Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XIX

Capitolo XIX

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CAPITOLO XIX

Miei placidi tentativi inutili. Frivole mie osservazioni filosofiche morali.

Apparato di ardentissime dissensioni famigliari.

Il La Bruyère scrisse una veritá innegabile, scriendo che, quando gli abusi e i pregiudizi sono introdotti e invecchiati in uno stato, il tentare di levargli non è che un frugare in una cloaca e innalzare un puzzo che incomoda maggiormente.

Una famiglia numerosa non è uno stato, ma è una piccola repubblica in cui, se gli abusi e i pregiudizi si sono introdotti e inveterati, il voler troncarli riesce il frugare nella cloaca detta dal La Bruyère.

Siccome una gran parte delle Memorie che scrivo della mia vita sono relative alle fatiche da me fatte invano per redimere la mia famiglia, mi trovo in necessitá di far de’ racconti senza speranza che possano interessare chi gli legge. Nondimeno, quelli che averanno la sofferenza di leggerli anche sbadigliando, troveranno uno specchio che può animarli a invigilare ed a troncare i principi e gli abusi tra le pareti loro, per non ridursi a frugare con inutilitá e ammorbando, nella cloaca del La Bruyère.

Appena spirato mio padre, la signora cognata, che si mostrava attiva, affaccendata, uscí dalla stanza lugubre e pretese di consolare gli addolorati figliuoli e figliuole, assicurandoli con una efficace asserzione che il defunto era il piú bel morto che si fosse veduto. Questa inaspettata asserzione, che non aveva niente d’umano né di morale né di filosofico, e ch’ella replicava e affermava con de’ giuramenti per consolarci, mi fece e mi fa ancora tanta rabbia, che mi rincrescerebbe persino che alcuni de’ miei lettori ridessero nel leggerla.

Tra i pianti, i deliqui e gli acerbi pensieri, ve n’era uno funestissimo. Dovrò dirlo? Non v’era modo, né di che fare, né credito da poter fare un dovuto onore funebre ad un cadavere [p. 128 modifica]tanto rispettabile. Parole assai, ma nessun fatto dagli amici casalinghi. Questa dura circostanza dica in quale stato rimase la nostra famiglia alla morte d’un onorato, ottimo, ma indolente padre.

Io era persona nuova e non aveva altro amico che il signor Massimo, ch’era creditore e malignato da’ miei congiunti. Il mio dolore mi suggerí a scrivere in sul fatto una lettera a cotesto vero amico, dandogli notizia de’ casi funesti ed oscuri, e chiedendogli qualche soccorso. Ho spedito colla lettera a Padova un uomo fidato, commettendogli d’attendere la risposta.

L’amico cordiale, anche col consenso del di lui padre e con tutta la sollecitudine, mi spedí una somma di danaio che sorpassava il bisogno d’un modesto funerale e de’ suoi accessòri.

Quand’ebbi ricevuti i danari credei bene il fare una di quelle azioni che dovrebbero fare un buon effetto sugli animi, ma che per lo piú lasciano gli animi come erano prima. Chiamai mio fratello Gasparo in secreto, che era assai turbato ed afflitto. Gli consegnai nelle sue mani il gruppo del danaio che m’era giunto liberamente. Gli dissi da qual parte veniva. Espressi ch’io non mi considerava né padrone né precettore; ch’egli era il fratello maggiore, e ch’io voleva riconoscerlo per capo della famiglia; che averei coadiuvato agli affari per quanto avessi potuto; ch’egli aveva cinque figliuoli; che la casa era in quel disordine che poteva vedere; ch’era suo principal debito il pigliare le redini maschilmente del governo e della direzione, levandolo dalle mani a chi aveva condotta la casa ad un totale naufragio; che quello era il vero tempo di far ciò; e lo pregai con tutta la cordialitá a dar retta alle mie preghiere ed a’ miei ricordi.

Egli accolse il danaio ed il mio discorso come un uomo che ha quel buon animo e quell’intelletto che non se gli può negare. Mi disse che vedeva pur troppo la necessitá di porsi alla testa d’una amministrazione disordinata, per riordinarla con una maschia costanza; che qualche rendita maggiore, che si accresceva de’ contratti di vendite vitalizie ch’erano estinti colla mancanza del povero nostro padre, aggiungeva nerbo e agevolava la possibilitá; ch’era disposto ad abbandonare delle applicazioni non intese e non premiate in Italia, per attendere con [p. 129 modifica]maturitá e fermezza a regolare e ad amministrare le cose domestiche.

Non mi lusingai giá che questo buon avvenimento succedesse. Sapeva ch’era impossibile il far cambiare natura e difficile il far cambiare carattere. Conosceva il genio faccendiere, dominatore, inquieto ed acceso della di lui consorte; il di lui naturale pacifico, non atto ad opporsi, la passione predominante ch’egli aveva per lo studio delle belle lettere; ma credei necessario il fare il sopra accennato passo, per scemare al possibile la generale cattiva impressione di me, ch’era stata seminata nelle numerose teste della famiglia.

Non ebbi cuore d’esser presente a’ funebri uffizi e mi chiusi nel mio stanzino, dove fui per tre giorni e tre notti, poco moderno filosofo, a sfogare il mio pianto, non scevro da qualche puntura rimorditrice d’aver contribuito ad accelerare innocentemente la morte dell’adorato mio padre.

Non ci voleva meno della detta tragedia, perché il contratto del signor Francesco Zini mercante cadesse in nonnulla.

Lo scrivere i susseguenti successi della mia famiglia mi dá qualche ribrezzo. Vorrei poterli dire senza che in essi apparisse una specie di censura involontaria sopra alcuni de’ miei congiunti e una specie di vantaggiosa pittura di me.

La veritá si deve dire, ma protesto altresí ch’è anche una veritá ch’io ebbi sempre del dolore degli errori degli altri, contemplando il danno che cagionavano loro, e che non ebbi giammai né il piacere della vendetta né il sentimento dell’ambizione per quel bene che feci alla mia famiglia, se pur è vero che le abbia fatto del bene. Ciò si potrá giudicare dal seguito delle mie Memorie.

Le dissensioni nelle numerose famiglie di fratelli, sorelle, madri e cognate, producono le maggiori cagioni di far durevoli gli errori. Ogni persona di quella invasata societá conosce perfettamente per pratica il debile dell’altra persona e sa pungere crudelmente sul vivo.

Le menti irritate e guercie vedono gli oggetti a rovescio, e i partigiani e gli adulatori aggiungono zolfo ad un fuoco che [p. 130 modifica]fa comparire ragioni da essere compiante, de’ torti da essere corretti. Il zelo è interpretato per insidia e per tirannia, e non v’è protesta o sano argomento che persuada. La miseria di questa specie d’inferno è tanto feroce, che la ragione è accecata e il libero arbitrio non si riduce a conoscere il vero che dopo una lunga serie d’anni infelici e quando le armi della vendetta sono stanche e spuntate da mille sofferenze, dalla ingenuitá, e da’ benefici disinteressati degl’innocenti. Chi condanna i movimenti d’una famiglia che arde nella dissensione può anche condannare le azioni de’ sonnambuli allor che agiscono dormendo.

Quantunque nella nostra fratellanza non ci sia esempio che si usassero moine o baci o abbracciamenti tra noi, l’affetto e l’amicizia erano reciprochi e universali; ma de’ spiritelli capaci di cagionare delle dissensioni s’erano introdotti ne’ cerebri.

Mi restava una madre, tre fratelli, tre sorelle e la cognata, l’indole accesa, arrischiata e vendicativa della quale, unita al suo saper colorire le cose a modo suo e al predominio che aveva sugli animi, cagionava il maggiore de’ miei timori.

Sotto l’ombra dell’infermo mio padre tutti erano stati padroni, o, per meglio dire, nessuno aveva veduto il vero capo della casa e nessuno aveva appreso ad essere buon figlio di famiglia, né conosciuta la regolare necessaria subordinazione.

Tutti avevano i loro impegni, i loro debiti separati, e soprattutto le loro passioni come ha tutta l’umanitá, ma la umanitá de’ miei famigliari parenti non era povera di spirito né d’intelletto, e senza un vero principale che desse loro una salutar soggezione, l’amor proprio e le passioni avevano fatti di tutti gl’individui tanti politici agenti per lor medesimi e disertori da quella sola linea, il cooperare dietro la quale forma il buon ordine d’una famigliare condotta e d’una decorosa sussistenza.

Aggiungasi che l’epidemico genio della poesia, impossessato di tutti i cervelli della famiglia, dava al pensare ed al riflettere universale un non so che di romanzesco. Ognuno s’era ordita una tela per se stesso, e ognuno aveva delle mire e degl’idoletti fuori dal vero culto. [p. 131 modifica]

Per una lunga serie d’anni non erano stati tenuti registri, né delle rendite né delle vendite fatte de’ capitali, e tutti avevano ragione negando d’essere stati amministratori.

In questo stato di cose la morte d’un padre lascia una famiglia esposta ad una irreparabile guerra intestina e suscettibilissima a’ piú accesi argomenti di dissensione.

Sarei indiscreto e inumano se per le cose avvenute dopo la morte del padre accusassi madre, fratelli, sorelle, cognata, tutti di buone viscere, ma tutti riscaldati i cervelli da’ sistemi sino a quel punto tenuti e da un certo costume addormentato sopra ad una consuetudine diretta dall’ingannato amor proprio.

Un giovane solo nel mezzo a tanti, di poco piú di vent’anni e piú pensatore che favellatore, con un’aria marziale appresa, che cercava di piantare delle nuove regole e di levare de’ domini, accendeva l’irascibile e apriva l’adito a de’ sospetti di sopraffazione e di tirannia.

I riscaldamenti delle fantasie offuscano la ragione e sono infermitá. Le infermitá non sono condannabili, e il mio esterno, di cui si avrá l’immagine esattissima nel ritratto che darò di me stesso, aveva forse di que’ difetti che possono far sospettare con delle false ma scusabili conghietture.

Mia madre, nel mezzo alle sue afflizioni per la recente mancanza del marito, non lasciava di proporre il pagamento della sua dote, benché tenuissima, come una persona che si crede vicina a naufragare e in necessitá di cercare uno schifo per salvarsi.

La cognata si mostrava al solito necessaria, faccendiera, e i sensali e gli ebrei e le femminette da servigi non scemavano le loro visite.

Le sorelle erano sempre in confabulazioni secrete tra loro e colla cognata, che prometteva loro mariti e dotazioni.

Dopo tutte le sue proteste caldissime di prendere il freno del governo, mio fratello Gasparo aveva in sul momento medesimo consegnati alla moglie i danari giunti da Padova, tratta qualche moneta per il suo borsellino, ond’ella potesse disporre a talento, e legatissimo a’ studi suoi ed a’ consueti suoi pacifici e geniali modi di vivere, non mostrava alcun segno di padronanza. [p. 132 modifica]

Erano scorsi da venti giorni dopo la morte di mio padre, quando fui chiamato ad un serio congresso del fratello maggiore, della madre e della cognata. Sedemmo sopra quattro sedie impagliate e rotte, e la cognata propose, con un viso che spirava importanza e maturitá, che bisognava pensare a risarcire il signor Massimo de’ suoi crediti (si noti la tentazione all’animo mio per sedurlo), e che anche per altre necessitá era da vendere nuovamente per mille dugento ducati la casa ricuperata per la morte del padre, posta sopra alla nostra abitazione, sulle vite di noi quattro fratelli; che il compratore era pronto (forse era il signor Francesco Zini); che con quella somma si sarebbero posti gl’interessi in assetto, i quali con una buona pianta di governo sarebbero poscia andati divinamente. Mia madre battendo le palpebre lodava la bella idea. Mio fratello la confermava come una cosa indispensabile. Tutti guardavano me, attendendo il consenso al divino trovato.

Non comprendeva come la madre e la cognata entrassero in quel congresso, e come il fratello, che aveva accettato il governo e la padronanza con un animo tanto risoluto, non si vergognasse a fare una tal comparsa e ad aderire con tanta facilitá alle proposizioni e a’ trattati della moglie.

Vidi aperto un inferno di dissensioni e mi contentai di rispondere con la flemma possibile: che quanto al signor Massimo, conosceva di quanta amichevole sofferenza era capace per l’impotenza d’un amico sincero e di buona volontá, e ch’io non era persuaso della proposta vendita vitalizia; che ciò mi sembrava una progressione de’ metodi rovinosi; che piuttosto averei affittato il nostro albergo, facendo passare per qualche tempo la famiglia in economia alla villa, dove si viveva molto bene con due terzi meno di spesa, e ciò sino a tanto che fossero pagati i debiti incontrati e che gl’interessi della casa fossero un po’ meglio piantati.

Questa mia scandalosa risposta, che feriva con molte saette il genio e l’amor proprio di tutti, mi fece nuovamente guardare come un Dionisio tiranno. Alcuni secreti bisbigli facevano di giorno in giorno piú oscure le occhiate che mi si davano. [p. 133 modifica]

Ho un grand’obbligo a Dio del temperamento risibile che m’ha concesso.

Mio fratello Francesco aveva scritto da Corfú che si imbarcava per venire, e credei opportuno l’attendere pazientemente la sua venuta, per avere un appoggio alle mie innocenti intenzioni. Ero solo, isolato, odiato e contemplato come una cometa minaccevole.

Per distormi dagli amari pensieri richiamava tutti i miei spiriti e gli obbligava ad occuparsi a scrivere de’ ruscelli di versi, di prose e di fantasie.

In una lunga concatenazione di persecutori pensieri afflittivi di tutti i miei giorni, sino al punto in cui scrivo ora, oltre al soccorso del mio interno robusto e democraziano, non ho cercato altra distrazione che quella di studiare l’umanitá e quella d’empiere infinite risme di versi e di prose satiriche, morali e di spirito. Posso dire che lo immaginare e lo scrivere sia stato a’ miei dolenti pensieri ogn’ora quello che sono gli opiati calmanti a’ dolori di ventre.