Memorie sulla dimora del sig. Cagliostro in Roveredo/XV

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XV.


E poco prima, che gli fosse proibito di medicare, voleva compromettere uno, il quale vendesse un certo suo principal rimedio contro l’epilessia, e vi avea fissato un gran prezzo, dicendo: ho bisogno di ristorarmi dalle disgrazie, che soffersi in Parigi in mezzo alle catene, alle lagrime, e ad ogni sorta di persecuzione. Alcuni poi lo dissuasero, tra se pensando, che tendesse la sua rete, e che sarebbero presi in essa molti uccelletti. E venne un gobbo pregando lui umilmente: Signore, che, come si dice, risani ogni malattia, leva da me questo peso. Girando sopra di lui lo sguardo Cagliostro gli disse: poni sul tuo gobbo una lastra di ferro di quattro libbre, e ogni giorno restavi sotto per lo spazio di sei ore, e il nono giorno non verrà, che la tua gobba sarà smarrita. Era poi presente un certo medico, il quale, dicendo queste cose Cagliostro, faceva cenno a lui col riso. Dopo l’interdetto poi di Cesare non attendeva ad altro, che a ricevere gli amici, ed a milantare le dovizie della sua sapienza. Diceva poi a loro: se qualcheduno non guarì bene dalla peste del malvagio piacere, io senza l’opera d’una donna, [p. 41 modifica]riporto quella ad esso lui, e tosto lo risano radicalmente. Per la qual cosa andate, e divertitevi, se non avete timore dell’anima, ma solo de’ vostri corpi. E tutti gli altri medici per verità curano gl’infermi dalla lue col mercurio: io poi non voglio curare un veleno con un altro veleno, acciocchè scacciato un male, non forsi se ne ecciti da lì a poco un altro più fiero del primo. Quelli poi, che avevano distesi i suoi cerotti, e li avevano provati attestavano, che disse il falso, ed ecco, che la composizione di essi certamente è formata col mercurio. Parimenti si gloriava dicendo: non può nella vescica formarsi un così grande, e così duro calcolo, che in non lo risolva in orina col mio rimedio. Ed uno degli ascoltanti rispose: in qual maniera questa medicina è potente da sciogliere un calcolo quantunque grande, e non pregiudicherà alle viscere, nè le guasterà? Disse Cagliostro: questo è dunque un mio segreto nascosto ai profani. E subito esponeva la virtù di un certo suo antidoto, dicendo: io bevetti spesse volte veleno alla presenza dei miei amici più intimi, fino al livore, ed alla morte, e piangendo essi già, preso il mio antidoto, tosto rinvenni. E incontanente diceva. Udite cosa [p. 42 modifica]accadde nella Città di Pietro, che si chiama il Grande. Il Protomedico, che in allora era in Corte della Regina delle Russie, mi odiava, perchè io discopriva la sua ignoranza, ed entrò in casa mia gridando: vieni e combattiamo colla spada. Io risposi, e gli dissi: se provochi Cagliostro io ti consegnerò ai miei servi per precipitarti dalla finestra; che se provochi me come Medico, io ti risponderò da Medico; e quei intimorito rispose: come Medico. (Imperocchè avevo molta servitù). Allora gli dissi: combattiamo dunque non col ferro, ma colle armi dei Medici. Tu inghiottirai due pillole d’arsenico, che io ti darò: io pure qualunque veleno mi darai lo tranguggierò. Chi di noi due morirà, sarà riputato qual Porco, da quello che sopravviverà. (Imperocchè Cagliostro così era solito di chiamare quelli, che disprezzava.) Ed alcuni riportarono queste cose alla Regina, e mi chiamò a se. E quando fui avanti di lei dissi con risolutezza: Regina, mi permetta di dire il vero: il tuo medico, che facesti ancora Tribuno dei soldati, è un Porco. Ma ella mi persuase di non venire a zuffa con un indegno, e nel medesimo tempo, da lui rivolse il suo sguardo. Parlava poi [p. 43 modifica]diffusamente degli arcani degli Alchimisti, e come egli trasformasse i metalli, e liquefacesse l’oro quasi mercurio, e di nuovo lo consolidasse. Ed udendo Battista fratello di Nicola con altri, disse: quando ero tra Svizzeri in un borgo dei Bernesi, (imperocchè i cittadini Bernesi lo aveano ascritto alla loro cittadinanza, come spesso di questo si milantava) cominciai loro a dire: Uomini dell’Elvezia, osservando i vostri monti perpetuamente coperti dal ghiaccio, e facendovi sopra considerazione, giudicai, che gran quantità d’oro e argento, e cristallo, che si chiama di rocca, nelle viscere di questi si nasconda. Se dunque per dieci anni mi cedete il vantaggio, io scioglierò il ghiaccio, e scaverò quelli a mio rischio. I quali mi risposero dicendo: non vogliamo, che tu perda in ciò il tuo tempo e il tuo denaro. Uno poi degli astanti disse: in qual modo scioglieresti tu quel ghiaccio? Rispose Cagliostro: coll’aceto. Disse Battista a lui, che lo avea interrogato: come fece Annibale nell’Alpi quando entrò nell’Italia. E rivolto a Cagliostro, disse: signore, se alquanto io ne dubito, abbiami per iscusato. Imperocchè forse gli Svizzeri temettero, che sciolto il ghiaccio discendessero le acque, e [p. 44 modifica]precipitose inondassero le loro città. E dopo un po di pausa rispose Cagliostro: molti laghi vi sono nell’Elvezia; in questi io avrei potuto derivare qualunque quantità d’acque. Per divertire poi gli ascoltanti, uscito in altri discorsi, tali cose narrava: avendo io bisogno una Donniciuola, la quale non fosse nè meretrice, nè vergine, nè fosse stata maritata, (imperocchè infiniti casi occorrono ai medici) vedendo una certa giovinetta bella, dissi a lei: io ti prometto una grande fortuna, se sei vergine. La quale rispose, ancor lo sono: dimmi, che vuoi da me? Allora io dissi: anzi ti do un addio; imperocchè non cerco una vergine, ma una, che abbia conosciuto un uomo. Ma ella arrossì, e soggiunse: dissi il falso alla tua presenza, o mio Signore. Imperocchè fui con un tenero giovinetto: fammi arrivare, ti scongiuro, a questa fortuna. E la presi. E tutto il crocchio si divertì con questa frottola. Ricevendo poi lettere da molti, spesso segretamente leggendole, esclamava: che odo io mai? Il Signore opprime i miei nemici, ed esalta gli amici miei. E raccontava ciò con premura alla moglie, la quale colle ondeggianti chiome sul collo, giubbilando, ed esultando empiva di grida festose la casa. Imperocchè era il suo cuore [p. 45 modifica]quasi fiamma di fuoco, e la sua bocca quasi fiume traboccante: e la bellezza di lei nel tempo di sua gioventù avea offuscato tutte l’altre. E queste per verità erano le cose di Cagliostro, che sembrassero principalmente degne da scriversi. Quegli poi, che scriveva queste cose, non mai con lui parlò. Scrisse poi quelle cose, che intese, come le udì, senza odio, e senz’amore, niente in se addottando, e niente assicurando agli altri, ma solamente procurando di conservare la memoria di tutto ciò, che si diceva nella città di questo uomo famoso, e lasciandone il giudizio ad altri. Disse poi taluno al giovine, che scriveva tali cose: non profani tu il Vangelo così scrivendo? Rispose il giovine: non già, imperocchè non mi abuso di ciò, che sta scritto di Dio, e del di lui figlio Signor nostro, nè insieme infarcino le sentenze delle sacre carte, nè stravolgo le parole consecrate a stabilire i sacri Dogmi, pei quali sono pronto a sagrificare la vita; ma mi servo delle parole comuni, e non son ligio d’alcuno. Ogni forma poi di discorso, che risulta da comuni parole, e frasi, riesce comune, abbracciando sì le cose profane, che le sacre; la differenza dunque sta nelle cose: siccome anche con gli stessi [p. 46 modifica]sassi si fanno le case e le chiese, e col medesimo oro le tazze grandi e picciole. E forse che gli Evangelisti non scrivono in egual modo del Dio de’ Santi, e di Simon Mago, e di Teoda? Cosa mi accusi dunque? Disse egli: ma, e perchè adoprasti a preferenza questa maniera di dire? Disse il giovane: perchè non vi è maniera più addattata ad esporre brevemente e chiaramente qualunque cosa, e perchè tal maniera si confaceva a chi era creduto, che volesse tali cose affettare. Imperocchè molti dicono: l’Asino selvatico colle spoglie del Leone. Acciocchè poi sappi, che tal maniera non è usata solo nel Vangelo, leggi Esopo tradotto in latino dal greco, e similmente ciò, che di Esopo è scritto da Planude Bizantino, il quale fu ministro del Signore nella chiesa de’ Santi: le quali cose udite, disse quegli: quanti pochi giudicano dal vero! e si dipartì.