Mentr'umile m'inchino al tuo gran Nume
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al signor conte
GIO. BATTISTA RONCHI
Che l’invidia non dee temersi, e che la poesia
è sollevamento dell’avverse fortune.
Mentr’umile m’inchino al tuo gran Nume,
O Febo, e di devoti
Incensi io spargo il riverito altare,
De l’innocente cor le non avare
5Preghiere e i casti voti
Seconda tu con fortunato lume:
Ben sai, che non presume
L’alma gran cose, e che fra sè contenta
Mentre poco desia nulla paventa.
10Temerario nocchier che da l’Ispane
Rive sciogliendo i lini
Prende a solcar i procellosi umori,
E vago di mercar gemme e tesori
Ne gl’Indici confini
15Fida l’anima audace a l’onde insane,
Chieda a Nettun che spiane
L’atre tempeste; e perchè Borea leghi
Porga a l’Eolio re sordidi preghi.
E chi servo si fe’ di regia corte
20Prodigo di sè stesso,
E non ha cor che libertate apprezze,
Chiedendo i vani onori e le grandezze
Ond’ei rimanga oppresso
Vittime ambiziose offra a la Sorte.
25Che prò? Gelida morte
Tutti n’agguaglia; e d’Acheronte al guado
Nulla giovano altrui ricchezza o grado.
Deh dammi tu o luminoso arciero
Dolce snodar il canto,
30Dolce accoppiar a l’aurea cetra il plettro;
Quella sia ’l mio tesor, questo il mio scettro:
Pur che d’Aonio vanto
Sia celebre il mio nome altro non chero:
Spiegar fors’anche i’ spero
35Dietro la scorta del Cantor Tebano
Per l’italico ciel volo sovrano.
Io so che di mortal veleno infette
Invidia arrota l’armi,
E che m’assale insidïosa a tergo:
40Ma se Virtù d’adamantino usbergo
Mi cigne, e che può farmi
Importuno livor con sue saette?
Faran le mie vendette
Gli strali istessi; e l’innocenza illesa
45Rilancierà ne l’offensor l’offesa.
Qual volge atro scorpion, se fiamma il chiude,
La coda a’ propri danni,
Tal invidia a sè stessa è rio tormento.
Nè mai di Siracusa o d’Agrigento
50Inventaro i tiranni
Per affligger altrui pene più crude;
Nè la Stigia palude
Ha sì grave martír, che vie maggiore
Nol provi ognora invidïando un core.
55Rota eterna Isione in giro mena,
E con fatiche estreme
Sisifo innalza il sasso, ed ei pur scende:
Tantalo a i pomi, a l’acque i labbri stende.
Ma deluso in sua speme
60Sol morde l’aria e beve l’arsa arena.
Pur questa è lieve pena:
Sol può forse di Tizio il duro scempio
Esser d’invido affetto ombra ed esempio.
Ei di ferree catene avvinto giace,
65E la gran valle inferna
Col busto altier tutta ingombrar rassembra.
Stillan sanguigni umor l’aperte membra;
Mentre ne la più interna
Parte palpita il cor troppo vivace:
70Quivi il rostro vorace
Immerge avidamente augello infame,
Ch’ha in eterna pastura eterna fame.
De le viscere appena ci resta privo,
Che con novi natali
75Nel lacerato sen germoglia altr’esca.
Non piange ei no; stupisce sol che cresca
La materia a’ suoi mali,
E dopo tante morti ancor sia vivo:
Del suo cor redivivo
80Odia i risarcimenti; e sì molesta
Fecondità di duolo invan detesta.
Ronchi, deh tu che fuor del vulgo ignaro
Con generose piante
Stampi le vie di Pindo al ciel vicine,
85Di sacra fronda incoronato il crine
A l’ebano sonante
Marita il plettro, e qui cantiamo al paro.
Tinte di tosco amaro
Le livide pupille Invidia rote,
90Che nostre glorie affascinar non puote.
E se Fortuna rea ch’a l’opre belle
Sempre crudel s’oppose
Voterà contro noi l’empia faretra,
Sia de l’inerme sen scudo la cetra;
95Forze maravigliose
A un armonico suon dieder le stelle.
Fra l’Ionie procelle
Qual corresse Arion mortal periglio
Ascolta, e di stupor inarca il ciglio.
100Carco d’argento e d’ôr, degna mercede
De le musiche corde,
Mentre lieto ei sen torna al greco lito,
Da’ suoi tesori e da i nocchier tradito
Ne le tempeste ingorde
105Già la morte vicina aver si vede:
Quindi supplice chiede
Tanto spazio al morir ch’almen si doglia,
E ’l canto estremo in insu la cetra ei scioglia.
Con la maestra man scorrendo allora,
110Varia ma dolce via
Temprò d’acuto suon le fila aurate;
E qual fa risonar le rive amate
Di flebile armonia
Bel cigno in sul Meandro anzi che mora,
115Tal ei da l’alta prora
Volto agli Dei del mar sciolse i concenti,
E tacquer l’oude e si fermaro i venti.
Poichè ’l mondo, dicea, più fè non serba,
Ne più giustizia ha ’l cielo,
120Che sicuro il peccar concede a’ rei,
Deh! voi del salso regno umidi Dei
Mova a pietoso zelo
L’empio rigor de la mia sorte acerba.
Dunque troncar in erba
125Dovrà morte sì cruda il viver mio?
Misero in che peccai? Che mal fec’io?
Io nè del sangue altrui la terra aspersi,
Nè gli altari spogliai,
Profano involator de’ sacri fregi:
130Sol con plettro innocente avanti a i regi
Dolce lira temprai,
E degne lodi a le grand’alme offersi;
Sol celebrai co’ versi
D’Amor la face e le saette acute:
135Ma se questo è peccar, qual è virtute?
Numi del mar, cortesi Numi ah! voi
Abbonacciate l’onda,
E mi porgete a sì grand’uopo aita;
Che se vostra mercè rimango in vita,
140Farò su l’erma sponda
Ander più d’un’altar d’odori coi.
Tai far gli accenti suoi;
Qui fermò i plettro, e nel ceruleo smalto
Con intrepido cor balzò d’un salto.
145Ma pietoso delfin, che già l’aspetta
In mezzo a l’acque, il dorso
Volontario suppone a si bel peso;
Nè si veloce mai da l’arco leso
Fugge stral, come il corso
150Lo squamoso destrier per l’acque affretta;
Con la salma diletta
Alle spiagge d’Acaia al fin perviene,
E la depone in su l’amiche arene.