Memorie inutili/Parte prima/Capitolo V

Capitolo V

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CAPITOLO V

Mia infermitá mortale superata, mia mortalitá,

mia amicizia, intrinseca, unica, consolidata nella Dalmazia.

Piantata la nuova reggenza e piantata la corte, ebbi otto soli giorni di tempo da studiare il mio impiego di venturiere, ivi detto d’aiutante di S. E., e di seguire il mio costume d’osservatore, nel principio del mio triennio.

Fui assalito da una febbre, che s’è dichiarata dell’abilitá delle maligne.

Vedendomi solo nel mezzo a persone che conosceva appena, aggravato da una infermitá micidiale, e in que’ princípi in una stanza provvigionale assai squallida, le di cui finestre in iscambio d’invetriate avevano le impannate di tela infracidita dal tempo e dalla pioggia, lacera e volante ad ogni soffio di vento, con un scarsissimo erario nella mia borsa, non potei impedire all’umanitá il rammemorarsi che alla piú picciola febbre, nella mia casa paterna aveva per lo meno una diligente assistenza e non mai disgiunta una serva o una sorella dal mio guanciale, che fugava le mosche molestatrici dalla mia faccia.

La poca premura che aveva di vivere mi soccorse a scacciare de’ pensieri e delle rimembranze inutili.

Mentr’era un giorno solo e ardente nella mia affannosa febbre, uno di que’ galeotti, che ravvolti in una specie di schiavina ridotta veste, cinti a traverso con una fune, entrano dagli uffiziali di quando in quando ad esibirsi a’ bassi e schifi servigi e involare qualche cosa se ben fatto vien loro, si affacciò all’uscio della mia stanza poco dissimile dalla sua, e mi chiese se mi occorreva qualche cosa da lui.

Gli donai alcune gazzette perché m’inviasse un confessore; uffizio ben differente da quello ch’egli era venuto per fare. Vidi [p. 54 modifica]poco dopo comparire un buon padre dell’ordine de’ predicatori di S. Domenico.

Egli m’ascoltò, ed io l’ascoltai, e mi sono trovato capacissimo di morire con una costanza da antico romano.

De’ moderni filosofi, che hanno adottata, a mio credere, assolutamente un’immagine falsa della filosofia, troveranno in questo mio apparecchio alla morte d’accordo con un domenicano, una piccolezza plebea di pensare.

Io non seppi e non saprò giammai disgiungere la filosofia dalla religione, né ho potuto giammai arrossire sul punto della religione di somigliare a un bambino e ad un vecchio decrepito. Ringrazio il mio bamboleggiare per innocenza, e il mio vaneggiare con una natura spossata per de’ timori avvalorati da tanti grand’uomini in questo proposito, e giudicando ciò che si chiama da alcuni «sublimitá di pensare», cecitá dannosissima, cagionata da’ sensi viziati e da un corrotto costume. Non invidio sublimi.

Il protomedico Danieli, assai grasso e assai nero, a cui ero stato raccomandato da S. E. Provveditor generale, non mancava né di attenzione né di polverine né di cordiali né di cristeri, colla solita inutilitá. Mi consigliò a rassegnarmi alla morte ed a ricevere la venerabile eucaristia, edificatissimo che avessi prevenuta l’inefficacia della sua dottrina ipocratica colla mia confessione penitenziale.

Richiamando tutto il residuo de’ miei spiriti vitali, feci con sommo raccoglimento anche questo passo. Trovava pochissima differenza da quella mia stanza ad un sepolcro riguardo al mio corpo, e per ciò non mi passava nemmeno per la fantasia il ribrezzo d’abbandonarlo a’ beccamorti.

Lo stato mio attendeva la sacra unzione, quando una di quelle emorrogie di sangue dalle narici che m’avevano prima ben quattro volte ridotto all’uscio della morte, venne a farmi rivivere.

Era ridotto lo spettacolo d’una infinitá di popolo, che si affollava intorno al mio letticciuolo per vedere la beccheria del mio naso. [p. 55 modifica]

Furono adoperati invano gli strettoi, le polveri, l’erbe, gli empiastri astringenti, le pietre simpatiche, le parole in arcano, e tutti i pentacoli divoti e magici delle femminette.

Empiuti ch’ebbi due catini di sangue, caddi in un deliquio, che il protomedico appellò «sincope» e che aveva tutte le apparenze di morte.

Il sangue cessò d’uscire, rinvenni dopo un quarto d’ora, e tre giorni dopo la «sincope», mi trovai bensí debile, ma libero affatto di febbre e risanato.

La mia ignoranza non potè conciliare col caso avvenuto in quella mia infermitá il parere del protomedico, il quale aveva proibito come un carnefice in quella natura di male un salasso, ma una dozina di medici franchi fisici ragionatori con dieci discorsi diversi, appoggiati a dieci ben fondate ragioni diverse, d’origine diversa e di conghietture tutte diverse, spiegherebbero diversamente questo fenomeno con somma limpidezza e felicitá, illuminando o sbalordendo la mia ignoranza. Grand’intelletto ha dato messer Domenedio agli uomini!

I lettori di queste Memorie possono facilmente essere profeti sullo stato in cui si rimase, dopo quella infermitá, un borsellino verde, che alla mia partenza m’era stato consegnato leggero e tisicuzzo.

Conobbi in quella amara circostanza la cordialitá ingenua e soziale del signor Innocenzio Massimo, nobile di Padova, ch’era nella corte capitano d’alabardieri.

Quest’uomo, veramente raro per le doti dell’animo suo, per la sua prontezza di spirito, per il suo coraggio, per la sua attivitá e onoratezza, fu l’unico intrinseco amico ch’io avessi in quel triennio di lontananza dalla mia famiglia, terminato il quale, non correr di tempo, non distanza di luogo, non umane vicende poterono troncare o diminuire l’amicizia nostra, che da trentacinqu’anni circa è ancora e sará sempre la stessa.

Alcune qualitá ed alcune massime indivisibili dal suo temperamento: verbigrazia, di non voler sofferire offese; di non voler essere ingannato; di scoprire con penetrazione l’ingannatore; d’opporsi nella sua famiglia alle superflue spese introdotte [p. 56 modifica]dal costume guasto, dalla leggerezza e dal lusso, gli hanno fatti de’ nimici.

La decenza regolare ch’egli sostiene nel di lui albergo; l’ospitalitá con cui accetta e tratta i suoi conoscenti ed amici; gli agi che con immensa spesa apparecchia a’ suoi posteri; le beneficenze ch’egli usa verso gli afflitti; la concordia che proccura negli animi esacerbati de’ suoi concittadini; le brighe ch’egli si prende di somma fatica per tutti quelli che a lui ricorrono, non poterono giammai disarmare una turba fatta ingiusta dalla corruttela nel pensare introdotta dalla scienza del secolo, e che di giorno in giorno va rendendo l’umanitá sempre maggiormente franca e sciolta e leggiadra in quella cattiveria a cui pende naturalmente.

Perché ho pubblicati in istampa de’ miei sentimenti correlativi a quest’ottimo amico mio nel tomo quarto delle mie inezie teatrali a lui dedicato, e perché nel corso di questi mal impiegati fogli caderá a proposito ancora il far menzione di lui, seguo le mie memorie niente memorabili.