Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XXVIII

Capitolo XXVIII

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CAPITOLO XXVIII

Non crederei ciò che contiene il seguente capitolo,

se non l’avessi veduto.

Nelle dissensioni e nelle divisioni delle famiglie, le amarezze degli animi fanno pensare in un modo che, quantunque da qualche parte deva esistere il torto, tutti gl’individui non solo sostengono d’aver ragione, ma si avvezzano tutti a credere d’averla assolutamente. Io sono in dubbio se abbia avuto ragione di fare quanto feci e quanto ho narrato con ingenuitá.

Sapeva che l’impresa del teatro preso a condurre dalla condiscendenza di mio fratello andava male e prometteva peggio. È certo che per le cose avvenute anteriormente un animo cattivo e vendicativo averebbe provata della compiacenza. Io sentiva del dispiacere, e ciò mi lusingava di non avere un animo cattivo. Quanto piú male andavano le faccende di quella impresa e quanto piú erano prevedute delle stragi da chi se l’aveva addossata, tanto piú si accresceva il livore contro di me, come s’io fossi stato la causa legittima della mal consigliata impresa, ch’era stata da me solennemente colle parole e co’ fatti disapprovata.

Non lasciava di visitare quella famiglia per tener ferma la fraterna armonia, per render conto di quanto operava in vantaggio comune, ma ad onta delle mie dimostrazioni sincere di benevolenza, sempre in vero poco loquaci, mi avvedeva con del rammarico che le ferite lasciate dalle divisioni del patrimonio spruzzavano ancora del sangue.

La minore delle mie sorelle, detta Chiara, mossa forse da delle previsioni infelici, mi pregò un giorno di riceverla appresso noi tre fratelli, e discesi tosto cordialmente alla di lei richiesta. Avrei fatto lo stesso con mia madre e colle altre due sorelle, ma erano ben lontane dall’accettare ciò che aveano prima rifiutato come una gran sciagura. [p. 169 modifica]

Dissi a questa minore sorella che non avendo appresso di me la madre, che essendo mio fratello Francesco per lo piú occupato nell’attendere agl’interessi delle campagne nel Friuli, il fratello Almorò assai ragazzo e obbligato alle sue scuole, io affaccendato tutti i giorni, parte ne’ studi degli avvocati, parte a’ tribunali per sollecitare i molti interessi della famiglia, non era decente ch’ella rimanesse sotto la custodia d’una rozza e stolida fantesca. La pregai a farmi il piacere d’entrare in serbo in un monastero, dove la averessimo mantenuta sino a tanto ch’io avessi fatto cambiare aspetto alle circostanze d’allora, e che la averessimo poscia con maggior decoro accolta, dando tutto il pensiero al di lei stato.

Io non ho sorelle balorde né cattive. Ella convenne agevolmente e tranquillamente colla mia ragionevole richiesta, e fu da noi posta nel monastero di Santa Maria degli Angeli di Pordenone, come fanciulla in diposito.

Chi è soggetto, come era io, alle mire delle lingue iraconde, che cercavano di screditarmi co’ titoli d’ingiusto, d’inumano, di tiranno, le quali m’avevano persino ammogliato senza matrimonio e potevano anche dipingermi un pessimo custode della sorella con delle invenzioni assai peggiori, doveva avere la precauzione ch’io ebbi, quantunque le precauzioni dell’uomo piú cauto della terra non abbiano tutte il buon effetto che dovrebbero avere. Parlo con quella esperienza che coll’andare degli anni ha fornito le mie osservazioni sull’indole de’ cattivi uomini e delle peggiori femmine, co’ quali e colle quali la buona fede, di cui né seppi né saprò mai spogliarmi, non è che un veleno.

Mi doleva estremamente di veder resistere nella famiglia del fratello Gasparo un’amarezza, per le cose avvenute, inestinguibile. A’ modi ch’io teneva, alle visite ch’io faceva, si proccurava di nascondere agli occhi miei il pernizioso rancore che bolliva ne’ seni, ma egli non poté trattenersi di fare uno sfogo pubblicamente con un tentativo mostruoso, ch’io non crederei se non l’avessi veduto.

Andava con frequenza nel carnovale, unito agli altri miei due fratelli, a vedere le comiche rappresentazioni che si facevano [p. 170 modifica]nel teatro in Sant’Angelo di Venezia, preso a condurre dalla cognata piú che da mio fratello. La nostra gita era meno per divertirci che per sostenere al possibile un’impresa in cui vedevamo un fratello sacrificato. Non lasciavamo di pregare la dama Ghellini Balbi a venire con noi, ed ella condiscendeva e si affaticava ad applaudire in teatro alle rappresentazioni piú d’ogn’altro spettatore.

Si era rappresentata in quel teatro una traduzione dal francese della commedia intitolata Esopo alla corte, ed aveva avuta qualche fortuna e per la elegante traduzione di mio fratello e per il suo aspetto di novitá. Era sparsa la voce che si stava traducendo il seguito di quella commedia del medesimo autore francese, opera intitolata Esopo in cittá, e che presto sarebbe stata esposta. Noi eravamo desiderosi di vederla, di sostenerla, e d’un utile avvenimento.

Un onest’uomo, che predicava indistintamente nella famiglia del fratello Gasparo e nella nostra, mi prese un giorno e in gran secretezza e mezzo sbigottito mi disse: — Sappiate che nella commedia tradotta dal francese dell’Esopo in cittá, v’è una scena innestata e non tradotta, nella quale voi, i vostri fratelli Francesco ed Almorò e la dama Ghellini Balbi, siete esposti con de’ modi sanguinosamente satirici in un brutto aspetto agli occhi del pubblico. Non mi nominate, ma maneggiatevi sollecitamente per troncare il disordine, poiché tra cinque giorni la commedia si rappresenta.

Credei facilmente vera la relazione dell’amico, ma mi guardai bene dal dare il menomo segno che gli indicasse la mia credenza. Lo ringraziai dell’avviso zelante, sempre ridendo come di cosa non possibile, e le mie risa cadevano sulla di lui dabbenaggine e sulla sua credula immaginazione, riscaldata da un zelo male a proposito. Il pover’uomo sudava per persuadermi, ma non ebbe dal mio canto che risa, beffeggi e ironici ringraziamenti. Lo piantai lasciandolo collerico sul mio ridere.

Ho religiosamente costudita la mia lingua co’ miei stessi fratelli e colla dama, e mostrai anzi impazienza e desiderio di vedere in iscena la nuova commedia. Entrò finalmente in teatro, [p. 171 modifica]e fummo attenti io, la dama e i fratelli miei a provvedersi d’un palchetto comodo.

Avemmo il rincrescimento di vedere poco concorso in quel teatro, e il rincrescimento di vedere quella commedia progredire languendo. Esopo alla corte, colle sue favolette ad ogni proposito scritte eccellentemente, colla sua figura scrignuta e grottesca, e soprattutto coll’aspetto di novitá della sua rappresentazione, era piaciuto. Esopo in cittá, colle cose medesime, ma che aveva perduta la forza dell’aspetto di novitá, parve un plagio dell’altro, composizione snervata, ed annoiava.

Comparve finalmente la scena d’invenzione aggiunta, rifertami dall’amico.

Una vecchia dama vestita a nero veniva a esporre ad Esopo una lunga narrazione delle sue, da lei chiamate, calamitá. Lo sfogo del suo interminabile racconto conteneva ostinatamente tutte le menzogne che s’erano inventate e dette contro di noi e contro la dama Ghellini Balbi al tempo del bollore delle sopra accennate nostre famigliari dissensioni e divisioni. Quella vecchia dama concludeva ch’era stata scacciata di casa con un suo affettuoso figlio, tre figlie, una nuora e cinque nipotini, da tre propri figli suoi disumanati e sedotti. Terminava piangendo e chiedendo aiuto e consiglio ad Esopo frigio, il quale, con una favoletta stiracchiata, in versi, la commiserava. La vecchia dama vestita a nero era pontualmente la figura della nostra povera madre, la quale, accecata da un acerbetto contro noi e dal mèle della sua predilezione, aveva creduto lecito, e forse aveva esultato, di lasciarsi esporre sopra una scena spettacolo al pubblico.

Quella scena lunghissima, aggiunta senza proposito e per episodio da una privata passione, non intesa dal pubblico, destò de’ sbadigli e fece ancor piú languire quell’opera, la quale non ebbe alcun utile avvenimento.

Durante quell’ingiusto episodio indecentemente maligno, vidi la dama Ghellini Balbi divenir taciturna e turbarsi, e vidi i due miei fratelli accendersi e disporsi a fare de’ gran schiamazzi. Le mie risa sbardellate sopra all’infelice tentativo facevano rabbia, e mio fratello Francesco, pieno d’idee marziali, voleva fare delle [p. 172 modifica]bravate. Egli non faceva altro che farmi ridere ancora piú. Con de’ buoni riflessi consigliai tutti, sempre ridendo, a bere dell’acqua che ammorzasse i loro vapori, e a ristringersi in un inalterabile silenzio.

Fui obbedito. Se si fossero fatti de’ schiamazzi, si averebbe dato assolutamente corpo a un effetto che, per tal contegno, cadde ammorzato da se medesimo senza interessare nessuno, come avverrá alle Memorie della mia vita.

Ebbi poscia della compiacenza d’aver riso a quel mostruoso accidente, massime leggendo Eliano storico, che nelle sue memorie riferisce un avvenimento nel modo che segue:

«Quando (dic’egli) gli attacchi pubblici di dileggio e d’ingiuria assaltano uno spirito coraggioso, si dissipano e spariscono come nebbia al vento; ma se trovano un’anima abbietta superba e vile ad un tratto, la riempiono d’una mestizia e d’una smania che sovente è seguita dalla morte. Ecco una prova. Socrate, posto apertamente in iscena con della satirica malignitá da Aristofane poeta comico, non fece che ridere saporitamente. Poliagro, nel caso medesimo di Socrate, divenne furente e s’è impiccato».

Anche la commedia d’Esopo in cittá, col suo episodio inaspettato ed aggiunto, fu un buon libretto alle osservazioni anotomiche sull’intelletto e sul cuore umano. Ciò ch’ebbi forza di non voler credere mai, fu che mio fratello Gasparo avesse parte colla sua penna e coll’animo suo nel sopra accennato episodio, ch’io lascio in libertá i miei lettori di epitetare con degli epiteti piú caricati de’ miei.