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CAPITOLO XXVIII

Non crederei ciò che contiene il seguente capitolo,

se non l’avessi veduto.

Nelle dissensioni e nelle divisioni delle famiglie, le amarezze degli animi fanno pensare in un modo che, quantunque da qualche parte deva esistere il torto, tutti gl’individui non solo sostengono d’aver ragione, ma si avvezzano tutti a credere d’averla assolutamente. Io sono in dubbio se abbia avuto ragione di fare quanto feci e quanto ho narrato con ingenuitá.

Sapeva che l’impresa del teatro preso a condurre dalla condiscendenza di mio fratello andava male e prometteva peggio. È certo che per le cose avvenute anteriormente un animo cattivo e vendicativo averebbe provata della compiacenza. Io sentiva del dispiacere, e ciò mi lusingava di non avere un animo cattivo. Quanto piú male andavano le faccende di quella impresa e quanto piú erano prevedute delle stragi da chi se l’aveva addossata, tanto piú si accresceva il livore contro di me, come s’io fossi stato la causa legittima della mal consigliata impresa, ch’era stata da me solennemente colle parole e co’ fatti disapprovata.

Non lasciava di visitare quella famiglia per tener ferma la fraterna armonia, per render conto di quanto operava in vantaggio comune, ma ad onta delle mie dimostrazioni sincere di benevolenza, sempre in vero poco loquaci, mi avvedeva con del rammarico che le ferite lasciate dalle divisioni del patrimonio spruzzavano ancora del sangue.

La minore delle mie sorelle, detta Chiara, mossa forse da delle previsioni infelici, mi pregò un giorno di riceverla appresso noi tre fratelli, e discesi tosto cordialmente alla di lei richiesta. Avrei fatto lo stesso con mia madre e colle altre due sorelle, ma erano ben lontane dall’accettare ciò che aveano prima rifiutato come una gran sciagura.