Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XXXIX
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CAPITOLO XXXIX
Terzo uffízio da me fatto verso il flessibile e gentile mio ragionatore
con quel frutto che si vedrá.
La notte era avanzata, né restava altro uffizio da tentare al mio buon desiderio.
Trovai l’ottimo signor Maffei e gli narrai minutamente i miei tentativi ridotti ad un fisico nulla. Lo pregai a dare immediatamente al Gratarol l’esatto riscontro delle mie gettate fatiche, e l’animai ad esortarlo a sofferire con silenzio la recita de’ diciassette inevitabile e ad accertarlo che a’ diciotto né mai piú la mia commedia sarebbe entrata nel teatro: che questo era quanto m’era riuscito di ottenere. Soggiunsi: — S’egli è un uomo d’onore e se non ha una prefissa mala volontá brutale contro di me col suo «ch’io posso» e «ch’io devo» ciò ch’io non devo e non posso, le sue e le mie circostanze notissime devono costringerlo ad essere ragionevole e a ricevere in buona parte e con gratitudine la certezza che le recite della commedia non oltrepassino quella di domani.
Quell’uomo dabbene partí, né tardò molto a ritornare mortificato ed attonito a riferirmi che il Gratarol non aveva data retta alcuna a tutto ciò che gli aveva riferto e detto, e che aveva soltanto replicato con sommo calore ch’egli pretendeva da me che la commedia non entrasse mai piú nel teatro e che «per le sue irrefragabili dimostrazioni poteva io e doveva» servire la sua spettabilitá.
— Egli è a lei obbligato — diss’io al Maffei — che al di lui increato rifiuto de’ miei progetti e all’insistenza audace e minaccevole nelle sue falsissime e non «irrefragabili dimostrazioni», io non l’abbia fatto uscire con risolutezza dal mio albergo di pace, in cui l’uomo d’onore e ben nato non s’introduce con la scorta d’un amico rispettabile, con aria di ragionatore ma in sostanza con quella di sopraffatore e contaminatore della ospitalitá, a pretendere con una petulanza inaudita delle cose che anch’Ella è omai in debito di conoscere a me impossibili. Gl’impazziti sono da me commiserati, ma le follie del Gratarol sarebbero compatibili se non dinotassero un animo di fondo pessimo. Mi pentirei di tutti i penosi uffizi ch’io feci tutt’oggi digiuno e sino a questo momento per un ingrato, se non riflettessi che la di lei persona ch’io amo è stata il movente.
Quest’uomo — proseguii — s’è determinato a voler fare delle nuove violenti solennitá e a cercare delle vendette contro di me, a seconda della sua guasta fantasia, del suo livore mal concepito e d’una lordissima direzione ch’egli crede sublime. Il suo voler me plenipotenziario nel caso in cui siamo non può essere che un ostinato insidiatore pretesto. Il mio caro signor Carlo, il suo ed il mio buon cuore ci hanno imbrogliati tutti due. Lei ha preso a proteggere un furibondo d’inurbano carattere, ben lontano dalla sua ingenua amicizia. Fra poco Ella vedrá coll’esperienza quanto male abbia impiegata la sua amichevole parzialitá.
— Oh cattivo, cattivo! — disse mormorando tra’ denti il Maffei ottuso e mortificato in un modo che mi faceva pietá.
— Conoscerebbe — soggiunsi io commosso piú per lui che per me — qualche persona autorevole e ragionevole che abbia forza sull’animo di quel delirante?
— Questa persona — rispose l’amico — potrebbe essere il signor Francesco Contarini di lui zio. Sembra certo che quello sia il maggior confidente ch’egli abbia. Dovrebbe in vero aver del rispetto per lui, essendo quello che ha tra le mani gli affari piú intrinseci della di lui famiglia ed economia sbilanciata.
— Vorrei avere la fortuna di conoscere cotesto signore — diss’io, — ma non la ho. Se lei lo conosce, mi favorisca d’aprirmi la via. Mi produrrò anche da quello e lo pregherò a voler consigliare e persuadere il nipote ad accettare il possibile riguardo alla riproduzione della non meno scipita che fatale commedia.
Fui favorito in sul fatto la stessa sera dall’amico Maffei. Egli m’introdusse nell’abitazione del signor Francesco Contarini, ch’io non conosceva, nella contrada di Sant’Angelo, che con una civile e cortese affabilitá m’accolse e mi diè adito aperto di favellare.
Esposi con esattezza e ingenuitá a quel buon signore tutto ciò ch’era avvenuto ne’ giorni trascorsi, le pretese che aveva meco il di lui nipote, la circostanza insuperabile in cui era la faccenda della commedia, le esibizioni che aveva fatte al di lui congiunto dal canto mio e rifiutate ostilmente da lui, la assurda plenipotenza ch’egli in me pretendeva sopra a quella de’ tribunali che con le sue mal consigliate direzioni aveva concitati, i miei uffizi, i miei passi, le mie preghiere vane, la dieta di quel giorno. Gli protestai sincero dolore sugli ostacoli invincibili che mi erano opposti nel proccurar di servire al di lui desiderio e alle sue mal appoggiate pretese e false dimostrazioni. Gli spiegai quali e quanti fossero questi ostacoli, quali e quante fossero le negative incontrate. Gli dissi la ingiusta fissazione riguardo a me del signor Pietro Antonio, con quanta asprezza e alterigia ributtava egli ciò che unicamente aveva io potuto ottenere in parola, con quanto indiscreta e strana cervicositá pretendeva ch’io «potessi» e «dovessi» fermare la commedia per la sera susseguente.
Lo pregai infine a consigliarlo e a ridurlo a sorpassare con un contegno pacifico la riproduzione della commedia la sera de’ diciassette in obbedienza de’ tribunali da lui irritati col spropositato strattagemma della finta caduta della comica, notoriamente da lui proccurato in un momento pericoloso e per cozzare co’ tribunali piú gravi, assicurandolo che per le cose ordinate e per le ferme parole ch’io aveva avute, la commedia non si sarebbe piú veduta dopo quella sera.
L’amico Maffei testimonio, appoggiando alla mia esposizione, aggiunse i suoi saggi riflessi e il suo desiderio unissono al mio.
Il signor Francesco Contarini si mostrò persuaso delle mie in vero «irrefragabili dimostrazioni». Vide benissimo che la faccenda non dipendeva in quel caso da me. Si mostrò gentilmente disposto d’uscire in quel momento di casa per andarsene dal nipote, quantunque l’ora fosse tarda e contraria a’ suoi sistemi di vivere, per favorire la mia richiesta; e parve tutto fervore.
Disse però prima di partire: — Signori miei, mi rincresce di dover dir loro una cosa. Abbiamo a fare con una testa la piú balzana e ostinata che esista, né posso assicurarli di nulla. Mio nipote, non si può negare, ha del talento, ma egli s’è creati de’ modi di pensare tanto pellegrini e tanto opposti e discordi coll’aria e colle costituzioni del suo paese, che necessariamente deve farsi de’ nimici e incontrare delle mortificazioni.
Esagerando tuttavia quel buon vecchio sulla disgrazia che correva allora sugli omeri del nipote relativa alla commedia, disse delle cose tanto sensate, con sommessione e con un cosí giusto criterio sopra alcune contraddizioni e sul confronto de’ tempi lontani rozzi e de’ tempi nostri considerati puliti e colti, ch’io mi lusingai ch’egli fosse capace di ridurre il nipote ad aver flemma e ad usare prudenza in quella possibilitá, ch’io aveva esibita sulla parola della dama e sulla ferma promessa del capocomico e ch’era l’unica cosa ch’io potessi esibire in quella circostanza.
Attesi la risposta, coll’amico Maffei, del signor Contarini ad una bottega di caffé nella calle de’ fabbri, detta del «Berizzi», cosí in accordo.
La risposta di quel signore fu molto diversa da quella ch’io sperava di ricevere. Attendeva di dovergli fare un elogio sull’elleboro adoperato da lui sul cervello del suo nipote. Egli venne a dirmi con un sussiego austero, imperioso e differentissimo dal suo contegno cortese di prima, forse dettato o comandato dal suo savio nipote: — Per parte del mio nipote non meno che per parte mia le dico ch’Ella puole e deve fare che la commedia non entri piú nel teatro.
Parvemi di vedere nel signor Contarini quel piffero di montagna che andando per suonare fu suonato.
Soppressi tutto il calore che contro al mio temperamento era per accendersi in me, e risposi mezzo ridendo: — M’attendeva una risposta da lei piú ragionevole. Non è possibile che il Gratarol e lei non intenda che si vuole da me un’impossibilitá. Il suo nipote mi crede o finge di credermi ben cattivo colla sua mente sconvolta. Le chiedo scusa del disturbo che le ho recato unicamente per il bene del suo congiunto. Le replico, non giá per parte mia ma per parte de’ tribunali, che domani a sera infallibilmente anderá in iscena la commedia ch’io non «devo» perché non «posso» trattenere. Mi rincresce, ma la mia volontá non è in ciò computabile. Proccurerò di riconfermare gli ordini perché abbiano fine dopo domani tanti molesti disturbi, tante stomachevoli ciarle e tante stravaganze del suo nipote ch’io non lascerò mai di commiserare. Questo è quanto posso esibire e proccurare dal canto mio.
Il Contarini partí duro duro, appena abbassando il capo.
Rimasto io solo coll’amico Maffei, non ebbi fatica a fargli piú chiaramente comprendere ch’egli s’era impacciato e aveva impacciato me assai male con un insetto fastidioso sopraffattore e di mal talento.
La incivile insistenza, gl’increati rifiuti, la ingratitudine, le audaci inurbane maniere con le quali trattava meco il Gratarol mi facevano presso che pentito d’essermi preso l’impegno che la commedia non oltrepasserebbe la recita del dí diciassette; ma la promessa fatta sulla parola altrui e l’estremo desiderio che aveva di veder terminato e dimenticato un argomento di vergognosi discorsi, mi fece rinnovellare gli uffizi e le preghiere in questo proposito con tutto il calore.
Volli spezialmente e precisamente impegno fermo e immutabile dal capocomico Sacchi che terminata la recita della sera seguente in obbedienza degli ordini rispettabili, si perdesse sino l’idea di fare altre repliche di quell’opera, commettendo alla direzione di quel capocomico di trovare un modo, qualunque fosse, di troncare una tal fangosa seccatura.
Ebbi cotesta sacra solenne ferma parola, che non mi si doveva dare se la mia buona fede correva pericolo o doveva essere tradita e lasciata esposta a delle brutalitá dalle capricciose ingiuste stelle fisse nimiche del Gratarol e niente amiche dell’innocente onor mio.
Parleremo di ciò ne’ seguenti capitoli e sempre colle mie impuntabili testimonianze.