.

63 Se fussin come te fatti i moscioni,
     e’ non bisognere’ botte né tino.
     E forse tu fai piccoli i bocconi?
     Ma questo non importa come il vino.
     Tu non se’ uom da star tra compagnoni:
     non lasci pel compagno un ciantellino.
     Del lïocorno mi rimase il torso;
     or di due otri te n’hai fatto un sorso. -

64 Morgante avea di Margutte piacere,
     e d’ogni cosa con lui si motteggia:
     dunque Margutte cenò sanza bere,
     e la fanciulla ridendo il dileggia.
     Dicea Margutte: - Già di buone pere
     mangiato ha il ciacco! - e sottecchi vagheggia,
     e ciò che dice costei, sogghignava;
     ma con Morgante assai si scorrubbiava.

65 Quando egli ebbon cenato, e’ s’assettorno
     dintorno al fuoco, e quivi si dormiéno,
     per aspettar che ritornassi il giorno,
     su certe frasche e sopra un po’ di fieno.
     L’altra mattina il cammel caricorno,
     e pure inverso il camin lor ne giéno
     sanza trovar o vettovaglia o tetto,
     tanto che pur la fanciulla ha sospetto;

66 e dicea: - Questa selva è tanto folta,
     Morgante, ch’a guardalla non m’arrischio. -
     Dicea Margutte: - Che sent’io? Ascolta:
     e’ par ch’i’ oda di lontano un fischio. -
     Giunsono appresso ove la strada è volta:
     ecco apparir dinanzi un bavalischio,
     e cominciava gli occhi a sfavillare.
     Morgante fe’ la fanciulla scostare.

67 Arrandellò il battaglio a quella fiera,
     e giunse per ventura appunto al collo,
     e spiccò il capo che parve di cera,
     e più di venti braccia via portollo.
     Margutte andò dove e’ vide ch’egli era
     caduto, e presto a Morgante recollo:
     dodici braccia misuroron quello
     serpente crudo e velenoso e fello.

68 Fecion pensier se fussi d’arrostillo.
     Diceva la fanciulla: - Io ho mangiato
     del tigre, del dragon, del coccodrillo;
     vero è che ’l capo e la coda ho spiccato. -
     Disse Margutte: - Che bisogna dillo?
     Questo è un morselletto ben dorato:
     io taglierò solamente la coda
     e poi l’arrostiremo, ed ognun goda. -

69 Così fu arrostito l’animale
     pur colla pelle indosso come e’ nacque,
     e divorato sanza pane o sale,
     e come un manicristo a tutti piacque:
     Lucifer non are’ lor fatto male.
     Eravi appresso pel bosco dell’acque;
     quivi s’andorno la sete a cavare.
     Margutte più non si volle fidare;

70 e disse: - Più da bomba non mi scosto,
     ch’io non mi fiderei di te col pegno,
     Morgante, da qui innanzi, a dirtel tosto,
     ché tu fai sempre sopra a me disegno:
     come del vin faresti dell’arrosto;
     pertanto io non mi vo’ scostar da segno. -
     Morgante ride, e la fanciulla scoppia,
     che par che’ denti gli caschino a coppia.

71 Dormiron come soglion quella notte,
     e l’altro giorno al lor camin ne vanno
     per aspre selve e per sì scure grotte
     che dove e’ sia da posarsi non sanno.
     Pur la fanciulla si ferma ta’ dotte,
     però che ’l caminar gli dava affanno.
     Ma di dormire in così strano e scuro
     luogo non parve a Morgante sicuro,

72 dicendo: - Io non ci veggo cosa alcuna
     da ber né da mangiar né da dormire:
     acciò che non facessi la fortuna
     qualch’aspra fiera ci avessi assalire. -
     Caminorono al lume della luna
     tutta la notte con assai martìre
     e ’nsin che fu fornito l’altro giorno,
     che da mangiar né da ber mai trovorno;

73 ed erono affamati ed assetati
     e rotti e stracchi per lungo camino.
     Margutte un tratto gli occhi ha strabuzzati,
     ch’era per certo il diavol tentennino.
     Dice Morgante: - Margutte, che guati?
     Io vedo che tu affisi l’occhiolino:
     aresti tu appostata la cena? -
     Disse Margutte: - Che ne credi appena?

74 Io veggo quivi appoggiato, Morgante,
     a un albero un certo compagnone
     che par che dorma, e non muove le piante:
     di questo non faresti tu un boccone. -
     Morgante guarda: egli era un lïofante
     che si dormiva a sua consolazione,
     ch’era già sera, ed appoggiato stava
     come si dice, e col grifo russava.

75 Disse Morgante: - Dammi un poco in mano,
     Margutte, presto la tua scimitarra. -
     Poi s’accostava all’albero pian piano;
     ma non arebbe sentite le carra,
     sì forte dorme l’animale strano.
     Morgante allor nelle braccia si sbarra
     e l’arbor sotto alla bestia tagliòe,
     che sbalordita rovescio cascòe;

76 e cominciava a rugghiar tanto forte
     che rimbombava per tutto il paese.
     Dètte alle gambe a Morgante due tòrte
     col grifo lungo; Morgante gliel prese
     e colla spada gli dètte la morte,
     tanto che tutto in terra si distese.
     Dicea Margutte: - Questa è sì gran fiera
     ch’io cenerò pure a macca stasera. -

77 E cominciò assettarsi a cucinare.
     Morgante intanto del fuoco facea,
     e la fanciulla l’aiuta acconciare,
     però che in aria la fame vedea.
     Margutte uno schidon voleva fare:
     guardando, presso due pin si vedea
     ch’erano insieme in un ceppo binati.
     Disse Morgante: - Iddio ce gli ha mandati. -

78 E fece l’un con un colpo cadere,
     dicendo: - Uno schidon farai di questo;
     questo altro ne faremo un candelliere,
     e rimarrassi ritto qui in sul cesto. -
     Alzò la spada e tagliògli il cimiere
     e fece giù la ciocca cader presto;
     poi fésse in quattro il gambo a poco a poco
     ed appiccògli in su la vetta il fuoco.

79 Disse Margutte: - Noi trïonferemo!
     Veggo la cosa stasera va ’gala,
     poi ch’a lume di torchio ceneremo;
     e ’ntorno a questo pin sarà la sala,
     e sotto a questo lume mangeremo.
     Ma perch’io non v’aggiungo con la scala,
     Morgante, e tu v’aggiugni sanza zoccoli,
     e’ converrà stasera che tu smoccoli. -

80 Disse Morgante: - Col nome di Dio!
     attendi pur, Margutte, ch’e’ sia cotto,
     ch’io vo’ che questo sia l’uficio mio. -
     Margutte acconcia l’arrosto di botto;
     poi disse: - Volgi: e’ sarà pur buon ch’io
     cerchi dell’acqua, se ci è ignun ridotto.
     Questo so io tu non trangugerai,
     ch’a tuo dispetto me ne serberai. -

81 Morgante disse arditamente: - Va’,
     che insin che tu ritorni aspetterò,
     e ’l lïofante intero ci sarà. -
     Ma non gli disse: «In corpo il serberò».
     Margutte in giù e ’n sù, di qua, di là
     dell’acqua va cercando il me’ che può,
     tanto che pur trovava un fossatello,
     e d’acqua presto n’empieva il cappello.

82 Ma non fu prima dal fuoco partito
     che Morgante a spiccar comincia un pezzo
     del lïofante, e disse: - Egli è arrostito! -
     e tutto il mangia così verdemezzo,
     dicendo alla fanciulla: - Il mio appetito
     non può più sofferir, ch’è male avvezzo. -
     E diègli la sua parte finalmente,
     come si convenia, discretamente.

83 Margutte torna, e Morgante trovava
     che s’avea trangugiato, insino all’osse
     il lïofante, e’ denti stuzzicava
     con lo schidon del pin dove e’ si cosse:
     tra le gengìe con esso si cercava
     come s’un gambo di finocchio fosse;
     le zampe sol vi restava e la testa:
     d’ogn’altra cosa era fatta la festa.

84 Disse Margutte: - Dove è il lïofante
     che tu dicesti di serbare intero?
     - Egli è qui presso - rispose Morgante.
     Diceva la fanciulla: - E’ dice il vero:
     e’ l’ha mangiato dal capo alle piante,
     e non è stato, al suo parere, un zero. -
     Disse Morgante: - Io non ti fallo verbo,
     Margutte, poi che ’n corpo te lo serbo.

85 Tu non hai bene in loïca studiato:
     io dissi il ver, ma tu non m’intendesti. -
     Margutte stava come trasognato,
     e dice: - Io penso come tu facesti:
     può far il Ciel tu l’abbi trangugiato?
     Io credo che ancor me mangiato aresti:
     forse fu buon ch’io non ci fussi dianzi,
     ch’io mi levai dalla furia dinanzi.

86 Tu m’hai a mangiare un dì poi, come l’Orco.
     Questa è stata una cosa troppo strana,
     un atto proprio di ghiotto e di porco,
     quel c’ha fatto la gola tua ruffiana!
     Tu non sai forse come io mi scontorco
     a comportar tua natura villana.
     Pensi ch’io facci gelatina o solci,
     che ’l capo drento o le zampe esser vuolci?

87 Noi reggerem, Morgante, insieme poco:
     da ora innanzi tra noi sia divisa
     la compagnia, se tu non muti giuoco. -
     Morgante smascellava delle risa;
     bevve dell’acqua, e poi se n’andò al fuoco.
     Margutte gli occhi a quella testa affisa,
     perché la fame non sentiva stucca,
     e ’l me’ che può come ’l can la pilucca.

88 E borbottando s’acconcia a dormire,
     così Morgante, insin che in orïente
     il sole e ’l giorno comincia apparire;
     e vannosene insieme finalmente.
     Margutte si volea da lui partire,
     ma la fanciulla lo fe’ pazïente:
     - Non ci lasciar - dicea - tra questi boschi,
     tanto ch’almen qualcun l’uom riconoschi. -

89 Dicea Margutte: - Io ho sempre mai inteso
     che gnun non si vorrebbe mai beffare:
     io mi vedea schernito e vilipeso,
     e costui stava il dente a stuzzicare
     come se proprio e’ non m’avessi offeso.
     Questo non posso mai dimenticare:
     e’ si poteva pur fare altrimenti
     che sogghignare e stuzzicarsi i denti.

90 Questo faceva e’ sol per più dispetto,
     ch’era proprio il boccon rimproverarmi,
     come se fussi stato mio il difetto:
     pensa che conto e’ facea d’aspettarmi! -
     Dicea quella fanciulla: - Io ti prometto,
     se infino al padre mio vuoi accompagnarmi,
     io ti ristorerò per certo ancora. -
     Margutte pur si racchetava allora.

91 A questo modo andati son più giorni
     sanza trovare o case o mai persona.
     Ma finalmente un dì busoni e corni
     senton sonar sanza saper chi suona:
     eron certe casette come forni,
     dove era una villetta ch’è assai buona,
     all’uscir proprio delle selve fore;
     e Filomen tenevon per signore.

92 Sentendo la fanciulla allor sonare,
     subitamente al ciel levò le mani;
     comincia Macometto a ringraziare:
     conobbe che que’ suon poco lontani
     erano, e gente vi debbe abitare,
     perché sapea i costumi de’ pagani:
     - Laudato sia Macone in sempiterno, -
     dicea - ché tratti omai siàn dello inferno. -

93 Morgante ne facea con lei gran festa
     per venirla al suo padre rimenando,
     però che molto gl’increscea di questa,
     e perché spera veder tosto Orlando.
     A poco a poco uscîr della foresta
     e vengono il dimestico trovando;
     e finalmente alle case arrivorno
     dove sentito avean sonare il corno.

94 Ma la fanciulla non sapea che quello
     luogo il suo padre già signoreggiassi.
     Eravi un oste vecchio e poverello:
     non avea tanto Morgante cenassi.
     Disse Margutte: - Togliamo il cammello! -
     ed ordinò che questo si mangiassi,
     ed arrostillo come egli era usato,
     e innanzi al gran Morgante l’ha portato.

95 Morgante diè di morso nello scrigno
     e tutto lo spiccò con un boccone.
     Margutte gli faceva un viso arcigno,
     dicendo: - Tu fai scorgerti un briccone,
     ed ogni volta mi paghi di ghigno,
     e fai, Morgante, dosso di buffone
     pur che tu empia ben cotesta gola,
     e mai non fai a tavola parola. -

96 Poi ne spiccò di quel cammello un quarto,
     e disse: - Io intendo il mio conto vedere:
     guarda s’io taglio a punto come il sarto.
     Tegnàno in man, ch’io veggo il cavaliere;
     ma pur dal giuoco però non mi parto,
     ch’io so che l’ossa non ci ha a rimanere;
     e’ non è cosa da star teco a scotto:
     tu se’ villano e disonesto e ghiotto. -

97 L’oste rideva e la fanciulla ride.
     Margutte, che fu tristo nelle fasce,
     col piè sotto la tavola l’uccide
     e coll’occhietto disopra si pasce.
     Morgante un tratto di questo s’avvide,
     e disse: - Tu se’ uso con bagasce. -
     Quella fanciulla onesta e virtüosa
     si ristrignea ne’ panni vergognosa.

98 Dicea Morgante: - Tu se’ pur cattivo
     come tu mi dicevi, in detti e ’n fatti!
     Io credo che tu abbi argento vivo,
     Margutte, ne’ calcetti e negli usatti:
     da questa sera in là, s’a l’oste arrivo,
     acciò che non facessi più questi atti,
     farotti i pie’ tener nella bigoncia,
     ch’io veggo che la cosa sare’ acconcia. -

99 Disse Margutte: - Hai tu per cosa nuova
     ch’io sia cattivo con tutti i peccati,
     al fuoco, al paraone, a tutta pruova
     un oro più che fine di carati?
     Io non fu’ appena uscito fuor dell’uova
     ch’i’ ero il caffo degli sciagurati,
     anzi la schiuma di tutti i ribaldi;
     e tu credevi io tenessi i pie’ saldi!

100 Non vedi tu, Margutte, quanto onore. -
     dicea Morgante - pel camin gli ho fatto,
     per rimenarla al padre ch’è signore?
     Guarda che più non t’avvenga questo atto. -
     Disse Margutte: - A ogni peccatore
     si debbe perdonar pel primo tratto:
     s’io ho fallato, perdonanza chieggio;
     quest’altra volta so ch’io farò peggio. -

101 Disse Morgante: - E peggio troverrai.
     Guarda ch’io non adoperi il battaglio:
     forse, Margutte, tu mi crederrai,
     s’un tratto le costure ti ragguaglio. -
     Dicea Margutte: - S’ tu non mi terrai
     legato sempre stretto col guinzaglio,
     prima che te, vedrai, Morgante, ch’io
     adoperrò forse il battaglio mio.

102 Or oltre, sù, govèrnati a tuo modo; -
     rispose allor Morgante d’ira pieno:
     - io so che ’l mio battaglio fia più sodo,
     e non bisognerà guinzaglio o freno. -
     Intanto la fanciulla disse: - Io odo
     alcun qua che ricorda Filomeno.
     Conoscilo tu, oste, o sai chi e’ sia,
     e ’n qual paese egli abbi signoria? -

103 Rispose l’oste: - Quel che tu domandi,
     io intendo Filomen sir di Belfiore.
     Acciò che più parole non ispandi,
     sappi che Filomeno è qui signore,
     e siàn tutti parati a’ suoi comandi
     per lunga fede e per antico amore;
     e regge il popol suo tranquillo e lieto
     come giusto signor, savio e discreto.

104 Vero è che lungo tempo è stato in pianto,
     però che gli fu tolta una sua figlia,
     né sa chi la togliessi; ed è già tanto,
     che ritrovarla saria maraviglia.
     Poi che l’ebbe cercata indarno alquanto,
     vestissi a bruno lui e la sua famiglia,
     e non ci gridan poi talacimanni;
     e così son passati già sette anni. -

105 Questa fanciulla diventò nel viso
     subitamente piena di dolcezza,
     e parve il cor da lei fussi diviso,
     e pianse quasi di gran tenerezza,
     dicendo: - Or son tornata in paradiso,
     dove solea gioir mia giovinezza. -
     Pensòe di troppo gaudio venir meno,
     quando sentì che vivo è Filomeno.

106 Morgante molto allegro fu di questo,
     e disse: - Io son sì contento stasera,
     che s’io morissi non mi fia molesto.
     Margutte mio, noi faren buona cera,
     ed è pur buon ch’io t’abbi fatto onesto. -
     Disse Margutte, che mal contento era:
     - Se tanta coscïenzia pur ti tocca,
     ricùciti una spanna della bocca. -

107 Non volle la fanciulla palesarsi;
     domanda della madre e de’ parenti,
     e d’ogni cosa voleva accertarsi,
     di fratelli e sorelle e di sue genti.
     Quivi la notte stanno a riposarsi,
     poi si partirno dall’oste contenti.
     Non parve tempo a rubare a Margutte,
     che non gli dessi Morgante le frutte.

108 E del camin l’ostier ne l’avvisava,
     se capitar volevono a Belfiore,
     che sempre lungo la riva s’andava
     del Nilo, e non potean pigliare errore.
     Morgante mentre la rena pestava,
     un coccodrillo dell’acqua esce fore:
     la bocca aperse e credette inghiottillo.
     Disse Margutte: - Che fia, coccodrillo?

109 Cotesto è troppo gran boccon da te. -
     Morgante in bocca il battaglio gli porse;
     e ’l coccodrillo una stretta gli diè
     e’ denti vi ficcò, sì forte il morse.
     Allor Morgante ritirava a sé
     presto il battaglio, e ’n bocca gliele storse,
     e spezza i denti l’uno e l’altro filo;
     poi prese questo e scagliollo nel Nilo.

110 Un miglio o più drento al fiume gittollo,
     come un certo aüttor che ’l dice ha scritto;
     e se l’avessi preso me’ pel collo,
     credo gittato l’arebbe in Egitto;
     e nel cader morì sanza dar crollo;
     e ’l gran battaglio da’ denti è trafitto.
     Disse Margutte: - Io lo vedevo scorto
     ch’egli scoppiava se non fussi morto. -

111 Era già vespro, e son presso a quel bosco
     dove fu presa già questa fanciulla;
     e disse con Morgante: - Io riconosco
     il luogo ove io fu’ sciocca più che in culla,
     sanza pensar che dopo al mèle è il tòsco:
     così va chi se stesso pur trastulla;
     ed è ragion s’alfin mal gliene coglie
     chi vuol cavarsi tutte le sue voglie.

112 maladetto, o sventurato loco!
     Quivi senti’, Morgante, il lusignuolo,
     colà fu’ traportata a poco a poco
     dal suo bel canto d’uno in altro volo.
     A me pareva a sentirlo un bel giuoco:
     vedi che ne seguì poi tanto duolo!
     Ringrazio te, che m’hai qui ricondotta;
     e sarò savia, s’io non fui allotta.

113 E mosterrotti ch’io non sono ingrata;
     ed arò sempre scritto nel mio core
     come tu m’abbi prima liberata,
     e con quanta onestà, con quanto amore
     tu m’abbi per la via poi accompagnata,
     che non è stato il servigio minore:
     come fratel, come gentil gigante
     ti se portato, e non come mio amante.

114 Potevi di me far come Beltramo:
     non hai voluto; ond’io come fratello,
     come tu ami me, certo te amo:
     così ti tratterò nel mio castello;
     così Margutte vo’ che noi trattiamo,
     benché e’ fussi alle volte tristerello. -
     Disse Margutte: - S’io feci tristizia,
     tu dèi pensar ch’io nol feci a malizia. -

115 Ecco ch’egli eron già presso alle mura
     di Filomeno, or ecco ch’e’ son drento;
     e ’l popol guarda la grande statura
     di quel gigante, che dava spavento;
     ma la fanciulla ignun non raffigura.
     O padre suo, quanto sarai contento!
     Ch’ogni impreviso ben più piacer suole,
     come il mal non pensato anco più duole.

116 Filomen che venìa, sente, il gigante
     colla fanciulla e con un suo compagno,
     e che e’ si fa verso il palazzo avante,
     e che parea molto famoso e magno.
     In questo mezzo appariva Morgante;
     Filomen disse: «Iddio ci dia guadagno!
     Chi fia costui? E che fanciulla è questa?
     Non mi trarrò però la bruna vesta;

117 non rïarò però la mia figliuola»
     dicea fra sé, ché non la conoscìa.
     Maravigliossi ch’ella sia sì sola,
     dicendo: - Questa è strana compagnia. -
     Poi fermò gli occhi ove il disio pur vola,
     e gridò: - Questa è Florinetta mia! -
     Ma la fanciulla, che di ciò s’accorse,
     abbracciar Filomen sùbito corse.

118 Or pensi ognun, questo misero padre
     quanto in quel punto fussi consolato!
     A questo grido correva la madre;
     e benché Florinetta abbi mutato
     il viso molto e sue membra leggiadre,
     al primo tratto l’ha raffigurato;
     ed abbracciò costei pietosamente,
     e per dolcezza par fuor della mente.

119 Il popol tutto con festa correva,
     però che molto amato è Filomeno:
     così in un tratto la sala s’empieva.
     Morgante, ch’era d’allegrezza pieno,
     a Filomeno in tal modo diceva:
     - Ecco la figlia tua ch’io ti rimeno,
     e son contento più ch’io fussi ancora. -
     Il perché Filomen l’abbraccia allora.

120 Ma Florinetta, postasi a sedere
     allato al padre, e riposata alquanto,
     diceva: - O Filomen, tu vuoi sapere
     del lungo errore e del mio grave pianto,
     e come io sia vivuta e ’n qual sentiere,
     e perché il mio tornar tardato è tanto.
     Io ti dirò la mia disavventura,
     ch’ancor pensando mi mette paura. -

121 E cominciò dal dì ch’ella era uscita
     della città, quand’ella andò soletta,
     a contar come ella fussi rapita
     e strascinata trista e meschinetta;
     e quanto è stata afflitta la sua vita,
     e la catena che la tenea stretta,
     e come ella era dal lïon guardata:
     tanto che piange ognun che l’ha ascoltata.

122 E tutto il popol se ne maraviglia:
     ognun verso Macon le mani alzava;
     la madre e ’l padre e l’altra sua famiglia
     d’orror ciascuno e capriccio tremava.
     Seguì più oltre la leggiadra figlia,
     e ’nverso il suo Morgante si voltava,
     ed ogni cosa narrava costei
     ciò che Morgante avea fatto per lei:

123 come al principio e’ l’avea liberata
     da quel gigante crudel malandrino;
     e come sempre l’aveva onorata
     e vezzeggiata per tutto il camino,
     e sempre per la man l’avea menata
     sì come padre o fratello o cugino;
     e che tanto onestà servata avea
     che ’l nome suo, non ch’altro, non sapea.

124 E tante cose dicea di Morgante
     che ’l popol tutto correva a furore
     abbracciar questo e baciàgli le piante;
     e Filomen gli pose tanto amore
     che in ogni modo volea che ’l gigante
     con lui vivessi e morissi signore.
     Morgante Filomen ringrazia assai,
     dicendo: - Sempre tuo servo m’arai,

125 e sempre sarò teco vivo e morto
     con l’anima e col corpo, pur ch’io possi.
     Io voglio a Bambillona esser di corto,
     e sol per questo di Francia mi mossi,
     ch’al conte Orlando farei troppo torto.
     Ma sempre mi comanda, dov’io fossi;
     e pur se Florinetta m’ama seco,
     io mi starò due giorni ancor con teco. -

126 Diceva Florinetta: - Almeno un anno
     con meco ti starai, Morgante mio. -
     E così tutti grande onor gli fanno,
     anzi adorato è da lor come iddio.
     Margutte e Florinetta il gusto sanno;
     e perch’ella ha di piacergli disio,
     disse a Margutte: - Attendi alla cucina,
     che sia provisto ben sera e mattina. -

127 Non domandar se Margutte s’affanna
     e se’ parea di casa più che ’l gatto;
     e dice: «Corpo mio, fatti capanna!
     ch’io t’ho a disfar le grinze a questo tratto:
     vedi che qui da ciel piove la manna!»,
     e salta per letizia come un matto;
     e stava sempre pinzo e grasso ed unto,
     e della gola ritruova ogni punto.

128 Mentre ch’io ero - diceva - in Egina,
     non soleva questa esser la mia arte?
     Così ci fussi la mia concubina!
     ch’io gli porrei delle cose da parte.
     Ma come il cuoco lascia la cucina,
     così dalla ragion certo si parte;
     così, come Margutte di qui esce,
     sarà come a cavar dell’acqua un pesce. -

129 E finalmente e’ provedeva bene
     la mensa di vivande di vantaggio;
     e d’ogni cosa che in tavola viene
     sempre faceva la credenza e ’l saggio;
     e qualche buon boccon per sé ritiene
     e ’n corbona metteva, come saggio;
     alcuna volta nella cella andava
     e pel cucchiume le botte assaggiava;

130 e sapea sopra ciò mille malizie:
     per casa ciò che truova mal riposto,
     e’ rassettava con sue masserizie
     in un fardel che teneva nascosto.
     In pochi dì vi fe’ cento tristizie,
     e più facea, se non partia sì tosto:
     contaminò con lusinghe e con prezzi
     ischiave e more e moricini e ghezzi.

131 A ogni cosa tirava l’aiuolo
     e faceva ogni cosa alla moresca.
     La notte al capezzal sempre ha l’orciuolo
     e pane e carne, in gozziviglia e ’n tresca;
     poi rimbeccava un tratto il lusignuolo,
     e ritrovava, acciò che ’l sonno gli esca,
     tutti i peccati suoi di grado in grado;
     e sempre in mano avea il bicchiere o ’l dado,

132 broda che succiava come il ciacco;
     poi si cacciava qualche penna in bocca
     per vomitar, quando egli ha pieno il sacco;
     poi lo rïempie, e poi di nuovo accocca.
     Ma finalmente, quand’egli era stracco
     e che pel naso la schiuma trabocca,
     e’ conficcava il capo in sul pimaccio
     unto e bisunto come un berlingaccio.

133 E sapeva di vin come un arlotto,
     ché dè’ pensar che n’appiatta Margutte;
     e quando egli era ubriaco e ben cotto,
     e’ cicalava per dodici putte;
     poi ribaciava di nuovo il barlotto,
     e conta del camin le trame tutte;
     e diceva bugie sì smisurate
     che le tre eran sette carrettate.

134 Or pur Morgante si volea partire,
     quantunque Florinetta assai pregassi,
     e cominciò con Filomeno a dire
     che la licenzia oramai gli donassi,
     ché di vedere Orlando ha gran disire.
     Subitamente un gran convito fassi,
     per dimostrar maggior magnificenzia
     al gran Morgante in questa dipartenzia.

135 E poi ch’egli hanno tutti desinato
     e ragionate insieme molte cose,
     e la fanciulla a Morgante ha donato
     di molte gioie ricche e prezïose,
     e molto Filomen l’ha ringraziato,
     Morgante come savio anco rispose
     che accettava e l’offerte e ’l tesoro
     per ricordarsi, ove e’ fussi, di loro.

136 Margutte, quando udì questa novella,
     diceva: «Io voglio andar per qualche ingoffo»;
     e tolse uno schidone e la padella,
     tinsesi il viso e fecesi ben goffo;
     e corre ove sedeva la donzella,
     e fece dello ’mpronto e del gaglioffo,
     e disse: - Il cuoco anco lui vuol la mancia,
     o io ti tignerò tutta la guancia. -

137 Florinetta una gemma ch’avea in testa
     gittò nella padella a mano a mano.
     Margutte ciuffa e la mano ebbe presta,
     e dice: - Io fo per non parer provàno. -
     Morgante fatta gli arebbe la festa
     s’avessi avuto qualche cosa in mano,
     e vergognossi dell’atto sì brutto,
     dicendo: - Tu m’hai pur chiarito in tutto. -

138 Margutte si tornò in cucina tosto,
     e cominciò assettare un suo fardello
     di ciò ch’aveva rubato e nascosto,
     e quel che solea por già in sul camello;
     e perché vide Morgante disposto
     di dipartirsi, si pensò ancor quello
     ch’e’ fussi da fornirsi drento il seno
     di ghiottornie per due giornate almeno;

139 e mangia e bee ed insacca per due erri,
     dicendo: - E’ non si truova cotti e tordi,
     quand’io sarò per le selve tra’ cerri. -
     Morgante intanto al partir par s’accordi,
     e Florinetta con lui era a’ ferri
     a pregar sempre di lei si ricordi,
     e che tornassi a rivederla presto,
     e non si parta che prometta questo.

140 Morgante rispondea ch’era contento
     e in ogni modo per sé tornerebbe,
     e fecene ogni giuro e sacramento:
     non potre’ dir quanto il partir gl’increbbe;
     ed abbracciava cento volte e cento
     quella fanciulla; e non si crederrebbe
     la tenerezza che gli venne al core,
     e quanto Filomen gli ha posto amore.

141 Margutte disse solamente - Addio -,
     però ch’egli era più cotto che crudo.
     Morgante, poi che del castello uscìo,
     disse a Margutte: - Assèttati lo scudo,
     ch’io vo’ sfogarmi, poltoniere e rio,
     ché tu se’ il cucco mio per certo e ’l drudo!
     Può fare Iddio tu sia sì sciagurato?
     Tu m’hai chiarito, anzi vituperato.

142 Tu m’hai pur fatte tutte le vergogne!
     Io mi credevo ben tu fussi tristo
     e ladro e ghiotto e padre di menzogne,
     ma non tanto però quant’io n’ho visto:
     tu nascesti tra mitere e tra gogne,
     come tra ’l bue e l’asin nacque Cristo. -
     Margutte gli rispose: - E tra’ capresti
     e tra le scope: tu non t’apponesti.

143 Io credevo, Morgante, tu ’l sapessi
     ch’io abbi tutti i peccati mortali;
     e ’l primo dì, perché mi conoscessi,
     tel dissi pure a letter di speziali.
     Puo’mi tu altro appor ch’io ti dicessi?
     Questi son peccatuzzi venïali:
     lascia ch’io vegga da fare un bel tratto
     in qualche modo, e chiarirotti affatto. -

144 Morgante finalmente convenia
     che in riso e ’n giuoco s’arrechi ogni cosa;
     e vanno seguitando la lor via.
     Erano un dì per una selva ombrosa;
     e perché pure il camino increscìa,
     a una fonte Morgante si posa.
     Margutte, ch’avea ancor ben pieno il sacco,
     s’addormentò come affannato e stracco.

145 Morgante, come lo vede a giacere,
     gli stivaletti di gamba gli trasse
     ed appiattògli, per aver piacere,
     un po’ discosto, quando e’ si destasse.
     Margutte russa, e colui sta a vedere;
     poi lo destava, perché e’ s’adirasse.
     Margutte si rizzò, come e’ fu desto,
     e degli usatti s’accorgeva presto;

146 e disse: - Tu se’ pur, Morgante, strano:
     io veggo che tu m’hai tolti gli usatti,
     e fusti sempre mai sconcio e villano. -
     Disse Morgante: - Apponti ov’io gli ho piatti:
     e’ son qui intorno poco di lontano:
     questo è per mille oltraggi tu m’hai fatti. -
     Margutte guata, e non gli ritrovava;
     e cerca pure, e seco borbottava.

147 Ridea Morgante sentendo e’ si cruccia.
     Margutte pure alfin gli ha ritrovati,
     e vede che gli ha presi una bertuccia,
     e prima se gli ha messi e poi cavati.
     Non domandar se le risa gli smuccia,
     tanto che gli occhi son tutti gonfiati
     e par che gli schizzassin fuor di testa;
     e stava pure a veder questa festa.

148 A poco a poco si fu intabaccato
     a questo giuoco, e le risa cresceva,
     tanto che ’l petto avea tanto serrato
     che si volea sfibbiar, ma non poteva,
     per modo e’ gli pare essere impacciato.
     Questa bertuccia se gli rimetteva:
     allor le risa Margutte raddoppia,
     e finalmente per la pena scoppia;

149 e parve che gli uscissi una bombarda,
     tanto fu grande dello scoppio il tuono.
     Morgante corse, e di Margutte guarda
     dov’egli aveva sentito quel suono,
     e duolsi assai che gli ha fatto la giarda,
     perché lo vide in terra in abbandono;
     e poi che fu della bertuccia accorto,
     vide ch’egli era per le risa morto.

150 Non poté far che non piangessi allotta,
     e parvegli sì sol di lui restare
     ch’ogni sua impresa gli par guasta e rotta;
     e cominciò col battaglio a cavare,
     e sotterrò Margutte in una grotta
     perché le fiere nol possin mangiare;
     e scrisse sopr’un sasso il caso appunto,
     come le risa l’avean quivi giunto.

151 E tolse sol la gemma che gli dètte
     Florinetta al partir: l’altro fardello
     con esso nella fossa insieme mette;
     e con gran pianto si partì da quello,
     e per più dì come smarrito stette
     d’aver perduto un sì caro fratello,
     e ’n questo modo ne’ boschi lasciarlo
     e non potere a Orlando menarlo.

152 Ora ècci un aüttor che dice qui
     ch’e’ si condusse pur dov’era Orlando,
     ma poi da Bambillona si partì
     e venne in questo modo capitando.
     Tanto è che la sua morte fu così:
     di questo ognun s’accorda, ma del quando,
     o prima o poi, c’è varie oppinïoni
     e molti dubbi e gran disputazioni.

153 Tanto è ch’io voglio andar pel solco ritto,
     ché in sul Cantar d’Orlando non si truova
     di questo fatto di Margutte scritto,
     ed ècci aggiunto come cosa nuova:
     ch’un certo libro si trovò in Egitto
     che questa storia di Margutte appruova,
     e l’aütor si chiama Alfamenonne,
     che fece gli Statuti delle donne.

154 E fu trovato in lingua persiana,
     tradutto poi in arabica e ’n caldea;
     poi fu recato in lingua sorïana,
     e dipoi in lingua greca, e poi in ebrea,
     poi nell’antica famosa romana;
     finalmente vulgar si riducea:
     dunque e’ cercò la torre di Nembrotto,
     tanto ch’egli è pur fiorentin ridotto.

155 Quel che e’ si sia, e’ seppe ogni malizia
     e fu prima cattivo assai che grande,
     però ch’e’ cominciò da püerizia
     a esser vago dell’altrui vivande;
     e fece abito sì d’ogni tristizia
     ch’ancor la fama per tutto si spande;
     e furon le sue opre e le sue colpe
     non creder lëonine, ma di volpe.

156 Or lasciàn questo con buona ventura,
     ché la giustizia ha infin sempre suo loco.
     Morgante attraversando una pianura
     s’appressa a Bambillona a poco a poco,
     tanto che già si scorgevan le mura;
     ed arde tutto, come il zolfo al foco,
     della gran voglia di vedere Orlando,
     che non credea già mai trovare il quando.

157 Era già presso al campo a poche miglia,
     e fu veduto questo compagnone
     come un alber di nave di caviglia,
     e dava a tutto il campo ammirazione.
     Ma quando Orlando vi volse le ciglia:
     «Questo è Morgante, per lo dio Macone!
     se ben le membra di questo ragguaglio»,
     dicea fra sé, «ch’io conosco il battaglio».

158 Fecesi presto menar Vegliantino,
     e nondimen la lancia tolse in mano,
     che non fussi gigante saracino,
     perché la vista inganna di lontano.
     Morgante, come vide il paladino,
     gli fece il cenno usato a mano a mano:
     gittò il battaglio cento braccia in alto,
     poi lo riprese in aria con un salto.

159 E come al conte Orlando fu più presso,
     subitamente ginocchione è posto.
     Orlando smonta e ’ncontro ne va a esso,
     e cominciò le braccia aprir discosto,
     ché si conosce un grande amore espresso,
     e disse: - Lieva, Morgante, sù tosto! -
     e missegli le braccia strette al collo
     e mille volte e poi mille baciollo.

160 Non si saziava a Morgante far festa,
     tanto che ’l collo ancor non abbandona,
     dicendo: - Che ventura è stata questa?
     Morgante, poi che ci è la tua persona,
     io non temo più scogli né tempesta:
     le mura triemon già di Bambillona,
     anzi tremare il ciel sento e la terra,
     tanto ch’omai terminata è la guerra.

161 Io non farei con Alessandro Magno,
     con Cesar, con Anibal, con Marcello,
     o patti o pace o triegua con guadagno,
     da poi che tu se’ qui, caro fratello;
     ch’io pur non ebbi mai miglior compagno:
     io crederrei con te pigliar Babello,
     e Troia un’altra volta, e Roma antica.
     Or vo’ che mille cose oggi mi dica.

162 Che è d’Astolfo mio, d’Arnaldo, Uggieri,
     d’Angiolin di Baiona e del mio Namo
     e del mio caro e gentil Berlinghieri?
     Che è di Salamon mio, ch’io tanto amo?
     Che è d’Ottone, Avolio, Avin, Gualtieri,
     che è de’ miei fratei che noi lasciamo,
     Guicciardo con Alardo, a Montalbano?
     Che è di quel traditor del conte Gano?

163 Quanto è che tu ti partisti da Carlo?
     Dimmi se Gano è tornato a Parigi,
     e s’egli attende, al modo usato, a farlo
     seguire i suoi consigli e’ suoi vestigi,
     tanto che possi alla mazza guidarlo.
     Ha fatto l’arte il nostro Malagigi
     a questi tempi, e detto dov’io sia,
     e come io abbi qua gran signoria,

164 e come Persia ho presa e l’amostante
     dopo pur molta fatica ed affanno? -
     Allor si rizza e risponde Morgante
     che Carlo e’ paladin ben tutti stanno;
     e Malagigi, come negromante,
     detto gli avea come le cose vanno;
     e che Gano era scacciato e in essilio,
     ché Carlo nol vuol più nel suo concilio;

165 e come la figliuola del Soldano,
     che si chiamava la famosa Antea,
     si stava con Guicciardo a Montalbano,
     e grande onore il popol gli facea;
     e quel ch’ella avea fatto fare a Gano:
     della qual cosa Orlando si ridea.
     E così inverso il padiglione andorno,
     e molte cose ragionaro il giorno.

166 Quivi Rinaldo, Ulivier, Ricciardetto
     abbraccian tutti Morgante lor caro.
     Morgante nuove di Francia ha lor detto;
     poi di Margutte molto ragionaro,
     come e’ morì ridendo, il poveretto,
     e come insieme pria s’accompagnaro;
     e conta d’ogni sua piacevolezza,
     e lacrimava ancor di tenerezza.

167 Quivi fecion consiglio di pigliare
     la città, poi che Morgante è venuto.
     Comincion la battaglia apparecchiare;
     ed ogni cosa che fanno è veduto:
     que’ della terra cominciono armare
     le mura ed ordinar quel ch’è dovuto.
     E cominciossi una fiera battaglia,
     e per due ore durò la puntaglia.

168 Morgante pur verso la porta andava,
     ch’era tutta di ferro e molto forte.
     E saracini ognun forte gittava
     e sassi e dardi per dargli la morte.
     Ma ’l fer gigante tanto s’accostava
     che col battaglio bussava le porte;
     ma non poteva spezzarle a gnun modo,
     benché questo battaglio è duro e sodo.

169 Più e più volte percuote e martella;
     ma poi che vide che poco valeva,
     e’ s’appiccava a una campanella
     e con gran forza la porta scoteva.
     Ma i sassi gl’intronavan le cervella
     che in sul cappel di sopra gli pioveva,
     e sente or questo or quell’altro percuotere:
     allor più forte cominciava a scuotere.

170 Era una torre di mura sì grossa
     sopra la porta, ch’un gran pezzo resse;
     ma quando e’ dava Morgante una scossa,
     non è tremuoto che tanto scotesse,
     tanto che l’ha tutta intronata e mossa,
     e finalmente in più parte si fésse,
     ch’era tenuta cosa inespugnabile;
     e parve a tutti sua forza mirabile.

171 Orlando stupefatto era a vedello
     alcuna volta sue forze raccòrre,
     ch’arebbe fatto cader Mongibello.
     E dètte un tratto una scossa alla torre,
     che mai Sanson non la diè come quello;
     e ’l campo tutto a veder questo corre;
     e félla rovinar giù d’alto in basso,
     né mai non si sentì sì gran fracasso;

172 e ’l polverio n’andò insino alle stelle.
     Morgante colla porta si copria
     come si fa con palvesi o rotelle,
     che’ sassi non gli faccin villania.
     Quelle gente di sopra meschinelle
     chi morto, chi percosso si vedia,
     chi rotto il braccio e chi il teschio avea aperto
     e chi da’ calcinacci è ricoperto,

173 chi mostra il piè scoperto e chi gambetta,
     chi colle gambe all’erta è sotterrato,
     chi ha tra sasso e sasso qualche stretta
     avuto, e come morto è rovesciato,
     chi ’l sangue fuor per gli occhi e ’l naso getta,
     chi zoppo resta, chi monco e sciancato:
     era a veder sotto questa rovina
     morti costor come una gelatina.

174 I terrazzan che difendon le mura
     maravigliati fuggon tutti quanti,
     e paion tutti morti di paura:
     nostri cristian si fecion tutti avanti.
     Ognun dicea: - Può far questo Natura? -
     Morgante non si muta ne’ sembianti,
     e perché e’ fussi la strada spedita,
     certi canton col suo battaglio trita;

175 e grida al conte Orlando: - Andianne drento!
     Seguite me, non abbiate sospetto,
     ché Bambillona è nostra a salvamento
     per onta e disonor di Macometto. -
     I saracin fuggìen pien di spavento
     dinanzi a quel dïavol maladetto:
     Orlando e tutti gli altri drento entrorno,
     e tutti inverso la piazza n’andorno.

176 Era all’entrare un gran borgo di case;
     vero è che tutte son di terra e d’asse:
     di queste ignuna non ve ne rimase
     che ’l gran Morgante non le fracassasse.
     Or pensa a quanti le zucche abbi rase
     prima che tante case rovinasse!
     Di qua, di là la mazza mena tonda:
     dovunque e’ passa ogni cosa rimonda.

177 I cittadini alfin s’accordâr tutti
     che piglin la città sanza contesa,
     pur che non sien da Morgante distrutti:
     e così resta Bambillona presa;
     e fu posto silenzio a molti lutti,
     però ch’egli era già la fiamma accesa,
     e stavano i pagani a veder poco
     che col battaglio morieno e col fuoco.

178 Orlando nel palazzo fu menato
     e posto in una sedia a grande onore,
     e quivi al modo lor fu coronato
     di Bambillona e Soldano e signore;
     e molto il Veglio suo ebbe onorato,
     però che gli portava troppo amore,
     e fecel grande arcaìto in Soria;
     e governava lui la signoria.

179 Un dì ch’a spasso per la terra vanno,
     era salito in su ’n un torrïone,
     come è usanza, un buon talacimanno.
     Disse Morgante: - Udite il corbacchione
     che serra l’uscio ricevuto il danno,
     e viene a ringraziar testé Macone!
     Non domandate come io mi colleppolo
     di farlo venir giù sanza saeppolo. -

180 E detto questo, il battaglio gittava,
     e pose appunto la mira alla testa,
     e pure il corbacchion lassù gridava:
     ecco il battaglio con molta tempesta
     che ’l capo inverso gli orecchi pigliava,
     come Morgante disegnòe, a sesta,
     e mentre che gridava gliele schiaccia,
     e portollo alto più di cento braccia.

181 Or lasciam questi in Bambillona stare,
     e ritorniamo un poco a Monte Albano,
     dov’era Antea, c’ha fatto imprigionare,
     come in altri cantar dicemo, Gano.
     Ma per poter meglio il dir seguitare,
     preghiamo il Ciel ci tenga la sua mano,
     e diren tutto nel cantar futuro.
     Guardivi il figlio di Gioseppo puro.