Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XXVI

Capitolo XXVI

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CAPITOLO XXVI

Avvenimento serio.

Era un gran tempo ch’io non visitava il senatore mio zio materno, Almorò Cesare Tiepolo. M’ideava che mia madre e delle altre persone a lei attinenti, le quali non perdevano di vista quel buon vecchio e lo coltivavano con di quelle mire ch’io non ebbi e non avrò mai, accese da quelle ragioni che credevano d’avere, m’avessero fatto un apparecchio odioso a lor modo appresso di lui; ed io non voleva sentire ingiuste mortificazioni, né affaticarmi a giustificare la mia innocenza, massime perché non avrei potuto ciò fare senza accuse verso a degli oggetti che internamente rispettava ed amava.

Oltre a che lo sdegnare di perdere del tempo e delle parole sul giustificarmi fu sempre uno de’ molti difetti del mio carattere, aveva rilevato colle mie indefesse osservazioni sull’uomo, che i veneti patrizi, giustissimi e scevri d’ogni passione nel giudicare, sedenti a’ tribunali, sulle ragioni altrui disputate e udite con estensione, erano privatamente molto suscettibili alla commozione sulle prime esposizioni che venivano fatte loro nelle lor case, e molto difficili da esser svolti da una prima impressione.

Ho sempre giudicato che ciò nasca da un buon animo, sdegnoso di udir l’oppressione benché palliata, e che i Grandi della nostra repubblica sieno veramente adorabili per mille doti de’ cuori loro, anche con questo privato accidentale sentimento.

Per la mia taciturnitá, per il mio vivere il piú del tempo solitario, per le mie scarsissime ufficiositá del costume viziato, per il mio non chiedere e non voler niente dalla fortuna, e per il mio libero scrivere, potrei avere de’ nimici terribili, se si degnassero di abbassare lo sguardo ad una persona non considerabile come son io. [p. 161 modifica]

Oppresso da un’idrope nel petto e ridotto presso alla morte, il mio saggio e buon zio materno mi fece sapere che voleva vedermi. V’andai immediatamente, ed egli mi fece sedere vicino al suo letto.

Si lagnò soavemente perch’io non mi fossi da lui lasciato vedere da un tempo sí lungo. Gli risposi con ingenuitá che il timore ch’egli fosse stato mal impresso contro di me senza punto di veritá, e quello delle sue collere, che m’erano state partecipate forse perché non me gli appressassi, m’avevano trattenuto.

— Se mi fossi lagnato — diss’egli — che mia sorella e vostra madre fosse stata offesa e trattata con della ostilitá, ciò non doveva troncare le vostre visite.

— Vedo — risposi — avverato il fondamento de’ miei dubbi e della mia trepidazione. Non credo questo — soggiunsi — il momento di disturbarla con delle lunghe storie di giustificazione. Desidero la di lei salute, per suo e per mio vantaggio. Ho tutto cercato, anche sovvertendo il mio carattere pacifico, per impedire divisioni e dissidi. Sono certo che alla sua guarigione, ch’io bramo con tutto lo spirito, ella resterá persuaso ch’io non offesi e non usai ostilitá alcuna a nessuno, e ch’io sono soltanto in traccia di far del bene a tutti, coll’intero spoglio del mio particolare interesse e ponendo me stesso sotto al giogo d’enormi applicazioni e fatiche, non che di perigli.

Egli era giusto, saggio, filosofo e infermo, e nulla piú mi rispose. Io replicai le mie visite giornaliere e fui assicurato che quel venerabile vecchio aveva detto alla sua sorella mia madre: — Credetemi che Carlo vostro figliuolo è un buon giovine.

La di lui malattia crebbe sempre, ed io m’avvidi, dalle persone ch’egli faceva stimolare perché andassero a lui, che, prevedendo egli la sua morte, cercava una riconciliazione con tutti i suoi conoscenti i quali potessero sospettare ch’egli avesse qualche sentimento di livore contro di essi.

Assistito spiritualmente da certo frate Bernardo degl’Ingesuati, che in quel tempo passava per un dotto regolare, si faceva leggere di quando in quando de’ passi delle sacre pagine, e [p. 162 modifica]mostrava tanta indifferenza in sulla morte, che mosse quel frate a dirgli: — Non vorrei ch’ella s’inducesse a morire un po’ troppo filosofo.

Quantunque egli avesse occupati a’ suoi giorni de’ posti ragguardevoli nella repubblica, e specialmente quello dell’eccelso Consiglio de’ Dieci molte volte, non fu mai udito dire in quella mortale infermitá la menoma parola che avesse relazione a’ tribunali o al governo.

Siccome egli era stato per tutto il tempo della sua vita vago d’avere de’ commensali e di vedersi innanzi la mensa imbandita di buoni cibi, e particolarmente de’ pesci piú ricercati, anche vicino alla morte, bevendo soltanto qualche cucchiaio di que’ brodetti che si sogliono dare a’ moribondi, voleva la mensa parata per gli altri come prima, e chiamava a sé ogni giorno un suo gondoliere, facendosi narrare di quali bei pesci quel giorno era fornita la pescheria. Sulla narrazione del gondoliere faceva delle lodi e de’ biasimi, e per la stagione opportuna o inopportuna e sulla qualitá de’ pesci che gli erano nominati e sulle acque nelle quali erano stati presi. Passava quindi a de’ ferventi atti di contrizione, a de’ colloqui sensati col religioso di lui assistente, a delle preci con sommo raccoglimento. Devo attestare ch’egli è spirato da grand’uomo, filosoficamente cristiano, e che il suo esempio ha impressa in me la brama d’imitare il suo fine.

La virtú della pazienza fu da lui posseduta al grado maggiore, e nessuno lo vide alterarsi per nessuna aspra vicenda a lui relativa. Per dare un saggio solo di questa sua imperterrita virtú, narro un successo avvenutogli alcuni anni prima del suo morire.

Nel sbarcare una sera dalla sua gondola, incespicò nella veste larga e lunga patrizia, e fu per cadere nell’acqua. Il gondoliere, per prenderlo e per impedire la caduta, lasciò il remo che aveva nelle mani, il qual remo, cadendo con impeto sopra al destro braccio del padrone, glielo spezzò. Il gondoliere non s’avvide del fatto. Il padrone s’avvide bene, ma non disse verbo. Salí le scale e, giunto alle sue stanze, il cameriere se gli avvicinò traendogli la veste al solito. Egli disse soltanto con imperturbabilitá: [p. 163 modifica]— Tira un po’ adagio, perché il mio braccio destro è in due lezzi. — Il romore de’ famigliari che lo amavano fu grande. Il gondoliere corse amaramente piangendo e chiedendogli perdonanza. Egli calmava tutti e disse al gondoliere: — Mi facesti un male per farmi un bene. Qual colpa hai tu da chiedermi perdono? — Soggiacque a stare quaranta giorni nel letto, sempre nella stessa positura ordinatagli dal chirurgo, senza mai dire una sillaba che dinotasse la menoma impazienza. Potrei narrare una serie di questi suoi tratti, che non avrebbero a far nulla colle Memorie della mia vita.

Fui veduto penetrato dalla sua morte, e mi si avvicinò un certo signor Giovannantonio Gusèo, solito a fare il notaio, l’agrimensore, l’avvocato, il cancelliere ed il giudice in alcune iurisdizioni del Friuli, uomo conosciuto per piú artificioso del greco antico Sinnone, ch’era aderente e consigliere della moglie di mio fratello, che aveva data mano e rogati ne’ suoi protocolli molti istrumenti di alienazioni del nostro innocente patrimonio fideicommisso, e mi suggerí, in via di ricordo zelante, di contribuire alla mia madre, oltre alla sua dote, dieci sacca di farina e due botti di vino, ché mi sarei fatto, diceva egli, un grandissimo onore.

Conobbi la sede da cui partiva questo inviato e notai la ingegnosa accuratezza che lo inviava cogliendo un momento che pareva opportuno a sedurmi. Tali astuzie furono sempre per me un fastidio, e passando dalla mestizia al sussiego, risposi al messaggere Gusèo: che giudicava una scelta d’infelice cieca predilezione quella della madre di stare colla famiglia di mio fratello Gasparo; che la casa mia era anche abitazione di mia madre qualora avesse voluto accettarla; che in questa ella sarebbe riverita ed amata da tre rispettosi figli; che avrebbe avuto il suo trattamento e goduto il prodotto della sua dote; che rifiutando la nostra esibizione non faceva che farci un insulto; che accettandola faceva un bene al fratello Gasparo, col diminuire il numero della di lui famiglia; che gl’impegni miei di dover pagare un ammasso di debiti, di riparare a’ stabili ridotti alla diroccazione, e di svincolare dalle catene molti capitali [p. 164 modifica]fideicommissi dispersi, non mi permettevano di snervare le forze ch’erano anche di troppo intisichite.

Questa mia risposta rinverdí la ciarliera falsa conchiusione ch’io era un vero Falaride.

Perché il lucroso reggimento del Zante e gli altri uffizi sostenuti non avevano punto accresciute le facoltá dell’illibato defunto mio buon zio senatore Tiepolo, nel testamento ch’egli fece ordinò che fossero pagati tutti i di lui debiti, facendo registrare in esso testamento l’onorato catalogo de’ suoi creditori. Del resto egli lasciava erede una sua sorella appellata Girolama, vita di lei durante; indi sostituiva erede mia madre.

Questa ebbe in quella funesta occasione parte d’alcuni beni nel Friuli d’una vecchia sua zia Tiepolo, morta ab intestato, i quali, uniti alla sua dote, potevano formare il sufficiente suo mantenimento.

Io fui sempre il di lei sesto dito, tagliato dalle sue mani senza alcun suo dolore. Ella era padrona di disporre della sua predilezione e di tenere aperto il suo tenero cuore per chi possedeva la grazia sua. Ebbi il dispiacere di non possederla senza invidiare chi la possedeva, e posso assicurare il mio paziente lettore che il maggior dispiacere ch’io abbia avuto riguardo a mia madre fu quello di vederla sempre senza un ducato da spendere a modo suo, anche allorquando giunse a possedere tutta la facoltá di quella famiglia Tiepolo estinta, dopo la morte della sua sorella Girolama, che lasciò de’ mobili e molti danari istituendola erede di tutto, unita a mio fratello Gasparo ed a’ di lui figli.