Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XXIV
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CAPITOLO XXIV
Buon volere tragiversato. Liti attive incominciate.
Studio sul ceto forense.
Sarei stato assai sciocco, se avessi avuta lusinga che le divisioni seguite e le disposizioni firmate conducessero la colomba col ramo dell’olivo nel becco. Aveva giá parato l’animo ad una infinitá di disturbi ed a immollare di sudore piú camicie che non aveva nell’armaio.
Le divisioni avevano sottratte da una irregolare amministrazione tre quarte parti del patrimonio, ma avevano lasciata una asprezza negli animi della famiglia del fratello Gasparo presso che inestinguibile.
Volli por mano nell’archivietto delle scritture della casa, per impossessarmi de’ lumi e delle ragioni comuni in sui fideicommissi alienati e dispersi. Trovai che tutte quelle scritture erano state dispettosamente vendute, non so da chi, e mi fu additato soltanto da una fante, in gran secretezza, qual pizzicagnolo le aveva comperate a peso.
Corsi da quel vendisalsiccia, e fui solo a tempo di ricuperare a buon patto alcuni sommari e alcuni testamenti che non avevano ancora involto prosciutto. Non ho colpa se questo tragico accidente, di tanta conseguenza che doveva far piangere, fece in me un effetto contrario.
Cercando lumi da’ lumi, razzolando ne’ scrittoi degli avvocati, de’ notai, de’ pubblici archivi colla scorta di vecchi sommari, fui indefesso a segno di porre in assetto piú di ottanta gran processi di scritture, in gran parte copiati dalla mia penna, come può vedere chi vive e potrá vedere chi resta dopo la mia morte nelle canzerie del mio albergo. Studiai le mie ragioni e m’apparecchiai a proporle sotto al parere de’ giudici.
Fu quello il tempo ch’io conobbi il signor Antonio Testa causidico, uomo meritamente reso celebre, e nato per sostenere con sommo valore la sua professione. Lo scelsi per difensore e mi scagliai senza gran volontá nelle guerre sostenute per lo piú dal cavillo, che mi tennero occupatissimo ben diciott’anni, ne’ quali ebbi occasione di studiare l’umanitá che popola le sale del gran Palazzo e i sistemi delle battaglie che ivi si fanno.
Gl’invecchiati abusi introdotti e in ogni etá corsi con maggior raffinamento da un esercito di forensi, la maggior parte di mente sottile e non tutti d’animo retto, hanno formato un sistema, nella direzione del piatire, quanto falso altrettanto solido e non separabile dalla sua falsitá. De’ sensi oscuri e mutilati, delle proposizioni oracoli nelle contestazioni, degli atti preliminari, non sono che reti reciproche tese con delle viste di far imbrogliare e cadere in un disordine di direzione; e delle dispute ingegnosissime di prove bistorte e sui crudeli effetti de’ giudizi che sono per nascere, sovente fanno trionfare il torto e rendono la ragione sfregiata, abbattuta e talora indigente, a segno che si rimane cadavere colle vesti del torto.
Non credo, né si deve credere, che ci sieno stati o ci sieno alcuni giudici poco dotti, poco illuminati e incapaci di giudicare le controversie. Se ciò fosse, potrebbesi temere che la penetrazione degli acuti e audaci causidici avesse, pro tempore, tutto arrischiato, cogliendo de’ vantaggi da questa sciagura, e che questa sciagura avesse parte col falso sistema stabilito e fissato.
Questo sistema, da cui non possono uscire né gli onorati né gl’inonesti causidici negli assalti e nelle difese de’ loro clienti, ha una cert’aria di maligno, di cavilloso, di sopraffattore, d’ingannatore, d’astuto e d’oppressore, che rende, con ingiustizia, soggetti alla satira tutti i forensi generalmente.
Un filosofo scrittore francese, esaminando il ceto forense della sua nazione, considera, con un tratto satirico sanguinoso, la ragione per la quale i principi soffrono ne’ loro stati questo genere di persone.
Se queste menti sublimi, sottili e inquietissime, nodrite dalla lor bália Discordia — dic’egli — non fossero occupate e non si sfogassero nel distruggere lo stato delle private famiglie, non potrebbero tenere a freno la loro inquietezza torbida, spiritata ed attiva, e susciterebbero delle turbolenze, delle ribellioni e delle insidie a’ principati.
Se le satire valessero a regolare i sistemi ed i strattagemmi perniciosi, sarebbero meglio impiegate che co’ causidici, co’ marescialli delle armate, i quali ne’ loro sistemi e strattagemmi sono piú valenti e piú celebrati quanto piú sanno distruggere senza pietá de’ loro simili. Viva l’umanitá!
Non sia chi mi rimproveri d’aver scritte anch’io delle satirette sulla milizia forense. Rispondo che le composi sui loro sistemi e sopra alcuni caratteri generali della lor professione soltanto.
Ne’ studi d’osservazione ch’io feci sopra a tutti i gradi dell’uman genere, in diciott’anni ch’ebbi il fastidio necessario de’ litigi in pro della mia famiglia, e che mi tenne stretto a’ tribunali, sono debitore d’una perfetta conoscenza del nostro ceto causidico.
Ho ritrovato ne’ miei principali difensori avvocati signori Andrea Svario, Carlo Cordellina, Federico Todeschini, Francesco Massarini, Antonio Lorenzoni, Conti Francesco e Cesare, padre e figlio Santonini, e conte Giuseppe Alcaini, nel loro sistema forense, un’eloquenza e un fervore d’animo mirabile e fuori dal loro sistema, infinita urbanitá, cordialitá, prudenza e disinteressatezza. Parlo degli avvocati del tempo de’ miei litigi, né dubiterei di non trovare le medesime qualitá ne’ signori Tommaso Galino, Giovan Battista Cromer miei amicissimi, e in tanti altri luminosi in questi ultimi tempi, se fossi in necessitá di piatire, da che Dio mi salvi.
Non posso accusare i forensi che mi furono avversari, perché gli conobbi soltanto come nimici e nel loro necessario cattivo sistema.
Parmi di poter assicurare il mio prossimo che la povertá, la voluttá, il lusso ed i vizi, non fanno peggiori effetti ne’ causidici, di quelli che fanno nelle famiglie lontane affatto dalla professione forense.
Il signor Testa, penetrato dalle mie circostanze e dal mio buon volere, mi si fece amichevole direttore e difensore. Non volle da me giammai quelle mercedi che sono dovute alle applicazioni ed a’ passi de’ suoi pari, chiamando insulti le mie esibizioni, e non fece talora difficoltá ad aprire la sua borsa nelle mie ristrettezze e ne’ miei conflitti.
Non ho mai conosciuto un forense piú veloce di lui a comprendere le ragioni e le obbiezioni, né il piú rapido a fare un fruttuoso esame d’un promontorio di scritture, né il piú penetrativo a pronosticare dell’esito d’una lite e a conoscere la mente, l’animo e l’equitá de’ nostri giudici.
Nella sua professione ognora in battaglia, egli non può avere nimici che degl’invidiosi de’ molti beni ch’egli s’è guadagnati co’ suoi sudori, degli avidi che non possono usurpargli le sue sostanze, e degli avversi fugati dalla sua abilitá.
Il tempo, le mie e le di lui circostanze, le sue occupazioni che si accrebbero sempremai, hanno scemata tra lui e me una pratica ch’era giornaliera e famigliare; ma niente potrá in me diminuire un sentimento di gratitudine, che conserverò sempre verso ad un uomo riparatore alle desolazioni e miglioratore dello stato della mia famiglia.
Incamminate le mie molte giuste pretese di comun giovamento a’ tribunali della giustizia, non tralasciai di visitare tratto tratto mia madre e la famiglia di mio fratello Gasparo, allora occupato colla moglie a innestare e a tradurre delle poetiche fantasie teatrali per la comica compagnia e per quel teatro da lui preso a condurre, e che doveva arricchirlo.
Alle mie visite, ingenue e cordiali dal canto mio, la madre mi chiedeva qualche picciola somma di danaio a prestanza con sostenutezza materna, ch’entro al possibile non le negava, scordandomi di chiedere la restituzione. La cognata si sforzava a caricarmi di qualche affettata adulazione. Le sorelle mi guardavano con occhio di vero affetto, rattenuto da non so qual soggezione, e il fratello m’accettava come un filosofo che non si cura di veder nessuno mal volentieri.